I rossi e i neri/Secondo volume/XXXV
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XXXV.
Dal campo dell’Iliade alla patria di Omero
Ha ragione il signor di Montalto con la sua triste sentenza? Sì, e no; è questione d’intenderci. Che cosa è il fato? Se davvero una forza prepotente, fuori e sopra di noi, conseguenza logica di atti sconsiderati, frutto amaro d’incaute passioni, potremmo dire di no; perchè agli atti nostri c’è qualche volta rimedio, e alle nostre passioni può sempre comandare lo spirito. Ma, d’altra parte, come fare a sceverar noi medesimi dalle cose, che premono d’ogni lato, confondendosi troppo spesso con noi? Come esser padroni di mutar l’indirizzo del vivere, quando il verso è preso, ed altre forze, soverchiando la volontà, ci travolgono? L’istesso Cosimo Donati, il nobilissimo duca di Feira, che ebbe la rara virtù di sopravvivere al suo dolore, facendosi della propria sventura una religione, una norma di vita, poteva dirsi libero in tutto dagli eventi? Diciamo dunque, temperando l’orgoglio della nostra filosofia, che in un certo punto, i casi nostri prendono un corso violento, su cui non ha più potere la nostra ragione; e il fato riacquista allora quei diritti, che il nostro libero arbitrio non ha fatto in tempo a contendergli.
Contro il fato di Aloise combatteva ad ogni modo il duca di Feira. A quanti atti, che parevano irrevocabili, non aveva gli rimediato? Ed anche al resto si sarebbe provveduto, che era certamente il meno, come quello che dipendeva soltanto da uno sforzo di volontà. Partire, a buon conto; levarsi di lì; condurre Aloise per tutte le vicende, per tutte le distrazioni forzate di un lungo viaggio! In quel muoversi irrequieto, variando sensazioni, soggiacendo a nuove necessità, portate lì per lì dalla diversità dei luoghi e dei costumi, non aveva egli, il povero Cosimo, ingannata la sua pena, trovate le ragioni del vivere? Perchè non le avrebbe trovate il suo Aloise, che finalmente non doveva serbarsi fedele a nessuna immagine celeste, a nessun sacro ricordo? Così fu impreso il viaggio, così fu continuato; capricciosamente, in apparenza, ma con accorta progressione di varietà, per tutte le capitali d’Europa, non isfuggendo neppur quelle dove Aloise era già stato, e dove anche aveva sofferto.
Muovere incontro ai dolorosi ricordi, col proposito di lasciarsi soverchiare da essi, è atto di poca prudenza, certamente; passarci accanto, irritandoli un poco, quasi mostrando di non temerli, è buona arte di guerra, specie di ricognizione offensiva in cui si provano le nostre forze, e si addestrano a più grosse giornate. Erano perciò andati a Parigi, ma proseguendo assai presto per Madrid, per Lisbona, per Londra; erano stati a Brusselle, a Monaco, a Vienna, a Berlino, ma spingendosi tosto a Stoccolma, a Pietroburgo, a Mosca. La Grecia, divina nelle sue memorie, vero balsamo a tutti i mali dell’anima, aveva poi la miglior parte del tempo loro. Così meglio disposti, erano passati da Atene per Costantinopoli; sempre in moto i corpi, sempre in agitazione gli spiriti, qualche vantaggio doveva pure venire.
Già più e più volte in Grecia il duca di Feira aveva veduto Aloise infiammarsi; triste a Misitra, ma per la scomparsa delle istesse rovine di Sparta; accigliato in Maratona e al passo delle Termopili, ma per la troppo lunga carestia di Milziadi e di Leonida ai tempi moderni; accigliato ancora e triste in Atene, ma più spesso esaltato per ciò che rimaneva dell’antica grandezza, dell’antica bellezza, dell’antica idealità degli Elleni. - Chi può pensare, - aveva egli detto un giorno, - chi può pensare ai propri dolori, salendo all’Acropoli? Quanta storia, quant’arte, e quanto pensiero, tra l’Erettèo e il Partenone! E il mondo ne vive ancora! -
Da Costantinopoli, ultimo lembo d’Europa, il salto alla costa d’Asia era naturale, come a dire indicato. Aloise gradì molto l’occasione di visitare la Troade. Laggiù, da occidente e da settentrione, s’era mostrato sollecito di vedere molte cose, pensando di far cosa grata al duca di Feira; ma in quelle terre orientali diventava particolarmente sollecito, singolarmente curioso per sè. Da un libraio della via di Ermete, in Atene, aveva comprati parecchi volumi, e tra questi l’Iliade; poteva dunque viaggiare la Troade con Omero alla mano. - Questo è un Baedeker! - diceva egli sorridendo al duca di Feira. - È certamente il primo della serie! -
La celia e il sorriso dicevano molto al suo Mèntore, che si lodava in cuor suo di aver condotto in quella forma il viaggio.
A quel tempo il signor Enrico Schliemann, gran milionario e gran pellegrino d’amore per la storia e per l’arte, non era anche disceso laggiù con la sua bella fede e con le sue buone squadre di manovali, per ritrovare e disseppellire i sacri avanzi di Troia. Intorno alla situazione dell’antichissimo Ilio, «raso due volte, e due risorto», si era tuttavia fra i dubbi, le incertezze e le tenebre, aggravate sempre più dalle dispute degli eruditi tedeschi. Hissarlic, o Burnabachi? Aloise si dichiarò volentieri per l’eminenza meno distante dal mare. I campi delle quotidiane battaglie tra Greci e Troiani erano Lì, ragionevole distesa di terreno, su cui dall’alto delle mura potesse spaziare lo sguardo trepidante di Priamo; erano lì i sacri fiumi, Simoenta e Scamandro, anche ammettendo che essi, da quegli irrequieti vagabondi che sono sempre stati i fiumi, avessero cangiato più volte di letto.
Al nostro giovine amico, che con tanta divozione classica percorreva quei luoghi, facendo sostare ad ogni tratto la scorta, parve di riconoscere un po’ sopra a certe fontane il luogo delle porte Scee, donde Ettore aveva preso dalla sua Andromaca e dal figliuoletto Astianatte i patetici congedi cantati divinamente da Omero; e lì presso, il luogo del muro alto, dalla cui sommità la bellissima Elena aveva additati al suo buon suocero provvisorio i più famosi e i più temibili condottieri di Grecia. Elena, la cagione dell’eccidio d’un regno! Elena, la grande bellezza fatale! Che fascino era in lei? Aloise non si fermò neanche a pensare se ella avesse gli occhi verdi, o turchini; che tanta serenità di spirito non si poteva pretendere ancora da lui. Ma intanto egli filosofò la parte sua sulle rovine cagionate da Elena, e sui pericoli che una soverchia bellezza può far correre agli uomini, povera materia infiammabile, come la stipa e il capecchio.
Filosofava, adunque. Ora, quando l’uomo può filosofare, è segno che può ragionare. Quando può ragionare, è segno che ha la testa sgombra e libero il cuore. Così pensava il duca di Feira, ascoltando il suo compagno di viaggio. Egli aveva già potuto osservare come il suo Aloise si ritrovasse più franco e più ilare in quelle terre orientali, che non laggiù, da occidente e da settentrione, in quelle sontuose capitali europee. Non ferrovia, non cavalli di posta, non alberghi, non comodità della vita; strade malagevoli, sentieri da capre, rompicolli, guadi da raccomandarcisi l’anima, rovine, desolazioni; che importa? Tra quelle desolazioni non si è solamente lontani nello spazio; si è lontani ancora nel tempo. Anche laggiù nella Troade era già una distanza enorme da Genova, e da Quinto, il ritrovarsi a tu per tu con Elena Argiva.
- Se fosse qui il Giuliani! - aveva esclamato Aloise. - Quanto latino metterebbe fuori, vedendo il tumulo di Achille, et solum quo Troia fuit. Hai notato, babbo, - ( da qualche tempo Aloise dava del tu al duca di Feira, chiamandolo ancora col dolce nome di padre) - hai notato come il dottor Giuliani parli spesso e volentieri in latino? Può forse annoiare tanti altri, non me. Mi pare, sentendolo infiorare i suoi discorsi di tante citazioni, buttate anche là con un tono di celia, che le cose della vita moderna, della vita comune, prendano colore e sapore d’antico, quasi di eroico, e insieme di universale. Quel po’ di celia che v’aggiunge, come un pizzico di sale, tempera tutto; e di ciò che potrebbe parere un difetto a qualcuno, te ne fa una qualità; che so io? una cosa gradevole. Io gli invidio quest’arte. Perchè, infine, ci è data la parola? Per dire soltanto delle volgarità e delle sciocchezze, lasciando che un po’ di dottrina si spenda soltanto nelle conversazioni noiose dei pedanti? Ah, vorrei qui il Giuliani; e che ci parlasse di Elena! Ne sentiremmo di belle!
- M’immagino che la difenderebbe; - disse il duca di Feira. - È tanto cavaliere quanto è originale.
- Eh, credo bene che avremmo un panegirico; - ripigliò Aloise, fermandosi volentieri su quel tema. - Una buona ragione per farlo, la troverebbe di certo. La cagione di tanti guai non fa più nessun male ad anima viva, mentre l’immagine sua può ancora alimentare molte fantasie di poeti e di artisti. Le morte bellezze non fan più soffrire nessuno; possono consolare, artisticamente evocate, in un poema, in una statua, in un quadro. Che follìa, del resto, il soffrire per quelle nobili matte! Non val meglio ammirarle, per ciò che in esse è stato, ed è tuttavia, di veramente divino? Per restar tra le antiche, Frine era un mostro di corruttela, senza dubbio; il suo nome istesso, che era poi un soprannome, datole quasi per marchio d’infamia dai suoi contemporanei, lo dice. Frine, rospo! Ma che importa ciò? Frine è un miracolo di bellezza; e Prassitele copia appuntino quella perfezione di forme; e quei di Gnido la mettono sull’altare, per rappresentarvi Afrodite. La bellezza, quando è sovrana, va trattata così; adorata, come usarono i Greci, ma facendone un marmo. Sapienti, i Greci; e noi sciocchi, non ti pare? -
Il duca di Feira assentiva, sorridendo.
- Ed anche cattivi; - soggiunse Aloise, - perchè troppo spesso consideriamo le belle col criterio della nostra passione, del nostro egoismo, che è così spesso un insulto alla legge morale.
- Ah, qui ti sento anche più volentieri; - disse il duca, esultante.
- Ma sì; - proseguiva infervorato Aloise. - Vediamo una stupenda creatura, per caso; il nostro cuore s’infiamma; la nostra ragione, che dovrebbe trattenerci, non protesta, acconsente, si associa, come si farebbe in parlamento, per disciplina di partito. La donna per cui ci siamo infiammati, vedendola a caso, ha da corrispondere ai nostri ardori, sotto pena di esser dichiarata senza cuore e senz’anima. Ma se non è libera? Se ha data già la sua fede ad un altro? Oh, non dubitare; ho meditato anche su ciò, e lungamente, correndo il mondo con te. Ma come va che nell’ardore delle nostre passioni, quando sono ancora sul nascere e permettono di ragionare, non pensiamo noi a queste cose? Ci ha guastati, io credo, il veder tante e tante graziose creature, che il nostro costume ha ridotte così male, condannandole a non veder altro nel matrimonio, fuorchè il principio della loro libertà, e il passaporto della loro galanteria. Ma infine, anche sotto certe apparenze che gli usi della conversazione hanno giustificate, le graziose creature non sono tutte così sciolte d’ogni vincolo e d’ogni legge. Ci sono poi gli alti caratteri, che vanno rispettati; in ognuna quel carattere ci può essere, e noi non essercene in tempo avveduti; e se una di queste ci mette sdegnosamente fuori dell’uscio, o, con più grazia, fuor di speranze, fa bene. -
Il duca era fuori di sè dalla gioia.
- Ma bravo, il mio Aloise! - gridò, accostandosi a lui e con atto amorevole battendogli della palma sul braccio. - Tu mi maravigli, quest’oggi. Ci voleva proprio il ricordo di Elena Argiva, per farti render giustizia.... ad Andromaca!
- Oh, le donne antiche non c’entrano affatto, - rispose il giovane, crollando la testa, e quasi porgendola alle carezze della mano patema. - Non sento queste cose da oggi, sotto le porte Scee. Il corso delle mie meditazioni è più antico, ed è opera tua. Prima di tutto, non mi hai tu fatto leggere quel brutto libro, lassù, alla Montalda, dove lo avevi portato per me? Amaro libro; - soggiunse Aloise, rabbrividendo un pochino; - amaro come quello che fu dato dall’angelo per cibo al veggente dell’Apocalisse, ma che lasciò succhi vitali nell’anima mia. Tra molte parole un po’ dure pel mio amor proprio, ce n’erano alcune, in una lettera di donna, che mi son parse giuste, e che mi stanno sempre davanti agli occhi: «Avrei dovuto io dimenticare me stessa, e ciò che debbo al mio buon nome?» Aveva ragione, la bella orgogliosa; e su questo punto poteva dire assai più, che sarebbe stato per mio bene, e fino da quella triste sera della Montalda m’avrebbe guarito, facendomi vergognare della mia tracotanza colpevole. Se me ne sono vergognato poi, se oggi mi sento guarito, non ti maravigliare, te ne prego. In tua compagnia son diventato un altr’uomo. Il tuo esempio era buono. Hai amato, e più fortemente di me. Non ti era possibile non amare, dov’erano bellezza e virtù. Anche per questo hai amato più nobilmente; e dei tuoi dolori puoi darti gloria. Non io, pur troppo, dei miei!
- Se ti sei vinto, puoi darti gloria di questo; - disse il duca di Feira. - Saper vincere sè stesso è il sommo della forza morale.
- Ma io non potrò farmene un merito! - esclamò Aloise, sorridendo. - Non son io che ho vinto; sei tu che m’hai fatto riconoscere come io fossi un dappoco. Che stoltezza la mia! e di tanti miei pari! Crediamo le donne angeli, così alla rinfusa, senza far distinzione. Angeli! E come finalmente potrebbero esser tali, in mezzo a tanta moltitudine di sciocchi e di scioperati che le circondano? -
La burrasca girava, verso un altro quadrante. Tra sciocchi e scioperati c’era da scegliere; ed Aloise ne passò molti in rassegna, tutti della società elegante in cui era vissuto. Di questi uno ebbe più lunga sentenza; e fu per caso il Cigàla.
- M’hai detto che è una testa quadra e un cuor libero; - notò il duca di Feira; - una specie di filosofo in guanti.
- E in fondo, m’annoiano, i filosofi in guanti; - rispose Aloise. - Hanno il cuor libero, e sta bene; ma ancora amano far pompa della loro libertà, come le case vuote del loro «appigionasi». Non promettono niente, non s’impegnano a niente; sorridono e passano. A questi, poi, si fa volentieri la parte del leone. Ricordi la lettera, di cui parlavamo poc’anzi? Il Cigàla (vi si leggeva) il Cigàla è quello che vale un tantino più degli altri; cortese, senza aspettar nulla in ricambio; arguto, senza cattiveria; bei modi, umor sereno; ornamento in un salotto, non peso; si vuol far credere insensibile; ma bisognerebbe che ad una donna saltasse il ticchio di metterlo alla prova, e si vedrebbe. -
Il duca di Feira pensò che il suo Aloise possedeva una memoria di ferro. Anche leggendo rapidamente, il giovine aveva molto ritenuto del libro amaro. Amaro al palato, del resto; ma buono e nutritivo allo stomaco. Anche questo pensava il saggio duca; e l’animo suo, finalmente aperto a liete speranze, si compiaceva di stimolare, temperandoli all’uopo, i giudizi del suo figliuolo d’adozione.
- Capisco, sì; - concesse il duca; - la gioventù è capace di adattarsi a molte cose, ch’ella stessa non prevede e non pensa. Ma quel tuo Cigàla è sincero nel suo modo di sentire; leale, me lo dicevi soprattutto.
- E non mi voglio già disdire sul conto suo; leale per quel che fa la piazza; - soggiunse Aloise. - In fine, è il tanto che basta, e di cui possiamo contentarci nelle relazioni sociali. Io, del resto, lo avrai già notato, ho un debole per Enrico Pietrasanta; un cuor d’oro, quello, che non si cela, che non fa il tenebroso; un carattere aperto; e modesto, poi, tanto modesto da adattarsi alle seconde parti, senza lasciarti scorgere che potrebbe aspirare alle prime. Se non fosse per lui, che con tante amabili sue qualità mi offusca un tantino il giudizio, direi volentieri che il Cigàla è una perla. Ma adagio; - soggiunse Aloise, ridendo della propria liberalità; - teniamo qualche cosa in serbo per altri amici, che abbiamo veduti alla prova, e che meritano i primissimi onori. Come definiremmo il Giuliani, così caldo, ardito, sincero, e così ameno per giunta? Che cosa diremo poi di Lorenzo Salvani? Quello è un uomo! Gli si leggono negli occhi tutte le virtù, cardinali e teologali; non ti pare? Sarà felice, la mia bella cuginetta, con quel fior di cavaliere. Ah, - conchiuse il giovine, con un razzo finale di ammirazione e di affetto, - se dopo morti sotto un aspetto, dovessimo tornare in vita sotto un altro, ti giuro, padre mio, che vorrei rinascer Salvani! -
Era gaio, Aloise; e fu gaia la giornata della Troade, col pasto improvvisato dagli uomini della scorta, sotto le mura iliache, di cui non si vedeva più traccia, accanto alle fontane cantate da Omero, che sussurravano ancora. Distrutta è la città di Priamo; - potevano dire i due nobili viaggiatori; - disperse le sue reliquie, con le bellezze lusinghiere di Elena Argiva; tu sola vivi eterna, o natura.
Il più vecchio dei due poteva anche pensare dell’altro; e di quell’altro che pensava gli si dipingeva una gran contentezza sul volto. In quella giornata della Troade, fra le scarse reliquie di una città e di una vita estinta, nasceva un mondo di speranze per lui. Aloise risanato, Aloise riconciliato coll’esistenza; quale vittoria! E il pensiero di Cosimo volava lontano, fino alla Montalda, presso la tomba di Eugenia.
- È salvo! è salvo! - diceva a sè stesso il duca di Feira, lasciando quella medesima sera le rive dello Scamandro. - Ed ora, per compir l’opera, bisognerà avviarne lo spirito a qualche utile occupazione.
Due giorni dopo quella gita archeologica, i due viaggiatori riprendevano il mare, costeggiando la punta settentrionale dell’Asia Minore, dallo stretto dei Dardanelli al golfo di Smirne. Andavano, dalla terra che Omero aveva celebrata col canto, alla terra dove era nato il divino cantore. C’era poi nato davvero? Lo asseriva Erodoto, antichissimo tra i biografi; ma altre sei città greche, continentali ed insulari, contendevano a Smirne quell’altissimo vanto. Un famoso distico latino, traduzione di un altro e non meno famoso distico greco, aveva raccolte a mazzo le sette rivali. Che peccato non ricordarlo! Se ci fosse stato il Giuliani, come l’avrebbe recitato a volo, e con quell’ardore che metteva in tutte le cose ch’egli facesse o dicesse! E ancora, che buon compagno di viaggio sarebbe egli stato, con tante cose da vedere, da ammirare, da commentare, e laggiù ed altrove, anzi, com’egli avrebbe certamente detto, nell’universo mondo! La terra, a buon conto, - notava Aloise, - è più vasta che non si pensi. Un giorno era tutto, quando vedevamo in essa il centro del creato; oggi le grandi scoperte e i grandi numeri dell’astronomia ce la riducono ad una miseria, da far sorridere di compassione. Niente di male, dopo tutto; essa può ridere con tanto gusto di noi!
A Smirne, città orientale e insieme tanto europea nell’aspetto come negli usi del vivere, era naturale il pensare a due mondi, l’uno sull’altro innestati, e lo intravvedere alla bella prima quanto il mondo occidentale avrebbe da fare nell’orientale; soprattutto da rifare, poichè il prodigio era già stato operato una volta. Il duca di Feira accarezzava queste idee di Aloise, che già davanti a Lemno, a Mitilene, ad Ipsara, a Scio, immaginando sempre d’essere in vista di Rodi, si era gittato con tutto l’ardore dei ricordi universitarii sulle famose leggi Rodie, esemplari di giurisprudenza commerciale e marittima ai Romani, conquistatori e civilizzatori del mondo. E dai commerci antichi era sceso con facile trapasso ai moderni, considerando quanto ci fosse da tentare, con nobile e fruttuosa audacia, per istrappar l’Oriente, il vicino e il lontano, dalla sua fatale inerzia, dalla sua supina ignoranza, per tirarlo nella vasta corrente della vita moderna.
- Ecco un bel programma, Aloise; - diceva il duca di Feira, cogliendo la palla al balzo, mentre sul terrazzino del primo albergo di Smirne il giovine Montalto dava gli ultimi tocchi al suo disegno di rinnovamento orientale; - ed è qui la tua vocazione. Vedendo così largo e così lontano, tu non vorrai già ridurti a vivere ancora la vita ristretta e disutile in cui ti ho ritrovato. Sei ricco per me, poichè mi accetti per padre, ed io non ho creatura al mondo ch’io debba amare e favorire, dopo di te. Ma non sarai un fannullone, non essendo mai stato un gaudente. Ti sorride l’idea di esser utile alla patria.... fuor della patria? Io, disgraziato, non ho potuto, con tanto desiderio che ne avevo nell’anima, e ad un’altra patria ho dovuto consacrare l’opera mia. Tu, fortunato, senti che la tua sarà grande; mi par d’intendere che l’ora del destino è imminente. Comunque sia, dove sei nato, dove si tiene alta la bandiera dei tre colori, ivi è l’Italia, presente e futura: servendo il piccolo Stato dove sei cittadino, servi già il grande, che verrà poi.
- Ho inteso, babbo: mi vuoi mettere in diplomazia.
- Per l’appunto; è l’unica condizione in cui ti sarà dato di colorire i disegni che da parecchi giorni mi esponi. Quello che si vuol fare, si faccia presto; è massima antica. Ritorneremo a Genova, per aggiustare le cose tue, e quelle dei nostri amici. La Montalda.... il santuario.... può rimanere in custodia ai Salvani. E subito manderemo ad effetto la tua felicissima idea; non è vero? Servire la patria.... fuor della patria, ti ho detto; ingrandire la sfera della sua legittima azione, dar luce ed aria, aprire quanto più sia possibile il mondo ai nostri commerci, alle nostre arti, al nostro pensiero, alla nostra lingua; ecco l’opera varia e mirabile a cui deve lavorare chi può, innamorandosi, vivaddio, di qualche cosa che ne franchi la spesa.
- Giusto! - disse Aloise. - Ma saran poi tutte rose?
- Eh, t’intendo; - rispose il duca, tentennando la testa. - La mia esperienza, tra tante imprese fortunate, ricorda ancora parecchie disillusioni. C’è qualche volta il tuo governo in mano a gente dappoco, che non t’intende e ti guasta il lavoro. Ma più spesso, trattandosi di un lavoro lontano, egli non prevede nulla che meriti l’intromissione di un guastamestieri, e ti lascia fare a tuo modo. Così, ciò che tu accortamente disponi in questa o in quella parte del mondo, è sempre utile preparazione ad atti che tu solo avevi veduto opportuni, e che tu solo hai lavorato a render possibili. Così, finalmente, si gettano i semi della grandezza futura d’un popolo.
- Giustissimo! - gridò il giovine Montalto, persuaso da quella argomentazione del duca di Feira. - Ed io vedrò volentieri di tentar qualche cosa in questo povero Oriente.
- Scegli bene il tuo campo; - riprese il duca. - Si era cominciato così, con Marco Polo; ma poi, povera gente, abbiamo smarrita la strada. Sei dunque risoluto?
- Sì, padre mio. Tanto, la vita oziosa non m’è andata mai. Mettiamoci di buon animo a servire la patria.... fuor della patria. Ma bada, con una restrizione.
- Quale?
- Siamo forse alla vigilia di grandi cose. L’hai detto anche tu. Si sente odor di polvere nell’aria. Se scoppiasse una guerra?...
- Ora?
- Non ora, che entriamo nell’inverno; ma nella prossima primavera, perchè no? E ti pare che io debba mettermi al tirocinio della diplomazia, mentre gli amici farebbero ben altro uso del tempo loro? il Salvani, ad esempio, ripigliando la spada, come capitano di Garibaldi, e il Pietrasanta entrando volontario in un reggimento di cavalleria? Son genovese, diceva egli per l’appunto, un giorno che si parlava di guerra possibile; cadrà dunque su Genova Cavalleria la mia scelta. Il duca di Feira stette pensoso un istante; poi, disse, con accento solenne:
- A questo sacrifizio il mio cuore si adatta. Tanto più, - soggiunse egli, rizzando la testa, - che son forte abbastanza per fare qualche cosa ancor io.
- E allora, qua la mano, camerata, - osò dire Aloise. Ma non osò stender la mano; bensì, con atto di devozione filiale, chinò la fronte sul petto del duca.