I rossi e i neri/Secondo volume/XXIII
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XXIII.
I presentimenti della vigilia
Quantunque a malincuore (e ce lo crederanno agevolmente i lettori che hanno avuta la pazienza di seguitarci fin qua), dobbiam pur salire una quinta volta all’ultimo piano del palazzo Vivaldi, nel quartierino di Bonaventura Gallegos.
A noi piacciono i lieti casi, le gaie scene, quelle oasi frondose dove l’azione si posa, dove la brezza meridiana, aliando sotto il padiglione degli alberi esotici, accarezza le guance delle donne belle; dove i motti arguti e festevoli hanno l’aria di significar tante cose, e le lievi mussoline ne lasciano indovinare tant’altre; dove la luce, l’aria, le fragranze dei fiori, tutto parla d’amore.
A noi piacciono le veglie, i geniali ritrovi del teatro e del palazzo, dove lo splendore dei doppieri fa sfolgorare di ranciato vivissimo, di verde limpido, di azzurro carico, le gemme preziose che adornano il collo, gli orecchi e i polsi alle belle marchesane; dove lo sguardo saettato e la parola susurrata fanno scintillare occhi più belli dei diamanti a gran pezza; dove musica e poesia, segretarie galanti, dànno a prestanza le note e le sillabe per coniugare cantando il più bel verbo della lingua italiana; dove l’ardor della danza svolge profumi più grati che non le rose di Saron e stille di sudore assai migliori delle perle eritree, e non già da bersi disciolte, come è fama adoperasse Cleopatra, ma da suggersi intiere, innanzi che siano spiccate dalla conchiglia natìa.
Son questi i fiori della vita, queste le oasi del viaggio. Ma per un bel fiore che sbocci solitario al sommo d’un ramo, quanti sudori di tronco nodoso! Per un’oasi, in cui ripararsi un tratto della sferza del sole, quante leghe di monotono deserto! E noi, che nel giardino non siamo neppure i visitatori scioperati, ma i pazienti orticoltori, a cui ogni fioritura costa settimane di fatica, noi che in questo viaggio non siamo i curiosi giramondi, ma i condottieri della carovana, non abbiamo più uno di questi fiori, più una di queste geniali fermate, da offrire ai lettori benevoli; non più corti d’amore, nei boschi di Quinto, non più feste da ballo in via Nuova. Quantunque siamo appena al 14 di ottobre, la villa del tiranno di Quinto è deserta; la bella Ginevra dagli occhi verdi, tornata dal suo viaggio di Francia e Lamagna, ha dovuto rimanere in città per certe faccende del marchese Antoniotto, e la stagione delle veglie, dei teatri, dei balli, è ancora di là da venire.
Noi d’altra parte incalzano le necessità della storia. Non è più tempo di soste; alla Montalda abbiamo, per dir così, bevuto il bicchier della staffa; il nostro racconto galoppa alla catastrofe; ad eventum festinat. Armiamoci dunque di coraggio, e poichè gli è necessario, torniamo in casa del gesuita, dove piglieremo due colombi ad una fava (meglio sarebbe il dire corvi ad uno stinco) perchè il padre Bonaventura è nella sua camera da studio in compagnia del Collini. E ben dobbiamo ascoltar noi quello che diranno i due sozii, perchè il fido Michele non è questa volta nella sala da pranzo, per origliare ogni cosa dal buco della toppa. La signora Marianna, oramai, cotta e stracotta com’è, gli lascierebbe far questo ed altro; ma pensa che ci vuol giudizio, e Michele, che n’ha la sua parte, non si mette più a quelle imprese pericolose. Ambedue sono per farne una coi fiocchi; ma, non dubitate, ci vanno col piè dell’oca, e certo non romperanno l’ova in sull’uscio.
Bonaventura non era lieto, quel giorno; e si vedeva. Egli, per solito così chiuso dell’animo, che sapeva comandare al suo volto e foggiarselo a maschera per dissimulare le sue contrarietà, aveva quel giorno una cera da funerale. Sorrideva, ma a stento; parlava, ma distratto; come se, mentre rispondeva al Collini, stesse pure ascoltando ciò che un’interna cura gli bisbigliava nel cuore.
E sì che il fiero lottatore oramai poteva dirsi al termine del suo faticoso lavoro, e presso a raccoglierne i frutti. Il vecchio Vitali, come s’è accennato, aveva alla perfine fatto testamento. Per mettersi in pace con Dio s’era obbligato a dar fuori pel primo di gennaio un milione, che era appunto la somma lasciata in sue mani dai gesuiti fuggiaschi, e della quale, per la morte del Padre Martelli, non si sapeva più dove raccapezzare la ricevuta, che pure doveva esser stata sottoscritta dal banchiere. Questa era una restituzione; ma il signor Giovanni non aveva voluto saperne del vocabolo, e aveva in quella vece accettato una variante suggerita da Bonaventura, snocciolando quella somma a lui, perchè la trasmettesse a Roma, come offerta del pietoso banchiere alla chiesa del Gesù. Ciò fatto, al Vitali sarebbe rimasto ancora un milione e centomila lire; e di questa somma egli parlava per l’appunto nel suo testamento, lasciandola, tranne pochi legati a gente di servizio, in eredità al medesimo Bonaventura, come ricompensa alle sue cure amorevoli di tanti anni.
E perchè il Codice albertino non gli avrebbe concesso di disporre d’oltre i due terzi della sua sostanza in quel modo, e una terza parte sarebbe andata necessariamente ad Aloise, indicò nel testamento, come parte di quella sostanza, le quattrocentomila lire che aveva ricevuto in dote sua figlia, quando egli la sposò al marchese Alessandro Montalto. Per tal modo egli lasciava al nipote quello che non poteva negargli; ma computandovi quello che già i suoi parenti avevano ricevuto.
Ora il conto è presto fatto. La fortuna del banchiere Vitali oltrepassava i due milioni. Ma uno doveva esser dato alla mano, e non occorreva parlarne; rimaneva adunque un milione e poco più, forse centomila lire, secondo s’è detto; insomma un milione e mezzo contando la dote di Eugenia Vitali. La terza parte di Aloise, figlio unico di Eugenia, riusciva di un mezzo milione, sulla carta; in contanti, era appena di centomila lire; in tasca, poi, riusciva a nulla, poichè, se il giovine Montalto non pagava i suoi debiti, com’era da argomentarsi certissimo, alla morte del nonno i creditori avrebbero messo il sequestro sulla parte a lui spettante della eredità del Vitali. Il disegno, come si vede, era bene immaginato, ed Aloise era messo, coll’aiuto della provvida legge, sul lastrico.
Da questo lato adunque tutto volgeva a seconda. Ma il guaio era dall’altro. Dopo l’accaduto del giardino, la fanciulla di casa Salvani era stata trasportata all’infermeria del monastero; le era sopraggiunta la febbre, e colla febbre il delirio. Da alcuni giorni si era alquanto rimessa in salute; ma la poverina era tuttavia così debole, che non poteva scendere in parlatorio, e la marchesa di Priamar non trovava modo di condurre innanzi il negozio. Avrebbe Maria consentito ai suoi disegni? Sì certo. Non le era uscita di bocca la nobilissima promessa, che ella non avrebbe infamata la memoria di sua madre, se morta, nè fatta arrossire quella povera donna, se viva? Egli, adunque, che faceva assegnamento sulla virtù come sul vizio, era sicuro dell’esito; ma vedeva andar la cosa per le lunghe, e ciò lo metteva in pensiero. La marchesa Lilla, saputo lo stato della fanciulla, era in una ansietà che mai la maggiore; tutti i giorni al monastero per chieder novelle; poi chiusa nelle sue stanze a piangere. E quei nemici che avevano trovato il modo di far giungere alla fanciulla il biglietto consolatore, chi erano, e quanti? Che cosa meditavano? Di quali forze potevano disporre? A quali altri spedienti avrebbero posto mano? Egli non ne sapeva nulla; tutta la sua scienza si logorava intorno ad una incognita ribelle, ad una radice irreduttibile. Il gobbo legnaiuolo faceva lo gnorri; non c’era verso d’indurlo a parlare, nè con minacce, nè con profferte. Di quelle, indettato com’era, non aveva timore; di queste non gl’importava affatto. Aveva egli preso l’ingoffo, od era un fior di galantuomo? Altro dubbio, del quale il gesuita non poteva sincerarsi.
Ma quanto era pensieroso Bonaventura, con tutti que’ suoi sopraccapi, altrettanto era ilare, contento di sè medesimo, il Collini. L’odio contro Aloise soverchiava ogni altra cura nell’animo di lui. Egli era alla vigilia della vendetta, e già l’assaporava col pensiero; due ore innanzi egli aveva potuto anche palparla, poichè aveva tenuto in mano quattro belle cambiali, di quella forma particolare che più precisamente si chiama «pagherò», ognuna da venticinque mila lire, tutte sottoscritte da un Luciano Marsigli, colla cessione del giratario Aloise di Montalto a favore del banco Cardi Salati e C., di quel banco malamente famoso che già parecchie volte c’è occorso di ricordare ai nostri buoni lettori.
- Dunque, ci siamo? - chiese Bonaventura, proseguendo un dialogo de’ cui preliminari facciamo grazia ai lettori sullodati.
- Sì, padre, e non mi sfugge. Ho mandato un’ora fa il Salati in persona, al banco dei fratelli Teirasca a vedere se il Marsigli ha fatto provvigione di fondi per le sue scadenze di domani.
- E perchè non aspettare che venga al vostro banco il Montalto, se già sapete che il Marsigli non pensa nemmeno per sogno di aver questa scadenza sulle spalle? -
Il Collini sorrise, con aria da sopracciò, a quella dimanda del maestro.
- Il banco Cardi Salati, - diss’egli, - non ha da saper nulla di questa ignoranza del Marsigli. Il banco Cardi Salati ha cambiali sue, per centomila lire, pagabili presso il reputatissimo banco Teirasca, come è scritto chiaramente a’ piedi delle quattro obbligazioni, girate ad esso da Aloise Montalto. Il banco Cardi Salati sceglie tra i due debitori quello che più gli garba, e gli par più solvibile.
- Capisco; - rispose il gesuita. - Già, voi, in questa ragione di negozi siete laureato come in medicina, se non forse di più. Ma ciò che non intendo bene, si è il corso di tutta questa faccenda. Me l’avete già raccontata due volte, e non mi raccapezzo ancora....
- Voi non avete pratica di cose commerciali; - notò colla sua aria vanitosa il Collini. - Vi spiegherò una terza volta il negozio; ma statemi bene attento, che non ismarriate il filo.
- Non dubitate! - rispose il gesuita, piegando le labbra ad uno di que’ stentati sorrisi, dei quali abbiam detto più sopra.
E il discepolo, non parendogli vero di far da maestro una volta, s’allacciò la giornèa, per raccontargli i suoi fasti.
- Cominciamo dal principio. Il Montalto, or fanno due mesi, era da capo a chieder danaro ad imprestito. Doveva andare a Parigi, il signorino, in Germania, in Isvizzera, e che so io, sempre per far l’ombra alla dama de’ suoi pensieri; e per questo gli bastava una piccola somma, sessantamila lire; di più, se era possibile, ma non un quattrino di meno. Le chiese ai miei socii; ma essi, com’era naturale, non vollero saperne. Trentamila gliele avevano date fin dai primi di luglio; in agosto gliene occorsero cinquanta; per pagar queste e quelle, un mese dopo vendeva le sue case allo Scandola....
- Vostro prestanome! - notò Bonaventura.
- Un vecchio merlo spennacchiato, che serve a tirar gli altri nella rete; - rispose il Collini ridendo. - Ma che importa? Peggio per lui se lo ha tolto per un capitalista. Il mio uomo gli ha dato il necessario per pagar le cambiali, e più ventimila lire, che andarono subito in tasca ad un mercante di cavalli. Se n’è pigliata una satolla, di grandezze! Ma si sa, chi vuole il dolce, senta l’amaro. Torniamo al fatto; egli aveva urgente bisogno delle sessantamila lire; i miei socii non le volevano dar fuori sopra una firma sola; ed egli, che aveva superbamente toccato della Montalda, la quale, secondo lui, ben valeva tre volte quella somma, dovette sentirsi dire che la terra era una grillaia, che il palazzo era fuori di mano, e che non si poteva dar prezzo ad un fondo il quale non rendeva nulla come podere, e come villeggiatura, poi, avrebbe potuto servire soltanto ad un misantropo, ad un eremita. Si voltò egli allora allo Scandola; ma lo Scandola aveva tutti i suoi denari fuori, e credo dicesse il vero; perchè il galantuomo, dacchè lo conosco, non è mai ritornato nel suo. -
Qui il Collini fece una sapiente fermata, quasi aspettando che il maestro potesse gustare l’arguzia. Ma Bonaventura aveva altro nel capo; ed egli fu costretto a proseguire senza la limosina d’un sorriso.
- Il nostro innamorato non sapeva più a che santo votarsi; e fu allora che lo Scandola, vedendolo disperato, gli entrò a dire di certe cambiali che aveva ricevute in pagamento di mercanzie da un Marsigli, e che avrebbe potuto cedere a lui, marchese di Montalto, perchè ne facesse suo pro’ in quel suo bisogno. E il marchesino non se lo fece dire due volte, ben sapendo che i miei socii gliel’avrebbero scontate, e pigliatolo in parola, sottoscrisse una ricevuta in piena regola, e si beccò le cambiali per centomila lire.
- Delle quali n’ebbe appena sessantamila! - notò Bonaventura, che amava di tanto in tanto, da buon maestro, mortificare la superbia del discepolo.
- Poteva non accettare il partito! - rispose il Collini. - Nessuno lo costringeva; e il banco Cardi Salati fu tanto cortese da non mettere fuori un dubbio sulla bontà della firma, da snocciolargli issofatto, l’una sull’altra, sessantamila lire. Ed ora che le ha godute, che ha sfoggiato a sua posta, torna a Genova squattrinato1, va dallo Scandola perchè lo aiuti a guadagnar tempo; intanto, se egli vuole, si pigli la Montalda; per centomila lire gliela cede, sebbene sia grave sacrifizio per lui. Ma lo Scandola non è ancora tornato nel suo; ha crediti d’ogni parte, denari pochi, tutt’al più trentamila lire; se il Montalto vuol cedergli la sua grillaia per quella moneta, sta bene; se no, no, e provveda egli come gli pare più acconcio. A farvela breve, Aloise non ha il denaro per la scadenza di domani, e le gazzette racconteranno un suicidio di più.
- Lo credete? - domandò, con aria incredula, il gesuita.
- E come no? - disse il Collini. - Oggi siamo alla vigilia della scadenza. Il Salati, in un negozio così delicato, non si fida neanche del suo fattorino, e se ne va egli, anzi a quest’ora è già andato, al banco dei fratelli Teirasca, per domandare se sia stata fatta provvigione di denaro per quattro cambiali di Luciano Marsigli. I Teirasca non ne sanno nulla, e rispondono di non aver ricevuto incarico di sorta. Allora il Salati va dal Marsigli, e gli chiede se riconosca quelle quattro obbligazioni che ha sottoscritte. Il Marsigli va in bestia, perchè non ha sottoscritto nulla; e tutt’e due se ne vanno difilati a palazzo Ducale, per esporre il caso all’avvocato fiscale. Ora ammettiamo pure che il Montalto, che non sa nulla della firma falsa, e che non ha i denari da pagare il suo debito, aspetti anche il protesto. Egli è perduto egualmente, perchè, riconosciuta la truffa, non gli servirà a nulla aver trovato le centomila lire (dato il caso che le trovi) e dovrà vedere il suo nome infamato da un processo criminale. Non si faccia saltar le cervella, se gli preme conservarle; io non ho bisogno della sua morte; purchè se ne vada in galera!... -
Bonaventura, tuttochè non fosse molto pratico di cose commerciali, intese il negozio appuntino. E intese altresì come colui che gli stava dinanzi non fosse più uno scolaro, e come in certe materie potesse anco insegnargliene a lui, maestro patentato di ribalderie. Certo, se egli non avesse avuto altri pensieri molesti pel capo, lo avrebbe abbracciato, dicendogli: tu sei veramente il mio figlio, del quale io mi compiaccio.
- Avete ragione! - si contentò egli in quella vece a rispondergli, ma non senza un fil d’ironia. - Ed io, povero frate, che cinque mesi fa mi affannavo a consigliarvi di volere cambiali! Sfondavo un uscio aperto, a quanto pare, anzi spalancato!
- Voi ricordate, padre mio, che allora la non m’entrava d’imprestargli denaro, perchè sostenesse più riccamente la sua parte di vagheggino. Ma ho fatto bene a seguire il vostro consiglio. Io m’intendo di commercio; ma voi v’intendete d’uomini, e come! -
Crederemmo di far torto all’acutezza dei lettori, se ci fermassimo a chiarire con molte parole il perchè di quella lode, o per dir meglio, di quella complicità che il Collini voleva mettere in sodo. Bonaventura operava il male con un proposito, non nobile di certo, ma alto, poichè egli serviva una causa, per la quale il fine giustifica i mezzi; e dove pure egli operava per conto suo, obbediva ad una passione che era stata l’incubo di tutta la sua vita. Si poteva odiare quell’uomo; potendo, si sarebbe dovuto punire; disprezzare non mai. Laddove il Collini, rôso dalla vanità, divorato dall’invidia, operava il male pel male; la crudeltà non era in lui pervertimento di gagliarde passioni, ma istinto di rettile. Epperò votati ad una medesima impresa, quei due uomini si sentivano, si sapevano stimolati da diverse cagioni; epperò nella lode di Bonaventura al discepolo c’era un fil d’ironia, e questi, smessa la vanità con cui s’era fatto a narrare le sue gesta, sentiva il bisogno di ricordare che aveva operato per istigazione dell’avveduto maestro.
- Lasciamo da banda i complimenti; - disse questi infastidito. - E lo Scandola, come se la caverà?
- L’ho mandato ieri in Isvizzera, pel caso che s’avesse da mettere il negozio nelle mani della giustizia. Ma non dubitate; non ci sarà bisogno di giungere a questi estremi, poichè ho fermo in mente che il Montalto non vorrà sopravvivere allo scorno.
- E proprio siete sicuro che non avrà il denaro?
- Sicurissimo.
- In che modo?
- Stamani è andato da lui il Ceretti, quella perla di giovinotto che m’avete messo voi per le mani, ad offrirgli di comperar lui la Montalda. Lo ha accolto come si accoglie il salvatore; ma quando ha udito che il Ceretti non intendeva spender più di quarantamila lire, gli son cadute le braccia. Se avesse venduta la Montalda per centomila, egli non avrebbe fatto quella accoglienza al Ceretti, che non conosce punto. Questi, poi, m’ha narrato che il marchesino aveva l’aspetto abbattuto e gli occhi rossi, come un uomo che ha passata la notte a piangere....
- O a vegliare.
- Torna lo stesso. Se ci avesse i denari, avrebbe dormito saporitamente.
- Capisco, - disse Bonaventura, crollando il capo in atto di assentimento, - che il Montalto riuscirà a fare secondo le vostre speranze. Questa almeno va bene!
- E le altre no? - chiese il Collini.
- Ne dubito; - rispose mestamente il gesuita.
- O come? Io, notate, padre mio, non sento questo gran bisogno di sposar la ragazza, sebbene, a dirvi il vero, la mi vada maledettamente a genio, anche senza il pensiero della grassa dote che m’avete promessa....
- Meno male! - interruppe Bonaventura. - Non siete schizzinoso, voi!
- No, rendo giustizia alla sua bellezza. E tuttavia, ve l’ho detto, non ne ho quella gran voglia. Ma come non s’avrebbe ella a piegare, se voi ci siete, padre mio, e se la faccenda è nelle vostre mani?
- Ho certi presentimenti!... - disse il gesuita.
- Voi? - esclamò stupefatto il discepolo.
- Io, sì, non ne avete mai avuto, voi? Non v’è egli mai accaduto di considerare come ogni cosa ci andasse a seconda, come la fatalità ci aiutasse oltre le nostre speranze, oltre la misura dei nostri apparecchi? Guardate l’opera vostra! In otto mesi avete mandato in malora un uomo.... un ragazzo, sia pure. Non c’è uomo così savio e così avveduto, il quale non trovi chi possa farlo impazzire. Tutto sta nel trovare l’occasione, ed io l’ho trovata, coi fiocchi. Altri (ve lo dico io, e potete credermi) altri avrebbe perduta la ragione, dov’egli perderà soltanto la vita, ad espiazione volontaria d’un conto fallato. Ma non usciamo di strada. Egli non era ricco, lo so; ma una entrata di sette in ottomila lire, l’aveva. Non c’era da spender largo; ma poteva vivere in una modesta agiatezza, aspettando dai decreti della natura i milioni del nonno, che avrebbero fatto di lui, gran gentiluomo, un gran signore. Ed ecco, è bastata la facilità di trovare trentamila lire ad imprestito, e cinquantamila innanzi di aver pagato le trenta, per metterlo a mal partito, per darvelo incatenato in balìa. Lo avete preso all’esca d’una rinnovazione di cambiali, e s’è impantanato sempre più; a voi ha giovato l’astuzia per impadronirvene; a lui non gioverà la sua dignità per salvarsi; l’alterezza del suo carattere non farà altro che accrescere il vostro trionfo. Rovinato in otto mesi, e suicida per giunta! Vi par poco?
- Stiamo a vedere che ho fatto una fatica d’Ercole! - notò beffardo il Collini. - Ne aveva pochi, e in poco tempo sono iti.
- Ne aveva più di voi, - ripiccò Bonaventura, - e voi ci avete ora i vostri e i suoi. Tutt’e due ci avevate il vostro demonio nel cuore; ma il vostro v’ha arricchito; il suo l’ha mandato in precipizio. E non faccio questo raffronto per umiliarvi, sibbene per condurvi a riconoscere le cagioni singolarissime che l’hanno ridotto agli estremi, per farvi scorgere quanto cammino abbiate in breve ora fornito, e come l’esito abbia oltrepassato i confini delle ragionevoli speranze.
- E voi, padre, col Vitali....
- Sì, anche questo negozio è andato troppo bene. Credete a me, Collini, troppo bene ogni cosa, e troppo presto. Perciò temo. C’è egli un fato? O gli uomini son liberi, per modo che i più avveduti, i più savi, comandino agli eventi? O tra la loro volontà e gli eventi che ella governa, c’è una potenza ignota che invigila il lavoro, e a volte conduce, e a volte scompiglia le fila? Non ne so nulla; ma temo.
- Padre mio! - esclamò il Collini, più maravigliato che mai. - Questi dubbi in una mente così salda come la vostra?...
- Oh, lo so anch’io quel che s’ha a credere! - rispose Bonaventura. - Appartengo ad un sodalizio che ha, si può dire, ereditato il grande arcano dei sacerdoti d’Iside. Altro è quello che s’ha da insegnare alle moltitudini; altro è quello che s’ha da pensare. La dottrina non è pane per tutti i denti; il vero sapiente la tiene per sè. Ma che volete? ognuno, per forte che sia, ritiene un po’ del suo tempo. La scienza mi fa negare; la coscienza mi fa dubitare della scienza. So quello che volete rispondermi. La coscienza non è mai venuta sotto il vostro coltello anatomico. Essa è una miscéa, un amargama di tutti gli errori, di tutte le contraddizioni, di tutti i sogni, di tutte le chimere sublimi o ridicole, che l’arte umana ha fatte rampollare per lungo corso di secoli dal vecchio tronco della paura. E tuttavia le anime più salde hanno sempre avuto i loro cattivi momenti, ne’ quali hanno sentito come fuggirsi di mano le fila del loro destino, paventato una forza arcana, superiore ed avversa ai loro disegni, e dubitato, sto per dire, del loro medesimo dubbio.
- Questione di temperamenti! - sentenziò il Collini, stringendosi nelle spalle. - Il vostro, padre mio, s’è fatto soverchiamente sanguigno.
- Forse! - assentì Bonaventura, il cui pensiero correva altrove.
- E adesso, - ripigliò il Collini, - io che non ho i vostri presentimenti, me ne andrò difilato al banco, per udire a che punto sia la faccenda. Certo, a quest’ora, il Salati e il povero Marsigli sono già andati a palazzo Ducale.
- Andate, andate, e portatemi buone notizie stasera.
- A che ora sarete in casa?
- Alle dieci.
- A rivederci dunque, e intanto provvedete alle mie nozze. Bonaventura gli rispose con un cenno del capo, in quella che si muoveva per accompagnarlo all’uscio.
E crollando il capo se ne tornò nella sua camera, quando il Collini fu uscito.
- Vedremo! - diss’egli tra sè. - L’è andata troppo bene, finora, e non vorrei che cominciasse a cangiare.
Note
- ↑ Nell’originale "spuattrinato".