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A noi piacciono le veglie, i geniali ritrovi del teatro e del palazzo, dove lo splendore dei doppieri fa sfolgorare di ranciato vivissimo, di verde limpido, di azzurro carico, le gemme preziose che adornano il collo, gli orecchi e i polsi alle belle marchesane; dove lo sguardo saettato e la parola susurrata fanno scintillare occhi più belli dei diamanti a gran pezza; dove musica e poesia, segretarie galanti, dànno a prestanza le note e le sillabe per coniugare cantando il più bel verbo della lingua italiana; dove l’ardor della danza svolge profumi più grati che non le rose di Saron e stille di sudore assai migliori delle perle eritree, e non già da bersi disciolte, come è fama adoperasse Cleopatra, ma da suggersi intiere, innanzi che siano spiccate dalla conchiglia natìa.

Son questi i fiori della vita, queste le oasi del viaggio. Ma per un bel fiore che sbocci solitario al sommo d’un ramo, quanti sudori di tronco nodoso! Per un’oasi, in cui ripararsi un tratto della sferza del sole, quante leghe di monotono deserto! E noi, che nel giardino non siamo neppure i visitatori scioperati, ma i pazienti orticoltori, a cui ogni fioritura costa settimane di fatica, noi che in questo viaggio non siamo i curiosi giramondi, ma i condottieri della carovana, non abbiamo più uno di questi fiori, più una di queste geniali fermate, da offrire ai lettori benevoli; non più corti d’amore, nei boschi di Quinto, non più feste da ballo in via Nuova. Quantunque siamo appena al 14 di ottobre, la villa del tiranno di Quinto è deserta; la bella Ginevra dagli occhi verdi, tornata dal suo viaggio di Francia e Lamagna, ha dovuto rimanere in città per certe faccende del marchese Antoniotto, e la stagione delle veglie, dei teatri, dei balli, è ancora di là da venire.

Noi d’altra parte incalzano le necessità della storia. Non è più tempo di soste; alla Montalda abbiamo, per dir così, bevuto il bicchier della staffa; il nostro racconto galoppa alla catastrofe; ad eventum festinat. Armiamoci dunque di coraggio, e poichè gli è necessario, torniamo in casa del gesuita, dove piglieremo due colombi ad una fava (meglio sarebbe il dire corvi ad uno stinco) perchè il padre Bonaventura è nella sua camera da studio in compagnia del Collini. E ben dobbiamo ascoltar noi quello che diranno i due sozii, perchè il fido Michele non è questa volta nella sala da pranzo, per origliare ogni cosa dal buco della toppa. La signora Marianna, oramai, cotta e stracotta com’è, gli lascierebbe far questo ed altro; ma pensa che ci vuol giudizio, e Michele, che n’ha la sua parte, non si mette più a