I rossi e i neri/Secondo volume/XXII
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XXII.
Qui si conta del Giuliani, come sapesse afferrar l’occasione pel ciuffo
Diffatti era lui; il Giuliani lo scorse tra gli alberi, in una insenatura che faceva il sentiero. Egli se ne andava a passi lenti e misurati, col capo chino sul petto, come se volesse contare i ciottoli della strada, verso la casa che si vedeva biancheggiare nel fondo.
Il Giuliani affrettò il passo, per giungergli alle calcagna. Lo sconosciuto lo udì, poichè si volse indietro; e vedutolo, si fermò ad aspettarlo.
- Ella non s’argomentava di vedermi oggi una seconda volta, signor duca di Feira? Così disse il Giuliani con piglio tra cortese ed ironico, in quella che si accostava a lui. Lo sconosciuto, così pigliato ex abrupto, non fece alcun atto di maraviglia, e sebbene fosse difficile non addarsi del tono con cui gli aveva parlato il giovinotto, non parve darsene pensiero, poichè gli rispose con nobile serenità.
- Certo, oltrepassato il palazzo, non pensavo di averla più ad incontrare. Ma poichè Ella ha voluto giungere fin qua, tanto meglio, potremo parlar più tranquilli. -
A queste parole dovette maravigliare il Giuliani.
- M’aspettava? - diss’egli tra sè. - Dopo tutto, perchè no? Egli doveva capire che quando c’era un terzo in un segreto, non si può rimanere senza invitarlo a dichiararsi, pro o contro. -
Intanto che così pensava, il Giuliani rispondeva con un mezzo inchino alle parole del duca, e gli si metteva a pari, per andar di conserva.
- Il signor Salvani sa già il mio nome? - chiese il vecchio, entrando anch’egli difilato in argomento.
- Non ancora, - rispose il Giuliani, - ma lo saprà quanto prima.
- È inutile, - sentenziò il vecchio.
- Tanto almeno quanto il non saperlo; - disse di rimando il Giuliani.
- Può darsi, - soggiunse l’altro; - ma Ella sarà tanto cortese da non dirglielo. A che pro’ mettere il ghiaccio delle cerimonie nella nostra amicizia fraterna? Questi titoli altisonanti che paiono far l’uomo più grande del vero, non aiutano di certo a mantenere le buone relazioni da pari a pari, così naturalmente nate dal caso, come la nostra. Se gliel’avesse1 detto subito, meno male!
- E perchè non gliel ha detto Lei? -
A quella dimanda, un tal poco impertinente, il duca di Feira si volse a mezzo per dare un’occhiata al Giuliani. Ma fu un’occhiata tranquilla, senz’ombra di sdegno.
- Non me l’ha chiesto; - rispose. - Io poi non ho alcuna ragione a celarmi. Sapevo bene che un dì o l’altro sarebbe giunto da Genova qualche amico del signor Salvani, il quale potesse sapere il nome d’un forestiero, come son io, giunto da due mesi costà, e non rimasto ascoso alla gente. Ma poichè Ella mi dà l’esempio delle dimande, signor Giuliani, ne consenta una anche a me. Perchè non ha detto subito il mio nome al nostro amico, quando io li ho lasciati?
- Ci avevo le mie ragioni.... - rispose il giovanotto.
Ma nel profferire quelle parole, si avvide che erano troppo acerbe, e fu sollecito a soggiungere: - le mie ragioni, che Le dirò schiettamente tra breve.
- Io dunque torno a rallegrarmi di non averla incontrata laggiù; - ripigliò il duca, sorridendo cortesemente; - poichè ad una conversazione come la nostra, la tranquillità di quattro pareti è più conveniente d’una pubblica strada. Ma eccoci a casa mia, voglia entrare, e considerarsi il padrone. -
Il Giuliani non rispose altro, ed entrò lestamente, senza pur dare un’occhiata alla palazzina, del resto assai poco notevole per architettura, in cui dimorava il suo ospite. Egli e il duca salirono una scala modesta, scortati da un servitore nero, o quasi, che pareva mutolo. Costui, diffatti, non disse verbo, e a certe dimande che gli fece il padrone in lingua forestiera, e che certamente non era tra le parlate in Europa, ripose a cenni rispettosi del capo.
- Un servitore di poche parole! - notò il Giuliani, mentre salivano.
- Ah sì, povero Sindi! - rispose il Duca. - Egli cincischia tutte le lingue de’ paesi, nei quali mi segue da ott’anni, ed io lo compenso parlandogli il suo bengalese, che egli sta ascoltando con venerazione, come un sacro ricordo della patria. Non è egli vero, Sindi?
Il servitore, dall’alto del pianerottolo dov’era giunto, e dove stava raccogliendo colla mano i lembi della portiera, rispose con un breve sorriso.
- Questo signore è amico mio, - soggiunse il duca, - e tu lo avrai come un altro me stesso. Suvvia, di’ due parole in italiano.
- Sindi farà come padrone comanda; - rispose il servitore con breviloquenza spartana.
Intanto, nel cuore del Giuliani s’andava operando un gran mutamento. Quella imperturbabile serenità di volto, quella severa dolcezza di modi, se al tutto non lo avevano soggiogato, attiravano già tutta la sua attenzione. Anch’egli incominciava, suo malgrado, a sentire quello che pochi giorni innanzi aveva sentito Lorenzo, e già, mentre si preparava a combattere, andava rimasticando il desiderio di trovare in quel mesto gentiluomo un amico.
- E adesso, - parlò il duca, come furono soli nel salotto, - sedete, signor Giuliani, e ditemi in che posso tornarvi a grado. Lascio, come vedete, il Lei, che è troppo cerimonioso, e vi prego a fare altrettanto.
- Volentieri, signor duca; alla romana, - rispose il Giuliani. - Ed entro subito in materia. Anzitutto non vi sembri disdicevole questo mio venire a mezza spada con voi, che conosco a mala pena di veduta da un mese, e di parole da tre ore. Sono amico di Lorenzo Salvani; non già da anni, da mesi, ma le grandi necessità fanno le grandi amicizie. Lorenzo è sventurato; la sua indole nobilissima lo ha messo in guerra coi tristi; le sue opinioni politiche ugualmente; un segreto di famiglia che il caso aveva posto nelle sue mani, anche più. Egli è tre volte perseguitato, da quella bieca sètta che non perdona a generosità di carattere; che vede nel progresso umano la sua morte; che vuol vivere ad ogni costo, e s’abbarbica dovunque le venga fatto, nè rifugge dalle più nere trame, da più pravi disegni, pur di afferrare un comando che i tempi mutati, lo spirito di libertà che li informa, le hanno strappato di mano.
- Lo so; - disse il duca.
- Orbene, - proseguì il Giuliani, - se Lorenzo è tre volte perseguitato, è anche tre volte difeso; difeso da noi, giovani suoi pari, inesperti se si vuole, ma volenterosi, ma ardenti, e sorretti, se non da soverchio di forze nostre, dalla stessa bontà della causa.
- Lo so; - disse ancora il duca. - Non m’è ancora ben noto tutto quanto questi prodi amici hanno fatto per lui; ma quello che io ne ho in parte udito e in parte indovinato, me li fa grandemente stimare. L’amicizia, a parer mio, dovrebb’essere sconfinata come l’amore, e aver la medesima impresa: «O tutto, o nulla».
- Così la penso anch’io; - soggiunse il giovinotto. - Ma così pensando, non vi parrà strano che io venga da voi, e vi dica: signor duca di Feira, che fate quassù, solitario, incognito, per questi greppi? Buon padrone di rimanere dovunque vi piaccia, ma non già di farvi tanto intrinseco di un perseguitato, d’un fuggiasco, da ottenerne l’affetto e la fede. -
A quella sfuriata del Giuliani, il duca non rispose parola. Egli era rimasto sovra pensieri, col gomito puntellato sulla sponda di una tavola presso cui era seduto, e la palma della mano di rincontro agli occhi, in atto di profonda meditazione.
- Ecco, - proseguì il Giuliani, non udendo risposta; - la mia schietta domanda vi annoia.
- No, no, giovinotto! - disse allora il duca, scuotendosi. - Che cosa m’impedirebbe di sviare onestamente la vostra curiosità, e di fare intendere che la vostra dimanda è.... inopportuna? No, non mi annoia la vostra richiesta, nè mi mette in angustia. Io penso in quella vece, e con rammarico, che non posso rispondervi, e che vorrei esserne scusato presso di voi. -
Il Giuliani rimase un tratto senza parlare; ma i suoi occhi non si tolsero un istante dal volto del duca. Egli si sarebbe detto, a vederlo, che il giovine volesse penetrare a forza ne’ più segreti recessi di quell’anima così saldamente chiusa ai profani. Ma nulla gli valse lo sguardo scrutatore; e intanto, poichè la battaglia era incominciata, bisognava andar oltre. E come? Il duca di Feira non era un uomo volgare, con cui scendere alle minacce; era un gentiluomo, era un vecchio al paragone di lui; l’incalzarlo ancora, senza l’aiuto di qualche sfumatura, di qualche artifizio oratorio, sarebbe parso atto di scortesia, e il Giuliani ben ne vedeva il pericolo.
- Tolga il cielo, - diss’egli, che aveva finalmente trovata la frase, - che io dimentichi il rispetto dovuto al vostro carattere. Siete voi persuaso, signor duca, che io, proseguendo, non ho in animo di usarvi irriverenza?
- Lo credo fermamente, - rispose il vecchio gentiluomo, - e abbiatene la migliore testimonianza nello avervi io ascoltato fin qui come si ascolta un amico, sebbene voi non vogliate avermi per tale.
- E come potrei, se vi avvolgete nel mistero? Come volete che io mi acquieti alle vostre mezze parole? Di ciò che io abbia a pensare, giudicate voi stesso. Se voi aveste un segreto, se proseguiste un alto disegno, da cui pendesse la salvezza vostra o dei vostri più cari, v’andrebb’egli a sangue che fosse scoperto? Lo lasciereste voi, così ad occhi chiusi, e con animo tranquillo, nelle mani d’un ignoto?
- Glielo strapperei a forza, foss’anco dal cuore! - proruppe il duca di Feira, scuotendo fieramente il capo, e mettendo lampi dagli occhi.
- Voi stesso, signore, - gridò il Giuliani, - voi stesso lo dite!...
- Sì certo, io stesso; - proseguì il vecchio; - ma uditemi ancora. Se questo segreto fosse in mano di Lorenzo Salvani, o nelle vostre, vivrei sicuro, come se non fosse uscito ancora dal profondo dell’anima. Eppure, da pochi giorni appena conosco il Salvani; voi da quest’oggi! Ma voi giovani egregi, non siete più ignoti, nè recenti amici per me. Credete voi che il volto non abbia la sua eloquenza? che l’onestà, non la volgare, la dozzinale, che serve a far vivere in pace col Codice, ma la profonda, la vera onestà, quella che ispira gli alti sacrifizi, che fa parer tristo un giorno passato senza un’opera virtuosa, senza un generoso pensiero, non si dipinga negli occhi? Di me non saprei dirvi; giudicatemi voi. Da lunga pezza ho smesso di rimirare il mio volto, per rintracciarvi l’immagine di quella bellezza interiore che è il segreto della forza di tante anime elette. Se lo guardassi oggi, chi sa? vi leggerei forse la stanchezza di tante fatiche inutilmente durate, il desiderio di adempiere un voto supremo, e di lasciar quindi una vita che non ebbe mai conforti, che non ha più speranze per me. Son solo al mondo; nè il mio nome, nè le mie ricchezze, troppo tardi venute, quando non potevano più rincalzare i baldi propositi della mia giovinezza, andranno in eredità ad alcuno che sia del mio sangue. Vorrei, per quel poco che mi rimane a vivere, amar qualcheduno, amarlo utilmente, non per me, ma per lui. Amo il vostro Lorenzo Salvani, che voi avete dipinto stamane in poche efficaci parole; lo amo perchè, non conoscendomi punto, e senza pur chiedere il mio nome, ha posto fede in me, com’io, giovine al pari di lui, l’ho posta in altri, candidamente, senza restrizioni, senza secondi fini. Avvicinatomi a lui, ho veduto una sventura, e, debbo dirvi ogni cosa? n’ho avuto piacere, pensando che presso gli sventurati c’è sempre del posto. Signor Giuliani, non siate egoista nel bene; lasciatemi il posto che ho preso. Vorrete in ricambio il mio segreto? Non è mio del tutto. Mi farete ingiuria? Sono gentiluomo e la respingerò colle armi; ma badate, io non ho sete del sangue di alcuno. L’ho avuta un giorno; ho odiato.... forse odio ancora, e bisognerà che lo sprema dal petto, quest’ultimo avanzo di fiele. Il cuore è fatto per l’amore; ognuno di noi si foggia il suo piccolo mondo nella gran scena della vita, si edifica il suo sacrario d’affetti, v’innalza la sua ara, vi colloca il suo nume tutelare, innanzi al quale egli ha da essere senza macchia, come innanzi al mondo profano ha da essere senza paura. E adesso, non vi par egli di conoscermi abbastanza? Non vi ho confessata l’anima mia? È il labbro d’un mentitore, quello che v’ha parlato così? -
Il Giuliani, che era rimasto fino a quel punto silenzioso ad udirlo, ma commosso, trepidante, presso ad erompere, balzò in piedi a quell’ultima dimanda.
- Signor duca, - diss’egli intenerito, - io ripongo tutta la mia fede in voi. Se dopo ciò io mi fossi ingannato, se alcun danno avesse a seguirne, dirò che Dio non esiste. -
La frase era dubitativa, ma l’accento dimostrava la certezza. Il giovane stese ambe le mani per afferrare la destra del duca; ma il vecchio gli aperse le braccia e lo strinse paternamente al suo cuore.
- Non dubitate di Dio! - rispose egli con piglio solenne. - Non ne dubitate, nè ora nè mai. È un vecchio che ve ne prega, un vecchio al quale è stata negata la sua parte di gioia, un vecchio che aspetta ancora ogni cosa da lui. Ed ora io vi dirò quello che chiedevate pur dianzi; chi ha fede in me, è degno della mia fede, e poichè il mio segreto morrà nel vostro cuore....
- No, ve ne supplico; - interruppe il Giuliani. - Non una parola di più! Fallirei alla vostra stima, alla mia, se vi lasciassi proseguire. Chi siete? Lo so: un amico. Donde venite? Dal dolore, poichè v’accostate a chi soffre. Non basta ciò forse? -
Il Giuliani e il duca di Feira rimasero un tratto senza parole; ma il loro silenzio era eloquente, perchè dai loro occhi traspariva la fede scambievole, dai loro atti la commozione, la gioia profonda di quel loro ravvicinamento, di quell’aspra battaglia mutata in alleanza. Parevano due vecchi amici, i quali da lunga pezza non si fossero veduti, nè mai fino a quel giorno, a quell’ora, avessero sperato di trovarsi vicini.
Ripigliata la conversazione, il Giuliani volle che il duca fosse informato minutamente di ogni cosa. E cominciò a dirgli chi fosse il Gallegos, l’anima dei neri, dei quali il marchese Antoniotto Torre Vivaldi era l’insegna; come e per quali ragioni desse la caccia ai milioni del vecchio banchiere Vitali, e come perciò avesse giurata la rovina di Aloise di Montalto.
Narrò, poichè gli cadeva in taglio, del dottor Collini, e della sua scena occorsa nella chiesuola di San Nazaro, dove, per colpa di lui, Aloise e Lorenzo, due uomini nati per amarsi, avevano lavorato alacremente ad uccidersi; il che per buona sorte non avvenne, ed egli aveva potuto involgerli ambedue nel suo odio implacabile.
Di Lorenzo Salvani raccontò come in pochi anni, morti i parenti, precipitasse a rovina, malgrado ogni suo sforzo, malgrado ogni studio di procacciarsi onestamente un pane. Il duca di Feira entrò, condotto dalle parole del Giuliani, nella casa di quei poveri vergognosi, costretti dalla loro condizione a parere signori, e condannati a mille angustie segrete. E donde veniva tutta la guerra, che pareva del destino? Da Bonaventura Gallegos e dal suo aiutante nelle male opere. La casa Salvani possedeva un segreto; per averlo in sue mani, per istrappare una povera fanciulla da quella casa e giovarsene Dio sa con qual fine, il gesuita aveva messi in opera tutti i più sottili accorgimenti, tutte le più audaci invenzioni.
E detto di Maria, e dell’amore purissimo ch’egli argomentava esser nato tra lei e Lorenzo, narrò ancora della cassettina d’ebano e (poichè non si poteva tacerlo) della marchesa di Priamar, de’ suoi amori infelici, della colpa nascosta, del pentimento, della vita religiosa a cui s’era data. Sapeva ella che la giovinetta da lei condotta in San Silvestro fosse sua figlia? Lo Spagnuolo di cui parlavano le lettere di Lilla a Paris Montalto, e che in quel carteggio appariva come un amante disprezzato di Lilla, indi si scorgeva ascritto alla compagnia di Gesù, tornato a Genova ed entrato come consigliere in casa Priamar, era forse Bonaventura? Il sospetto era balenato a Lorenzo, ne’ suoi dolorosi ozi della Montalda. Ora, se quel sospetto era fondato, molte cose si chiarivano in un punto; in tutta quella trama del Gallegos era da vedersi una tarda vendetta amorosa.
E qui, partitamente esposta ogni cosa, sottilmente indagate le fila di quella gran tela ordita dalla parte nemica, il Giuliani narrò ciò che avevano fatto, lui auspice, i Templarii; come, aiutati dalle confessioni del povero Michele, fossero andati sull’orma dei tristi; come i ricordi e le necessarie rivelazioni di Lorenzo li avessero aiutati a trovare il bandolo della matassa, e con quali artifizi fossero andati oltre, di scoperta in scoperta; come finalmente avessero immaginato di strappar la fanciulla dalla sua prigionia.
Non è a dire con quanta attenzione il duca di Feira ascoltasse il racconto del Giuliani. Molto sapeva dalle confidenze di Lorenzo; ma l’ordito di quella congiura non si era mai svolto in tutta la sua paurosa ampiezza, come allora, sotto gli occhi di lui. E tuttavia non diè segno di maraviglia; nulla pareva giungergli nuovo. A vederlo, mentre seguiva il filo della narrazione, e mentre crollava il capo in atto di conscia sollecitudine, ad ogni nuovo fatto che il narratore accennava, si sarebbe detto ch’egli fosse vissuto da lunga mano a Genova; che i personaggi del triste dramma fossero sue vecchie conoscenze; che avesse in pratica il Gallegos, la marchesa Lilla, il Vitali, i Montalto della vecchia generazione, e non gli fosse ignoto Aloise.
Quest’ultima nota va fatta, perchè, all’udire il nome del giovine Montalto, il suo volto s’era di subito rannuvolato. Chiesto più particolarmente di lui, volle sapere che giovine fosse, quale la tempra dell’animo, quali i diportamenti, e parve molto dubbioso, incredulo quasi, allorquando il Giuliani gliene disse tutto il bene che pensava, e s’impuntò a volerlo netto d’ogni biasimo, quando pure ebbe a parlare della rovina a cui s’era condotto.
- Qui sotto c’è un arcano del cuore; - aveva detto il Giuliani; - nè io m’attento di scrutarlo.
- M’avete narrato ch’egli è sempre dai Torre Vivaldi; - soggiunse il duca. - Il gesuita non dimora egli nel palazzo, e non è egli l’anima di quel partito che è capitanato dal marchese Antoniotto?
- Sì! - rispose il Giuliani, che vedeva andare il duca diritto da quelle premesse alla medesima illazione ch’egli aveva tratta in cuor suo.
- Disgraziato! - esclamò il duca. E non ne disse altro.
Intanto il Giuliani, ripigliato il filo del racconto, venne alle cose sapute dal servo Michele. In quel colloquio che il damo della signora Marianna aveva origliato dalla toppa, il gesuita ed il Collini s’erano aperti del tutto. Bonaventura si faceva forte dell’aiuto della marchesa Lilla perchè Maria accettasse la mano del suo discepolo, se non voleva chiudersi in un monastero per sempre. E qui il duca di Feira vide la necessità di sgominare il disegno presso la marchesa medesima, innanzi di far capo a quell’ultima ratio dello scandalo, che teneva in serbo il Giuliani.
Più grave, e meno rimediabile, era il caso di Aloise. Stretto dai creditori, aveva già dovuto vendere due case, che gli fruttavano la sua modesta agiatezza. Ma quel sacrifizio non era bastato; c’erano fuori altre cambiali per una somma ragguardevole, e le aveva in mano il Collini. Ora, quelle cambiali erano false.
Com’era ciò avvenuto? Il nome di Aloise c’era scritto, accanto ad un altro rispettabile nome; ma quel nome, pur troppo, non era vergato di pugno del suo legittimo possessore. Questo aveva notato con aria di trionfo il Collini, e si capiva che egli, mostrandosi vittima innocente dell’inganno, non avrebbe tralasciato di metter la cosa in mano alla vindice giustizia, quando, all’avvicinarsi della scadenza, avesse riconosciuto che quelle cambiali odoravano di truffa. Intanto lo sapeva egli già, egli che aveva tesa la rete, e per mezzo de’ suoi fidati trattovi dentro il mal cauto nemico. E intanto il nonno era già in chiaro d’ogni cosa; gli era stato accortamente dimostrato come Aloise facesse assegnamento sulla sua eredità, e come, mandato allegramente in malora il fatto suo, facesse a fidanza colla morte del nonno. E il vecchio Vitali era andato su tutte le furie; aveva fatto un testamento in cui diseredava il nipote, nominando suo vero ed universale erede il Gallegos.
Quelle ultime notizie turbavano fortemente il duca di Feira. Per fortuna mancavano ancora parecchi giorni alla scadenza delle cambiali; egli era in tempo a scompigliar le fila della congiura. Ringraziò il Giuliani d’avergli palesato ogni cosa; lo ringraziò per fino de’ suoi sospetti, perchè da essi era venuto il colloquio.
- A me la cura di tutto! - diss’egli. - Domani sarò di ritorno a Genova, dove la mia gente mi crede partito per un viaggio di venti giorni in Toscana. Mi conoscevate di veduta; saprete dove abito; domani a sera v’aspetto. Il Giuliani era fuori di sè per la contentezza, e poco mancò che non si mettesse a batter le palme, come un fanciullo per gioia improvvisa.
- Finalmente, - gridò, - ecco un uomo a cui cedere il comando di questa difficile impresa! Signor duca, io vi consegno il mio bastone di maresciallo. Così era finito quel dialogo, che pareva da principio promettere assai poco di buono. Il Giuliani se ne tornò a Genova, dove il colpo di mastro Pasquale ebbe, il giorno dopo, quell’esito che i lettori già sanno.
E adesso è noto altresì perchè il Giuliani fosse così contento de’ fatti suoi, e parlasse del futuro con tanta sicurezza, mentre usciva col suo aiutante Michele dalla bottega del gobbo legnaiuolo.
Note
- ↑ Nell’originale "gliel avesse".