I rossi e i neri/Secondo volume/XIX

XIX

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Secondo volume - XVIII Secondo volume - XX

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XIX.

Come una buona azione ricevesse il suo premio.

Mastro Pasquale era frattanto arrivato in bottega, dove s’aspettava di veder Michele coll’altro «della gazzetta», ma dove non vide altri che il suo fattorino, giovine allocco che se ne stava guastando colla sgorbia un pezzo di legno di tiglio, per farne non sappiam quale balocco.

— E così, non c’è nessuno? — dimandò il legnaiuolo.

— Sì, principale, ci son io.

— Lo vedo, babbaccione, che ci sei tu. Dico se non c’è stato ancora nessuno.

— Sì, c’è stato il Trinca che andava all’osteria a pigliarsi una zuppa, e voleva darvi il buon giorno.

— Va là, bietolone; chi ti domanda del Trinca? Ti domando se è venuto nessuno che avesse bisogno di parlarmi.

— Ah, ho capito; sì, c’è stato uno, ma il nome non lo so.

— E se n’è andato?

— Sì, principale.

— Senza lasciar detto nulla?

— Non lo so, perchè è passato di sopra, da vostra moglie.

— Bestia! potevi dirmelo subito, e non avrei perso tanto fiato con te.

— Non me lo avete domandato, principale....

— Uff! Riporrai que’ ferri, che poi a raccapezzarli ci metterei tre ore, infingardaccio, buono a nulla, balordo che sei!

— Questo è l’acconto che mi dà sulla settimana! — disse tra sè il garzone, mentre riponeva la sgorbia nel cassetto e appendeva il gattuccio al muro. — E quando gli dico che ho quindici anni e che mi aggiunga qualcosa sul salario, me ne dice altrettanto. —

Il vecchio legnaiuolo s’era avviato a una porticina che dal fondo della bottega metteva nell’andito delle scale, per salire al primo piano della casa, dov’era il suo alloggiamento. Colassù, tutta imbacuccata in un vecchio scialle, accoccolata su d’una vecchia scranna presso la finestra, stava una femmina dal volto giallo, malazzato, che doveva essere appunto quella tal brenna di cui aveva detto nel suo soliloquio il nostro Pasquale. [p. 171 modifica]

— Siete voi? — diss’ella, voltandosi all’uscio, mentre egli compariva nel vano.

— Son io, Tecla. Vi siete alzata da letto?

— Non ci stavo troppo bene, e sono venuta a cercare un po’ di sole qui presso.

— Chi c’è stato a cercarmi?

— Ah, sì, fate bene a rammentarmelo. C’è stato or fa mezz’ora il garzone del panattiere. Quel lasagnone del vostro fattorino lo ha fatto salire quassù, e io ho dovuto sentire l’antifona. M’ha detto che il suo padrone non vuol più aspettare, e che domani, se non gli saldate il conto, se ne va dove bisogna.

— S’incammini! — brontolò il legnaiuolo.

— Sì, bravo, perchè venga anche l’usciere, e crescano le spese! Io gli ho detto invece che tornasse alle cinque, stasera, che ci sareste stato voi.

— Bella trovata! E che gli dirò io stasera, che voi non poteste già dirgli senza di me?

— Ma.... — rispose la donna; — ho pensato che andando oggi dalle monache a finire il vostro lavoro, vi avrebbero pagato il conto, e allora....

— Sì, me l’hanno proprio pagato! — interruppe Pasquale. — Non servo più monache, io; vadano in malora le monache!

— Che diavolo dite, Pasquale?

— Dico, — rispose il legnaiuolo, sedendo a cavalcioni su d’una scranna, coi gomiti puntellati sulla spalliera e il mento puntellato nelle palme, — dico che l’ho mandate a quel paese, e non voglio più saperne. Brutte bertucce! dar del gobbo a me! Dite su, voi, Tecla; m’avete visto gobbo, quando v’ho dato l’anello?

— Che cos’è quest’altra novità? Avevate, sì, le spalle tozze....

— Ma non ero gobbo?

— Questo no; ma perchè mi domandate queste cose?

— Perchè, vedete, quelle scioperatacce di San Silvestro m’hanno dato del gobbo senza tante cerimonie.

— E per questo siete montato in bizza? Ci avreste ancora grilli in capo?

— Che grilli e che cavallette d’Egitto! Statemi a sentire. Ho fatto servizio a un amico. Che male c’era? Chi le ha cercate, loro! Nessuno vuol frodare la gabella per quella brutta merce là. Ma quella povera ragazza....

— E adesso che cosa m’andate voi borbottando, di ragazza, di gabelle e di merci? Parlate chiaro, se volete essere inteso. [p. 172 modifica]

— Ho fatto servizio ad un amico; — ripigliò mastro Pasquale. — C’è là dentro una povera ragazza che vogliono far monaca per forza. Orbene, i suoi parenti ed amici, il fratello, l’innamorato, e che so io, quelli insomma che ci hanno le loro ragioni per cavarla di là, com’ella ci ha le sue per uscirne, volevano farle giungere una parola di conforto, perchè stesse di buon animo, che non l’avrebbero abbandonata.

— E voi ve ne siete incaricato!

— To’! sicuro, che me ne sono incaricato; e con che gusto! Ma il diavolo ci ha messa la coda. La fanciulla ha letto il foglio, un foglio aperto (mi capite? aperto) ed è svenuta dalla contentezza. Il foglio è stato veduto; e allora, addio roba!

— Ah, Pasquale, Pasquale! — esclamò la Tecla, crollando il capo in atto di rimprovero. — Perchè andate a mettere il naso dove non ispetta a voi? Sapete, la pentola di terra, quando l’andò a cozzare col paiuolo di rame, che cosa le avvenne?

— Bella scoperta! s’è rotta.

— E anche voi, Pasquale, vi romperete le costole, a volervi mettere co’ più forti di voi. Vedete, intanto, avete perduto un pane sicuro, il pane dei vostri figliuoli. Ne aveste a palate! Ma lo sapete meglio di me, che il po’ che guadagnate non basta a tenerci ritti. Le due ragazze vanno alla sarta, senza buscare un soldo, ed è già molto che imparino l’arte. I vostri due figli, tanti ne guadagnano, tanti ne spendono, e li vedete appena all’ora del pasto; sanno venire a prendere; ma per portare, aspettateli! E voi, per giunta alla derrata, colla vostra esperienza, vecchio come Matusalemme, ne fate ancora di queste!

— Tecla!

— E in un santo monastero! — proseguì, riscaldandosi, la donna. — In un posto di confidenza come quello! Vi ricordate di quel che vi diceva il Padre parroco di Castello, il mio santo confessore, offrendovi or fanno i quindici anni, quel pane? — «Pasquale, badate a voi; dovete esser cieco, sordo e muto, tutt’insieme; fare il vostro servizio e non impacciarvi d’altro. Or come gli avete voi dato retta? Facendo il procaccino alle novizie.

— Tecla! Tecla! Non mi fate perdere la tramontana! Quel che ho fatto, l’ho fatto a buon fine, e non me ne pento.

— Bravo! Vedo i guadagni che n’abbiam fatti. Vo’ che mi compriate uno scialle di tartano con quei denari, poichè l’inverno è vicino, e questo è ragnato così che pare una mestola bucherata. —

Pasquale era lì lì per rispondere a que’ sarcasmi con qual[p. 173 modifica]che buona sfuriata; quando s’udì la voce del garzone che gridava dal basso:

— Principale! principale!

— Che c’è? — dimandò il legnaiuolo, andando in fretta ad alzare il saliscendi.

— Due signori che vi vogliono quaggiù, — rispose il garzone.

— Ma se lo dicevo io, che non avrebbero tardato! — esclamò Pasquale, rasserenandosi a un tratto. — E non sapevano mica che io dovessi spicciarmi così presto lassù. Ero una bestia io, e un pochino anche voi, Tecla, colle vostre intemerate.

— Grazie del complimento!

E qui mastro Pasquale, fattosi tutto zucchero, si avvicinò per farle una carezza. Ma Tecla gli rispose con una alzata di spalle.

— Vedete che grazietta! — disse il vecchio legnaiuolo tra sè, in quella che scendeva le scale. — Se la mi avesse fatto sempre così, non ci sarebbero quattro mangiapani di più, senza contarne altri due, che, poveretti, mangiano quello degli angioli. Basta, pigliamo quello che Domineddio ci ha mandato. —

Con questa chiusa filosofica, mastro Pasquale giunse in bottega, dov’era Michele ad attenderlo, e con Michele quell’altro delle gazzette come lo chiamava il legnaiuolo, e che era (i lettori l’hanno capita da un pezzo) il nostro bravo Giuliani.

— Buon giorno e buona sera, Pasquale! — disse il nostro Michele a mala pena ebbe veduto il legnaiuolo. — Passavamo da queste parti, e siamo entrati a vedere se per caso foste già di ritorno.

— Diffatti eccomi; quest’oggi mi sono sbrigato più presto.

— Orbene? — gli chiese il Giuliani.

— Ho fatto ogni cosa.

— Da Senno?

— Sì; — disse Pasquale; — la ci ha avuto il foglio, e l’ha subito letto.

— Da bravo, raccontateci come.

— Volentieri; ma prima di tutto si accomodi. E tu che fai costì ritto, a bocca aperta, bighellone? —

Quest’ultima frase, già i lettori indovinano, era rivolta al garzone, che vedendo quei personaggi a colloquio col suo principale, si era ficcato dentro anche lui, per esser quarto tra cotanto senno. [p. 174 modifica]

- Vedete che bel muso, da volersi mettere in riga colla gente a modo! - prosegui il legnaiuolo. - Vattene!

- Dove? - chiese con aria melensa il garzone.

- Dove ti pare. To’, per l’appunto, portami questa cornice all’indoratore.

- In due salti, vado e torno; - disse il ragazzo, afferrando la cornice.

- No, non occorre; vattene a dare una capatina all’Acquasola, e fa anche il giro delle mura, da Santa Chiara alle Grazie; così ti sgranchirai le gambe, mammalucco!

- Che stranezze son queste? - pensò il garzone, mentre, colla sua cornice ad armacollo, saltava fuor di bottega. - Quando sto fuori mezz’ora per giuocare alla lippa, mi sgrida; e adesso che sto in bottega, mi manda a spasso. -

Come furono soli, incominciò il racconto del legnaiuolo. Il Giuliani s’era adagiato sul banco; Michele gli stava di costa; Pasquale chiacchierava e gestiva nel fondo, come un attore in scena. Quello ch’ei raccontò non ripeteremo, che già i lettori lo sanno, e non vi porrebbero certo quell’attenzione con cui il Giuliani e Michele stettero ad udire il buon successo della loro intrapresa.

Lo ascoltarono, diciamo, con grande attenzione, quasi senza, batter palpebra, e sebbene qua e là ci fossero ripieni, fioriture, lungherie (chè il gobbo, come è noto, ci aveva una buona parlantina) non si fecero con parole o con atti ad interromperlo mai. Solo quando egli fu giunto alla fine, Michele, che s’era fortemente commosso all’udire dello svenimento, non potè trattenersi dal gridare: «E come starà ella, adesso, la mia povera padroncina?»

- Che? - disse il legnaiuolo. - Siete il suo servitore? - Pasquale non aveva mai pensato che quell’uomo così lindamente vestito da vecchio militare in ritiro, col suo cappello di feltro e il topazio alla cravatta, potesse essere un servitore; Michele, dal canto suo, non aveva avuto bisogno nè occasione di dirglielo. Neppure si vergognò di averlo a confessare in quel punto; che a’ suoi occhi, servire la signorina Maria e il signor Lorenzo, valeva quanto il viver d’entrata. Gli dolse in quella vece d’essersi lasciato sfuggire quelle parole di bocca, perchè da alcuni mesi aveva imparato a sue spese che cosa fruttasse il parlare a vanvera, e raccontare alla distesa i fatti suoi.

A lui che taceva, facendo le mostre di non avere udita la domanda del legnaiuolo, venne in aiuto il Giuliani.

- Servitore no; dite in cambio l’amico, il vecchio arnese, [p. 175 modifica]il ser faccenda di casa. Voi siete un galantuomo, Pasquale; per farci servizio vi siete guastato colle sacre vergini di San Silvestro; a voi dunque bisogna dire ogni cosa. La fanciulla è orfana; Michele è il vecchio compagno d’armi del padre di colui che la deve sposare.

- O non è forse Vossignoria, lo sposo?

- No; anch’io non sono altro che un amico di casa.

- To’, ed io avrei giurato che fosse Lei!

- Non prendo moglie, io, caro Pasquale; - soggiunse il Giuliani ridendo; - io voglio che si possa mettere sul mio cataletto una corona di candidi fiori; poniamo anche artefatti, ma candidi.

- In fede mia, la pensa bene. Chi piglia donna, piglia una mala gatta a pelare.

- Michele, - disse il Giuliani, - beccatevi questa, voi che meditate un pateracchio in facie Ecclesiae. Eh via, non vi fate rosso; che male c’è?

- Son vecchio! - rispose sospirando Michele.

- Baie! Vecchio è chi muore; non è vero, mastro Pasquale? Ma, non ci dilunghiamo in chiacchiere; come la è finita? Per colpa nostra ci avete perduta la clientela?

- Sicuro, e il pentolino per giunta, che ho lasciato nell’orto.

- Lasciare il pentolino in mano al nemico, non fu mai disonore se non pei Giannizzeri, i quali portavano le pentole in luogo di bandiere; - sentenziò il giornalista. - Eccovi da comperarne un altro. -

Il legnaiuolo strabuzzò gli occhi e diede un sobbalzo, alla vista di dieci marenghi che gli metteva dinanzi il Giuliani.

- Prendete, prendete! Questi vi consoleranno un poco della perdita che avete fatta lassù. Notate inoltre che la zecca che gli ha coniati lavora sempre, e ce ne saranno degli altri. L’amico Garaventa vi chiamerà di questi giorni in un certo palazzo, dove troverete una bella vigna da sfruttare, poichè il padrone fa casa nuova con suppellettili fatte venire a bella posta da Parigi, tutte di legno rosa, magaleppo, palissandra, madreperla, e a voi si darà l’incarico di arredar la cucina ed il quartierino della gente di servizio.

- Certo, ha da essere la casa degli sposi?

- L’avete indovinata, Pasquale. Or dunque addio; jam vale, generose senex, e grazie tante di ciò che avete fatto. Io non vi innalzerò una statua, come è fama che facessero ad Esopo i Milesii; ma state sicuro che io, col racconto della vostra impresa nobilissima, vi tramanderò all’ammirazione dei posteri. [p. 176 modifica]

- Passati, presenti e futuri - aggiunse Michele, stringendo la mano al più allegro dei gobbi.

Mastro Pasquale accompagnò il Giuliani sull’uscio con molti inchini, e ricambiò a Michele un amorevole buffettone che questi gli avea dato sulle spalle, a mo’ di commiato.

- Gente allegra, coi soldi in tasca! Ha da guadagnarne molti colle sue gazzette, costui: ma se li merita, in fede mia, perchè gli è buon pagatore. E quest’altra vigna che m’ha accennata? Pasquale, qui bisognerà farsi onore! -

Così, cogli avuti in tasca, e cogli sperati in testa, il gobbo legnaiuolo si sentì leggero come una piuma. E certo assai più leggero del solito, sebbene con cinque marenghi in una mano e cinque nell’altra (tanto per non destar gelosie) pesasse molti grammi di più, risalì la scala che metteva in casa. Spinse l’uscio colle spalle, senza cavare i pugni dalle tasche ed entrato nella sala, con un piglio da trionfatore romano, andò a piantarsi dinanzi alla moglie, che se ne stava ancora rincantucciata presso la finestra, sebbene il sole fosse sparito da un pezzo.

- Tecla, - entrò egli ex abrupto, - quanto credete abbia a costare uno sciallo di tartano?

- Lasciatemi in pace. Che storie sono queste?

- Vi domando quanto credete abbia a costare uno scialle di tartano. Parlo turco, forse? -

Tecla si voltò tra curiosa e stizzita a guardarlo.

- Siete diventato ricco in mezz’ora? - gli chiese ella a sua volta.

Pasquale non rispose, bensì risposero le tasche per lui, nelle quali il legnaiuolo facea saltellare quelle dieci monete. Tecla, a quell’armonico tintinnio, aperse tanto d’occhi e mutò la smorfia in sorriso.

- Che so io, quant’abbia a costare? - -diss’ella. - Dieci, quindici lire.... sono tanti anni che non compro più nulla!

- Eccone venti! - soggiunse superbamente Pasquale. E cavata una mano di tasca, gettò una moneta in grembo alla moglie, che fu pronta a metterci addosso ambe le sue. Egli, allora ridendo, così prese ad ammonirla:

- Tecla, Tecla, donna di poca fede, perchè avete voi dubitato? Vedete, ce n’ho altri nove, di questi confetti; erano dieci, come i comandamenti di Dio.

- Lasciate là i vostri paragoni, ereticaccio! Quella è roba di mal acquisto!.

- Di mal acquisto, Tecla? e perchè? Li ho forse rubati in saccoccia a qualcuno? Li ho forse chiesti a patto d’una [p. 177 modifica]cattiva azione? M’hanno detto: Pasquale, amicone, c’è una disgraziata figliuola nel monastero dove andate voi a lavorare; bisogna che ci aiutiate a salvarla. - Che! non me ne immischio, io. - E perchè? Non si tratta mica di far cosacce; quella poverina è sola, in mano a gente che le vuol male, e la costringe a farsi monaca, contro la sua volontà. - Oh, per questo, lo credo, che l’ho veduta io, co’ miei occhi, a piangere. - Orbene, commetterete un gran peccato, a darle un biglietto? - Un biglietto? Io? Per chi m’avete voi preso? - Ma, sapete? un biglietto aperto; lo potrete leggere e vedrete che non ci sarà nulla di male; non si tratta d’altro che di farle coraggio. - Sì veramente m’è parso che n’avesse bisogno. - Or dunque, da bravo, Pasquale, fatelo per amor mio. Sapete, inoltre; una mano lava l’altra. - E tutt’e due il viso, lo so; ma se perdo il pane? - Che pane? avrete pane e vino ed ogni ben di Dio da coloro che hanno a cuore quella disgraziata; ve ne sto mallevadore io, non vi basta? - Così m’hanno parlato, ed hanno mantenuto più di quanto m’avevano promesso. Roba di mal acquisto! E sia pure; qua l’altro marengo che avete già messo in tasca; io lo metto di costa agli altri nove, e li butterò tutti quanti nella cassetta delle anime, alla parrocchia di Castello. L’ospedale farà limosina alla chiesa. La non v’entra? Neanco a me; ma allora non mi state lì ingrugnata a cantare i paternostri della bertuccia. -

E adesso, per non riuscire stucchevoli ai lettori, lasciamo Tecla e Pasquale a finire il loro battibecco, che già volge all’accordo, per seguire un tratto il Giuliani e Michele.

Il nostro Templario uscì contento come una pasqua dalla bottega del legnaiuolo; non così Michele, a cui era rimasta una spina nel cuore.

- Maledetta lingua! - diss’egli. - Ho fatto male a lasciarmi sfuggire quelle parole.

- Perchè? - dimandò il Giuliani.

- Perchè adesso, se quest’altro ci girasse nel manico.... Non si sa mai....

- E quando pure girasse?

- Ma.... Ella mi capisce. Siccome quei furfanti verranno in cognizione del tiro di Pasquale, andranno da lui, lo sobilleranno, gli caveranno il segreto di corpo verranno a sapere che sono stato io....

- E poi?

- E poi.... Gli è vero! non sapranno niente più di quello che già era scritto in quel foglio. [p. 178 modifica]

- Vedete dunque, Michele, che non c’è nulla di guasto. Vi siete fatto sospettoso, da un pezzo in qua, diffidente come una lepre. E non eravate mica così nel passato; che anzi....

- Ah, signor Giuliani! chi è stato scottato dall’acqua calda una volta, ha paura della fredda. E dico questo a mo’ di proverbio, che per verità l’acqua m’è venuta a piacere, d’ingrata che m’era, e il vino lo assaggio, ma non ne bevo mai più d’un sorso. Quello è un briccone; ma gli ha finito di giuntarmi, di cavarmi i segreti di bocca. Veda, signor Giuliani, io mi trovo certe volte a non aprire le labbra, per timore che m’esca il fiato e vada negli orecchi di quella brutta gente. Ora, mi scusi, veh! se batto sempre il medesimo chiodo; ho una paura maledetta che vengano a indovinare....

- E che cosa, di grazia? Che la signorina Maria non poteva esser dimenticata da Lorenzo Salvani? Che Lorenzo Salvani ci ha degli amici? Che questi amici lo aiuteranno secondo il poter loro, a render pan per focaccia? Ben sarebbero scemi d’intelletto, se non lo avessero argomentato alle prime! Ora, che cosa potrebbero sapere di più? Il filo che può condurli in questo labirinto s’interrompe qui; essi avranno sentore d’una insidia, ma senza intendere dove ella sia tesa, e in che modo. Questo è l’essenziale; ma questo non sapranno di certo. Noi abbiamo il loro segreto; essi non hanno il nostro. State di buon animo. Michele; fate il vostro dovere, io farò il mio; il nostro Deus ex machina farà il suo. E riderà bene chi riderà l’ultimo.

- Non ho ben capito che cosa Ella si voglia dire, colla sua macchina; - soggiunse Michele; - ma le dico amen dal profondo del cuore.