I rossi e i neri/Secondo volume/XX
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XX.
Nel quale si fa la conoscenza d’un nuovo personaggio, che non giungeva altrimenti nuovo al Giuliani
Per intendere la sicurezza del Giuliani, e come e perchè egli si facesse agevole ogni cosa, egli che aveva dovuto sudar tanto e stillarsi il cervello, solo per iscoprire un filo di quella trama tenebrosa che circondava la casa dei Salvani, bisognerà tornare parecchi giorni indietro, non senza aver prima rammemorato in succinto le cose fatte dall’animoso Templario, e detta la ragione di certe altre che sono passate dianzi sotto gli occhi dei lettori benevoli.
Qual parte avessero avuta i Templarii nel discoprimento di quella macchinazione infernale, è noto. L’ascoso nemico era stato rintracciato e scovato dal Giuliani, posto in sull’avviso dalle confessioni di Michele. Il Garasso, l’anello di congiunzione tra casa Salvani e i suoi coperti assalitori, era stato costretto a parlare, in quel modo che tutti sanno, a spifferare il nome di Bonaventura Gallegos, del fiero gesuita, del degno maestro del dottor Collini. La cassettina d’ebano, innanzi che fosse involata, avea detto per fortuna i suoi segreti a Lorenzo; e se non s’intendeva ancora per bene che importanza potesse avere agli occhi del capitano dei neri, già s’era capito che doveva averne, e non poca. Bonaventura ignorava che quella cassettina fosse stata aperta; che anzi le confidenze fatte al Bello dall’imprudente Michele, gli facevano argomentare che nè Lorenzo, nè altri, ci avesse posto ancor gli occhi. Ora, non pure Lorenzo, ma con esso lui Aloise di Montalto, l’Assereto e il Giuliani, erano a parte del segreto, e poterono cavarne quanto bastava per venire in aiuto alla sventurata Maria.
L’amicizia dell’Assereto e del Giuliani aveva procacciato a Lorenzo e ad Aloise, involti ambedue nelle trame dei neri, l’alleanza dei Templarii. Tutti quei rossi, d’ogni levatura e d’ogni ceto, avevano fatto causa comune; ma il carico delle operazioni molteplici, l’ardua malleveria del combattimento, strategìa, tattica, logistica, stato maggiore, armi dotte, tutto perfino l’intendenza militare, era sulle spalle d’un solo. Il marchese di Montalto, dopo aver detto agli amici quello che aveva risaputo a caso dai Torre Vivaldi intorno alla nuova ospite del monastero di San Silvestro, era stato tratto dai suoi fati sulle orme della marchesa Ginevra; l’aveva seguita da Genova a Parigi, da Parigi a Vienna, a Monaco, in Isvizzera, stazioni tutte d’un viaggio che lo conduceva speditamente in rovina. Questo è come dire ai lettori che l’innamorato Aloise non era un aiuto pe’ suoi alleati, e, già presso al naufragio, doveva aver bisogno di aiuto egli stesso. L’Assereto aveva già fatto abbastanza, mettendo ogni cosa in mano ai Templarii; del resto, costretto a guadagnarsi il pane in piazza de’ Banchi e sulle calate del porto, poco poteva aiutare gli amici, e rade volte andare alla Montalda, per salutare il Salvani. Nè questi, pel negozio della congiura, poteva muoversi dal suo nascondiglio; lo avesse anche potuto e voluto, la sua infermità non glielo avrebbe più consentito. C’era il Pietrasanta, l’allegro, lo spensierato Pietrasanta, che non s’era mosso da Genova, vogliam dire dai dintorni, poichè la Giulia Monterosso era in villeggiatura; ma che poteva far egli? Volevano i suoi cavalli? Li avrebbe anche fatti crepare, per comodo loro. C’era da dar la scalata al convento? L’impresa, quantunque gravissima, non gli avrebbe fatto paura. Occorreva denaro? Ne avrebbe dato, s’intende nella misura della sua borsa e del suo credito presso la nobilissima classe degli strozzini. Altro aiuto non c’era a sperare da lui; e ben lo intendeva il Giuliani, rimasto solo a far disegni di guerra, quasi solo amandarli ad effetto, poichè non aveva altri con sè, tranne Michele, suo fidato scudiero.
Ma egli non si sgomentò, il nostro Giuliani: insieme colla malleveria gli crebbe l’ardimento. Domandava consiglio ai notturni colleghi, ma solo quando aveva cominciato a fare, e allora otteneva facilmente quella dispensa che in istile forense è detta sanatoria, e bill d’indennità in istile parlamentare. La sua prima invenzione, dopo quella felicissima impresa col Bello, fece crollar mestamente il capo a Lorenzo, quando egli ne fu ragguagliato, come quella che pareva impossibile, ed anco se fosse stata possibile, menava assai per le lunghe. Ma le vie lunghe sono spesso le più brevi; e l’esito aveva dato ragione al Giuliani. Il suo scudiero, posto fin dagli ultimi giorni di luglio all’assedio, penetrava ai primi di settembre nella piazza, e non visto vi piantava lo stendardo della lega.
Questa vittoria ne chiamò un’altra assai presto. I lettori rammentano come Michele celebrasse il suo giorno onomastico, origliando dal buco d’una toppa il colloquio di Bonaventura col suo degno discepolo. Per tal modo il Giuliani veniva in chiaro dei disegni dell’inimico, un’ora dopo ch’erano stati fatti, e fin da quel punto aveva scorto il bisogno di avvisar la fanciulla della nuova trama che si ordiva contro di lei. Fin dagli ultimi giorni di giugno ella era stata chiusa, in veste di postulante, nel monastero di San Silvestro; ma il postulato durava sei mesi; c’erano adunque ancora tre mesi di tempo, innanzi che ella riuscisse alle strette del noviziato. Di ciò bastava avvisarla; tenesse fermo, non si smarrisse d’animo fino al segno d’accettare la monacazione come un rifugio da quelle orribili nozze che le apprestava il gesuita; fingesse di accettare la profferta; intanto sapesse che non era abbandonata, che Lorenzo e gli amici suoi vigilavano, l’avrebbero ad ogni costo salvata. E questo prometteva il Giuliani con asseveranza; perchè, ove pure altri spedienti gli avessero fallito, egli si sarebbe appigliato all’ultima ratio della stampa, divolgando l’iniquo tentativo, facendo insomma uno scandalo, che avesse costretto la giustizia a mostrarsi degna del suo nome, aprendo alla fanciulla le porte del carcere.
Ma innanzi di metter mano agl’ingegni, il nostro Templario volle indettarsi con Lorenzo Salvani. Quel nuovo tiro di Bonaventura gli parve tale da non lasciarlo ignorare neanche lo spazio d’un giorno all’amico; epperò, non potendo più correre quella medesima sera alla Montalda, fece disegno di andarvi la mattina vegnente. Intanto, memore del detto d’Apelle: nulla dies sine linea, non lasciò passar quella sera senza provvedimenti. Fin da quando avea saputo esser la fanciulla nel monastero di San Silvestro, egli s’era industriato a scoprire chi fossero i laici che per ragion d’uffizio entravano colassù, e munito di quelle notizie, avea posto subito gli occhi addosso al gobbo legnaiuolo. Il giorno susseguente. Michele, sotto colore di certi lavori che voleva allogargli, entrava in dimestichezza con mastro Pasquale; una settimana dopo erano già amici, andavano d’accordo come le chiavi e il materozzolo; Michele passava tutti i giorni un’oretta in bottega di Pasquale; la sera, poi, andavano dal tavernaio a far la partita a tarocchi; Michele perdeva spesso, guadagnava di rado; non beveva quasi mai; ma pagava sempre egli il conto; e Pasquale n’aveva abbastanza. Or dunque, in quella medesima sera, il Giuliani ordinò a Michele che tastasse il suo uomo; occorrendo gli promettesse denari a larga mano, ed anco ne snocciolasse, per averlo più arrendevole. Ma non ci fu bisogno di tanto; Pasquale si dispose a fargli servizio, dicendogli che della ricompensa avrebbero parlato a loro agio più tardi.
Questa lieta notizia aveva avuta il Giuliani prima d’andarsene a letto, e la mattina seguente poteva recarla, insieme coll’altre, all’amico Salvani.
Erano già suonate le dieci, quando egli giunse al palazzotto dei Montalto. Affacciatosi appena sul piazzale, che, come i lettori rammentano, era partito ad aiuole di giardino, e dava il suo quotidiano tributo di fiori alla tomba della marchesa, gli venne veduto il vecchio Antonio, intento, secondo il suo costume, a far qualche cosa, per non istarsene colle mani alla cintola. Fattosi allora innanzi, gli chiese del suo amico Salvani e del marchese di Montalto, ch’egli aveva lasciato lassù, l’ultima volta che c’era stato per salutare l’infermo. Aloise era partito da sei giorni, gli rispondeva il vecchio servitore; Lorenzo, uscito di convalescenza, aveva ripigliate le sue consuetudini, ed era per l’appunto da due ore andato a fare la sua passeggiata pei greppi.
- Andrò dunque a rintracciarlo lassù; - disse il Giuliani, nell’atto di tornarsene fuori.
- Non vuol fare colazione prima di andare? - gli chiese Antonio, che conosceva il suo debito di cerimoniere.
- Più tardi, più tardi; - rispose il Giuliani. - Non ho ancora appetito.
- Vuole che l’accompagni?
- No, conosco la strada, se egli è andato al suo solito luogo.
- Oh, il signor Salvani non muta; sempre alla Bricca. Pigli la viottola della costa, poi volti a diritta....
- Lo so, Antonio, lo so; grazie tante, e a rivederci. -
Ciò detto e senza aspettare la sberrettata del vecchio gastaldo, il Giuliani scese il poggio della Montalda, e giunto alla stradicciuola campestre, tornò a salire su per la costiera, verso quella balza che era la meta delle gite quotidiane dell’amico. La Bricca era un luogo veramente selvaggio, la cui orridezza piaceva a Lorenzo, se pure può dirsi che cosa alcuna gli piacesse, dacchè era uscito fuggiasco da Genova. Su per quei greppi egli andava in compagnia de’ suoi tristi pensieri, senz’altro viatico che un libro, trascelto nei pochi e polverosi volumi della Montalda, un vecchio Cicerone nel quale egli leggeva per la quinta volta le stupende pagine De Senectute. Era l’unico intermezzo ch’egli ponesse nelle sue dolorose meditazioni. Quel trattatello di vera e sana filosofia, così serenamente malinconico in quella che era così schiettamente elegante, se per avventura non gli racconsolava lo spirito, certo lo disviava per alcuni istanti dalle sue cure, riusciva una sosta a’ suoi struggimenti.
Non era uno svago, di certo; nè sempre accadeva ch’egli spendesse nella lettura quegl’istanti di alpestre riposo. Talvolta gli occhi soli seguivano macchinalmente i periodi armoniosi del gran dicitore romano, mentre lo spirito era altrove. Tal altra il pensiero dominante s’addormentava un tratto nel profondo, ma per rifarsi a punger più forte la sua vittima. E allora il libro si richiudeva, e Lorenzo Salvani rimaneva sopraffatto, istupidito dall’interna amarezza. Sentiva dentro di sè come una grande rovina; non aveva forza da opporre. Questi, che così soffrono, sono gli animi forti, o che si chiamano tali; chè veramente non ce ne sono di autentici, fuorchè in apparenza. L’aspetto è composto, la fronte è serena, solo perchè il cuore si divora le sue lagrime, trangugia le sue maledizioni e s’avvelena del suo fiele.
Quando il Giuliani ebbe afferrate le alture della Bricca, e fu tanto vicino da scorgere fra mezzo ai cespugli se l’amico fosse al suo posto consueto, Lorenzo non leggeva, non meditava, non era neppur solo. Ciò parve strano al nuovo venuto, poichè Antonio non gli aveva detto d’altri che quella mattina fosse giunto prima di lui alla Montalda. Però si trattenne alcuni istanti a guardare, quasi temendo non fosse Lorenzo quel giovanotto che egli vedeva di profilo, seduto a terra, colle spalle appoggiate al ruvido tronco d’un pino gigantesco, intento ad udire i discorsi d’un vecchio signore, che stava ritto in piedi poco distante da lui. Ma era proprio Lorenzo; il Giuliani udì la sua voce, e ne riconobbe l’accento, proprio in quel punto che lo sconosciuto si accorgeva della presenza del nuovo arrivato, e col moto involontario delle ciglia facea voltare da quella parte il Salvani.
- Oh, siete voi? - disse Lorenzo con piglio affettuoso, da cui traspariva una certa ansietà. - Siate il benvenuto su queste alture, che da tanti giorni non vi vedono più. -
Il Giuliani si fece innanzi a stringergli la mano, ma non disse parola. Egli guardava il vecchio signore, che all’apparire di lui era rimasto, se non per avventura turbato, certo scontento, e di molto. Lorenzo proseguì presentando il giovine all’uomo maturo.
- Il signor Giuliani, dottore in leggi, giornalista, ed uno de’ miei amici migliori. Nelle mie sventure io ci ho avuta, contro ogni costume, la fortuna di sperimentar saldi i vecchi amici, e di trovarne dei nuovi, schietti ed operosi egualmente; segno che la razza umana non è così perversa come si crede. -
Intanto che Lorenzo parlava, il Giuliani seguitava a guardare, sebbene modestamente, come s’usa tra persone costumate, il vecchio signore. Chi è costui? andava egli pensando tra sè. Non l’ho io già veduto? Ma dove? E non poteva raccapezzarsi. Quel volto non gli era ignoto, e questo gli affermava la sua memoria; ma ella non sapeva dirgli altresì come e quando l’avesse egli veduto.
- Il signor Salvani non mette in conto una cosa, - soggiunse egli, ponendo fine alle sue interrogazioni mentali; - ed è la tempra nobilissima del suo carattere, che ha virtù di attrazione. Uomini come lui, avranno nemici coperti, astuti, implacabili; ma troveranno sempre amici schietti, costanti, e battaglieri, ove occorra.
Lo sconosciuto, a cui, come era stata fatta la presentazione, era rivolta l’aggiunta del presentato, rispose con un cenno del capo alle prime parole del Giuliani; all’ultime col farglisi incontro.
- È verissimo ciò che voi dite, o signore. La vostra mano, che io la stringa, come l’ha stretta il signor Salvani!
- Cioè a dire da amico?
- Ci s’intende; - rispose lo sconosciuto, stringendo quella destra che il Giuliani non offriva nè ricusava.
- Ci s’intende! - disse il Giuliani tra sè. - Ci s’intende un cavolo! E non mi dice nemmeno il suo nome! Che modi son questi? Io ho la visiera calata; egli la tiene alzata sugli occhi, e porta l’impresa dello scudo coperta. Ma io lo conosco, costui; l’ho veduto, e non deve essere gran tempo. O dove diamine l’ho veduto? Questa è la disgrazia di vedere tante facce nuove ogni giorno, che una fa perdere la memoria dell’altra. Dicono che Napoleone gran capitano, l’avesse così salda, la memoria, da ricordarsi il volto del più oscuro personaggio ch’egli avesse veduto dapprima. Vedete gran caso, ricordarsi dei volti! Ma il nome, il nome bisognerebbe ricordare; questo è il busilli. -
La curiosità del Giuliani e la sua diffidenza erano tanto più ragionevoli in quanto che la figura del vecchio era di quelle tali, che, vedute una volta, non si dimenticano più. Vecchio, a rigor di vocabolo, non si poteva neppur dire, essendo egli appena in quella età fra i cinquanta e i cinquantacinque anni, che segna bensì il riposo delle passioni, ma ancora la maturità del senno per la comune degli uomini. Folta aveva la capigliatura, ma bianca, senza pure un filo di nero, e medesimamente i baffi, che scendevano lunghi ad ombreggiargli le labbra; donde un maggior risalto ad una carnagione che sarebbe apparsa pallidissima, se non fosse stata abbronzata per modo da lasciarlo credere lungamente vissuto sotto la sferza d’un sole equatoriale. Il suo volto era di belle fattezze; i lineamenti larghi e ricisi spiravano un’aria di gran nobiltà; e l’avrebbero anche avuta di somma dolcezza, se i suoi grandi occhi azzurri, affondati nelle orbite, non fossero rimasti di soverchio all’ombra sotto l’arco delle folte sopracciglia, in mezzo alle quali un fascio di rughe profonde poteva raffigurare i fulmini di Giove, in atto di sprigionarsi dalle nubi. Era di giusta statura, e di membra asciutte; le spalle non erano curve, ma tali le faceva sembrare il capo chino per antica consuetudine, e s’intendeva agevolmente che non lo avesse incurvato a quel modo il peso degli anni, bensì quello dei gravi pensieri.
Restringendoci per ora a dipingere l’uomo estrinseco, non diremo che pensieri fossero i suoi. Nè dal volto di lui era dato indovinar l’animo, come pure si argomentano di poter fare taluni. In quel volto, che doveva essere stato bellissimo, era alcun che di concentrato, di buio, che non lasciava trapelare nè arguire nulla di certo. Si sarebbe potuto dire un volto di gran diplomatico, se non si sapesse che l’aria chiusa, il far misterioso di questa gente, anzichè dall’indole loro, deriva dallo ignorare alcune volte gli arcani dei loro governi, e quasi sempre dallo aver sperimentato la mutabilità della ragione di Stato a cui servono. Che avesse patito, si poteva anche credere; ma chi non ha patito a questo mondo? Meglio sarebbe il dire che aveva vissuto, e vivendo aveva imparato come si debba nascondere l’animo suo a quella moltitudine di sciocchi o di malvagi, che sono, giusta i computi più recenti e più accurati, i due terzi del buon genere umano.
Quest’aria di mistero spiacerà, ne siamo certi, alle lettrici impazienti; ma spiacque maggiormente al Giuliani, che ricordava di aver visto quell’uomo, e non sapeva più dove, che lo considerava attentamente e non ne raccapezzava nulla, neanche l’origine. Vestito con quella severa eleganza britannica che è ormai diventata il privilegio dei gran signori d’ogni paese, lo sconosciuto parlava italiano con rara sceltezza di vocaboli e con accento rotondo, armonioso, che arieggiava il romano, senza esser tale a dirittura; ma la costruzione delle frasi sapeva un tantino di forestiero. Certo egli era nato altrove, e vissuto a lungo in Italia; ma di qual parte del mondo civile egli fosse, non era dato al Giuliani d’intendere. E questo aguzzava la curiosità, e colla curiosità la diffidenza del giovine.
- Orbene, Giuliani, - disse Lorenzo, poichè ebbe finita quella bisogna preliminare della presentazione, - c’è egli del nuovo a Genova?
- Del nuovo.... secondo i casi; - rispose il Giuliani con aria di riserbo, che non sfuggì all’attenzione di Lorenzo.
- Potete parlar liberamente; - soggiunse questi. - Il signore non è straniero alle mie sventure, e potete considerarlo come un fratello. -
Lo sconosciuto fece un gesto amorevole, quasi un inchino, alle parole di Lorenzo. Ma nè l’atto di lui, nè la fiducia di Salvani, toccarono il cuore al giornalista.
- Questo poi passa ogni misura! - pensò egli nel più riposto della sua coscienza. - Non lo conosco; non mi si dice neppure il suo nome; ed io dovrò aprirmi con lui? Fossi matto!
E mentre così pensava, ad alta voce proseguì:
- Lo credo benissimo, ma proprio non ci ho nulla di nuovo per voi. Son venuto per salutarvi, ed anche un po’ per vedere il marchese di Montalto. A quel nome la faccia dello sconosciuto si fece scura, come se una nube gli passasse sugli occhi. Il Giuliani, che s’era voltato a lui, come per dargli la sua parte dei gran segreti che gli uscivano dalla bocca, colse quella nube al volo, e la messe di costa a tutte l’altre ragioni di diffidenza che ci aveva nell’animo.
- Il nostro amico Aloise è partito, or fanno sei giorni: - disse Lorenzo, che non aveva notato nulla. - Egli voleva rimanere, come mi aveva promesso; ma io lo vedevo così triste, che a mala pena mi son sentito in gambe per uscir fuori di casa, gli ho restituito la sua libertà, e l’ho mandato via. Povero amico! Egli ha certo dei gravi dispiaceri! Il Giuliani ne sapeva la sua parte, dei dispiaceri di Aloise; perchè nel colloquio di Bonaventura e del suo degno discepolo se n’era lungamente parlato, e quello che Michele gliene aveva rifischiato era tale da mettere in gran pensiero il Giuliani. Ma anche questo era un discorso da non farsi in presenza d’un terzo, e il Giuliani stette mutolo, come se Lorenzo non avesse parlato con lui.