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XIX.

Come una buona azione ricevesse il suo premio.

Mastro Pasquale era frattanto arrivato in bottega, dove s’aspettava di veder Michele coll’altro «della gazzetta», ma dove non vide altri che il suo fattorino, giovine allocco che se ne stava guastando colla sgorbia un pezzo di legno di tiglio, per farne non sappiam quale balocco.

— E così, non c’è nessuno? — dimandò il legnaiuolo.

— Sì, principale, ci son io.

— Lo vedo, babbaccione, che ci sei tu. Dico se non c’è stato ancora nessuno.

— Sì, c’è stato il Trinca che andava all’osteria a pigliarsi una zuppa, e voleva darvi il buon giorno.

— Va là, bietolone; chi ti domanda del Trinca? Ti domando se è venuto nessuno che avesse bisogno di parlarmi.

— Ah, ho capito; sì, c’è stato uno, ma il nome non lo so.

— E se n’è andato?

— Sì, principale.

— Senza lasciar detto nulla?

— Non lo so, perchè è passato di sopra, da vostra moglie.

— Bestia! potevi dirmelo subito, e non avrei perso tanto fiato con te.

— Non me lo avete domandato, principale....

— Uff! Riporrai que’ ferri, che poi a raccapezzarli ci metterei tre ore, infingardaccio, buono a nulla, balordo che sei!

— Questo è l’acconto che mi dà sulla settimana! — disse tra sè il garzone, mentre riponeva la sgorbia nel cassetto e appendeva il gattuccio al muro. — E quando gli dico che ho quindici anni e che mi aggiunga qualcosa sul salario, me ne dice altrettanto. —

Il vecchio legnaiuolo s’era avviato a una porticina che dal fondo della bottega metteva nell’andito delle scale, per salire al primo piano della casa, dov’era il suo alloggiamento. Colassù, tutta imbacuccata in un vecchio scialle, accoccolata su d’una vecchia scranna presso la finestra, stava una femmina dal volto giallo, malazzato, che doveva essere appunto quella tal brenna di cui aveva detto nel suo soliloquio il nostro Pasquale.