I rossi e i neri/Secondo volume/XVIII

XVIII

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XVIII.

Come qualmente mastro Pasquale perdesse il Pentolino

Il legnaiuolo, quantunque, per aver già salito due scalini, fosse molto più indietro, non tardò a raggiungere la Madre Maddalena, che correva a passo d’anitra lunghesso il murello. Ma il diavolo volle (fu proprio il diavolo?) che la corsa di mastro Pasquale fosse rattenuta dal cavalletto ch’egli aveva lasciato pur dianzi in mezzo al viale, e il tempo ch’egli pose a mettere quell’arnese da banda, fu guadagnato dalla vecchia monaca, che potè giungere, ad una con esso lui, presso la fanciulla svenuta. [p. 164 modifica]

Il primo sguardo del gobbo fu pel biglietto; ma non lo vide, per quanto girasse gli occhi tutto all’intorno. Allora egli si fece a sollevare la giovinetta da terra, mettendole rispettosamente un braccio sotto le spalle, e tentando di ricondurla, senza brancicarla di troppo, al sedile. Tra tutt’e due ne vennero a capo, e già mastro Pasquale incominciava a respirare, pesando che la fanciulla avesse avuto tempo a nascondere in tasca il foglietto, allorquando vide la monaca chinarsi a terra e metter la mano su d’un batuffolo di carta che era uscito in quel punto dalle dita di Maria.

— Che negozio è questo? — esclamò la Madre Maddalena, in quella che spiegava sollecitamente quel foglio tra mani.

Mastro Pasquale fece le viste di non avere udito; ma mentre si adoperava a collocare in miglior modo la fanciulla sul sedile, notò che la monaca leggeva lo scritto, inarcando le sopracciglia e battendo le labbra in segno di corruccio.

— Gesummaria! — gridò la monaca, appena ebbe finito. — Vo a chiamar la madre badessa.

— E le dica che porti dell’acqua! — aggiunse Pasquale, che non sapeva più in che acque si fosse.

La vecchia monaca non gli badò più che tanto, e andò più speditamente che non fosse suo costume verso l’uscio dell’orto, dove si messe a strepitare come un’ossessa, chiamando la superiora, il capitolo, le, converse, la comunità tutta quanta.

Pollione, il malcapitato proconsole delle Gallie, quantunque scombussolato dalle furie di Norma e dalle sue minacce contro la povera Adalgisa, fu molto più saldo ai tre colpi percossi sul sacro disco dalla gran sacerdotessa d’Irminsul, che non fosse mastro Pasquale all’udire quell’altra druidessa che suonava a stormo sul ballatoio.

— Diamine! — borbottò egli tra’ denti. — La frittata è fatta, e mi toccherà mandarla giù senza vino. Purchè, quelle befane non mi cavino gli occhi!... Ahi, ahi! eccone già due.... tre.... quattro.... Sbucano dalle quinte come le streghe in teatro. —

In nostro gobbo, chi nol sapesse, aveva speso i suoi cinquanta centesimi per andare tra la gente alta, in un teatro di second’ordine, a vedere il Maccabeo, com’egli diceva, storpiando popolescamente il titolo d’un melodramma verdiano.

Frattanto, insieme collo stuolo delle monache, giunse una conversa (quella ch’egli chiamava riverentemente la madre [p. 165 modifica] Bibiana) con una brocca d’acqua tra mani. E qui bisogna dirlo ad onore di mastro Pasquale, non badando al susurro, al tramestio che facevano quelle sante madri intorno a lui, non pensando più che tanto al suo danno imminente, egli si adoperò, stiam per dire colle mani e co’ piedi, a far rinvenire la giovinetta, che fino a quel punto non aveva dato segno di vita.

— Povera piccina! — pensava egli, mentre le veniva spruzzando il viso. — Vedete mò, le buone notizie, quando vengono improvvise! Ho forse fatto male. Ma come si poteva fare diverso, con quell’altra alle costole? —

Tutto il sacro capitolo gli si stringeva curiosamente alle spalle. Ce n’erano d’ogni forma e d’ogni età, come diceva Leporello, grasse e magre, alte e basse, vecchie e giovani, belle e brutte; queste a dir vero più numerose dell’altre. Talune, dal mento fiorito di peli e dall’accento mascolino, apparivano, anzichè monache, carabinieri travestiti; talaltre, dal naso imbrattato di tabacco, dagli occhiali inforcati, dalla voce chioccia, si poteva argomentare che fossero consiglieri d’appello; nè ci mancava l’avvocato fiscale, che sotto le spoglie di Madre Maddalena, poteva mettere innanzi il corpo del reato e chiedere la condanna del colpevole ai signori giurati.

La povera Maria, tornata finalmente in sè, fu per comando della superiora portata dalle converse nella sua cella. Pasquale avrebbe voluto far lui quella impresa; ma un no imperioso gli avea fatte cadere le, braccia. Pensò allora di tornarsene ai suo pentolino, e mogio mogio sbiettò dietro un filare di viti.

— Chi mi scampa, adesso da quelle megere? — pensò egli;, che, parlando con sè medesimo, non si reputava obbligato a tanti riguardi. — Se potevo giungere all’uscio, infilavo le scale, e buona notte! Ora, invece, eccomi colto come una volpe alla tagliuola.... —

Mastro Pasquale aveva una battisoffia in corpo, da non dirsi a parole. Se avesse studiato mitologia, si sarebbe ricordato di Orfeo, e della mala fine che fece tra le Baccanti che ognuna ne volle uno spicchio.

— Dove andate, quell’uomo? — tuonò improvvisamente la voce della badessa.

— Ahi, ahi! Son già diventato quell’uomo! — borbottò il povero gobbo. — Con sua licenza, Madre reverendissima — rispose ad alta voce; — vado a dare una mano di colore; se no, mi secca nel pentolino. [p. 166 modifica]

— Non importa; venite qua! —

Mastro Pasquale ci andò come la biscia all’incanto. Teneva gli occhi bassi, ma non tanto che non gli fosse dato vedere il malaugurato biglietto tra le dita della badessa.

— Ho capito; — disse tra sè, — ci siamo! —

E armatosi di coraggio, quanto più gli venne fatto tirarne su dai precordii, sollevò la fronte a guardare l’eccellentissimo tribunale.

— Che cosa significa questo foglio di carta? —

Il legnaiuolo fece l’atto di stringersi nelle spalle, e spinse fuori il labbro inferiore; maniera volgare, ma eloquente, di dirle che egli non ne sapeva un bel nulla.

La madre badessa allora, volgendosi alle monache, e in mezzo alle loro esclamazioni di orrore, di raccapriccio, lesse ad alta voce il biglietto.

«— Non temete, signorina, non vi perdete d’animo; mostrate di accettare ogni cosa che vi si proponga. Lorenzo è in Genova; egli e i suoi amici vegliano su di voi; vi salveranno ad ogni costo, e tra breve.» Questo infame biglietto, che desta un senso di esecrazione in tutte le Madri qui raccolte, — proseguì la badessa, volgendosi da capo a Pasquale, — non può essere stato portato qua dentro se non da voi, confessatelo!

— Non so nulla, io, non so nulla! — gridò il legnaiuolo.

— Ah, nulla? proprio nulla? Bravo, Pasquale! Questo è il modo di governarsi in un sacro luogo? Questo è il modo di corrispondere alla fiducia che s’era posta in voi, nella santità dei vostri costumi? Vergognatevi! Avete già un piè nella fossa, e in cambio di mettervi in grazia al Signore, vi macchiate di sacrilegio, pagate di questa moneta la nostra bontà, il guadagno che fate da tanti anni in questo convento...

— Oh, per questo, — interruppe Pasquale, che vedeva andar la predica per le lunghe, e tanto, o prima, o dopo, bisognava rompere il ghiaccio, — la non si metta sui trampoli. Vossignoria reverendissima. Trecento lire genovesi, da ottanta centesimi l’una, e chiamato quassù tre volte almeno per settimana, ora per una cosa or per l’altra, che più ci ho rimesso di scarpe!

— Sì, neh? — entrò a dire Bibiana, la conversa; — e il bicchier di vino e i cantucci da inzupparvi dentro, che vi si davano ad ogni tanto, non li mettete in conto, bocca mia dolce?

— Mille grazie. Reverendissima! — ribattè l’altro alla conversa, con un piglio ironico che fece increspar le labbra a [p. 167 modifica] più d’una di quelle Madri. — Ed Ella non le mette mica in conto, le gazzette che io....

— Basta, basta! — gridò la badessa, dando sulla voce a lui e accennando alla conversa che si tenesse la lingua tra’ denti. — Non è da noi il trattenerci qui a garrire con un pari vostro, così indurito nelle male opere.

— Metta che io sia una stiappa di merluzzo; — non potè tenersi dal rispondere il gobbo.

— E bisognerà dare un esempio; — soggiunse la badessa, senza scomporsi.

— Purchè non si tratti d’unghiate, io me la rido; — pensò mastro Pasquale. E stette imperterrito ad aspettar la sentenza.

— Meritereste di andare a marcire in una prigione; — proseguì la giudichessa; — ma noi non useremo i mezzi della giustizia umana, bastandoci i castighi della divina, che vi attendono, se durate nel vostro peccato. Quella è la porta, e badate! non metterete più piede qua dentro.

— Che io mi possa rompere il nodo del collo se ci torno! — gridò sollevato il legnaiuolo, in quella che sguisciava in mezzo a due file di monache per correre all’uscio. — Se ne cerchino pure un altro, le Signorie loro reverendissime!

— Oh, non ne mancheranno di certo, e più rispettosi di voi; — disse la madre badessa.

— E più timorati di Dio; — aggiunse la madre Maddalena.

— E meno gobbi! — chiuse la conversa Bibiana, che aveva, come il lettore argomenta, la sua vendetta da fare contro il manigoldo che le aveva data la baia.

Non l’avesse mai detta! Mastro Pasquale, che era gobbo come un dromedario, e da quella parte lì non pativa la celia, si rivoltò come una vipera a cui sia pestata la coda.

— Gobbo a me? Brutte streghe! gobbo a me? Sono i peccati delle Signorie Loro reverendissime, che mi tocca portar sulle spalle, e tutti i giorni s’accresce la soma. Vedete bel modo di trattare i galantuomini! Gobbo a me! Con questa gobba io ho trovato moglie, e Lei colla sua bazza non ha trovato nemmeno un orbo che la volesse per accompagnatura.

— Bibiana, — tuonò la badessa con piglio severo, — quest’oggi e dimani rimarrete a far penitenza. E voi andate una volta, malcreato!

— Ah sì? anche malcreato? — gridò il legnaiuolo, più inviperito che mai, piantandosi vicino all’uscio, come Aiace sul vallo. — A me gobbo? a me malcreato? Streghe, [p. 168 modifica] befane, versiere, biliorse, arcaliffe, che nemmeno il diavolo le vorrebbe in cucina per fargli la zuppa! Ma, l’hanno a pagar cara! Venga chi so dir io al comando, e se n’andranno tutte quante in mezzo alla strada, se n’andranno!

— Scellerato! Lo sentite? — esclamò la badessa, volgendosi con aria stupefatta alle suore.

— Sì, e voglio che mi sentano perfino da Mascherona, e dal pozzo di Sarzano! — incalzò il gobbo. — Sì, l’ho detto e lo ripeto, in mezzo alla strada!

— Sta bene, — soggiunse un’altra delle Madri; — intanto andateci voi.

— E non troveranno un cane che faccia loro la limosina di un osso.

— Santa pazienza! — esclamò la Madre Maddalena.

— Ma andate, suvvia! — gridarono allora, facendoglisi incontro, parecchie delle più robuste.

Orfeo capì allora che non c’era più tempo da perdere, e passò incontanente la porta. Le Madri finalmente respirarono; ma Pasquale non aveva anche finito, poichè, comparso da capo nel vano, alzò il braccio, tese l’indice in atto di maledizione, gridando con quanto fiato aveva in corpo: — se n’andranno; sì, se n’andranno! —

E fu la sua ultima: dopo di che scese le scale brontolando, seguito dalla conversa, che gli aperse la porta di servizio e gliela richiuse tosto sulla gobba.

Egli era già in istrada, allorquando, vedendosi colle braccia penzoloni e le mani inoperose, si sovvenne del suo pentolino, che nella fretta aveva dimenticato lassù.

Tornò indietro, col proposito deliberato di bussare e andarsi a pigliare il fatto suo; ma quando fu per abbrancare la corda del campanello, un’altra cosa gli sovvenne, cioè il voto che avea fatto pur dianzi di rompersi il nodo del collo, se riponeva piede nel monastero. Ora mastro Pasquale era superstizioso, e portava al suo collo quel ragionevole amore che ci hanno, si può dire, tutti i figli d’Adamo.

— Se me lo rompessi davvero? — pensò il legnaiuolo. — No, no, Pasquale; la donna che te l’ha fatto, l’è ita in gloria, e non potrebbe più fabbricartene uno nuovo. Aggiungi, che da questo ginepraio ne sei uscito a buon patto, e la Provvidenza non s’ha a tentarla due volte. Ma adagio un tantino; ne sono io poi uscito tanto a buon patto? Un trecento di lire le buscavo, e dove quelle andavano, non ne occorrevano altre. Ora, chi m’avesse visto e udito poc’anzi, trar calci a quella moneta, non m’avrebbe tolto pel [p. 169 modifica] banchiere Parodi? Sicuro, il cognome ce l’ho, e il banco del pari; ma un banco da menarvi la pialla; il cognome, poi, posso andarmelo a spendere! —

In questi discorsi il nostro Pasquale era sceso dall’erta di Mascherona, per andarsene poco lontano, dove ci aveva casa e bottega. Ma più s’avvicinava ai dolci penati, e più gli sbollivano le ire.

— L’ho fatta, e adesso mi bisognerà rasciugarla. Del resto, domando io, come potevo uscirne altrimenti? Mi fossi anco buttato ginocchioni e tanto mi mandavano a spasso, dopo quel negozio della lettera. Non avrei dovuto mettermi in quella briga, e ricordarmi il detto de’ miei vecchi, che cenci van sempre in aria; ma sì!... Quel Garaventa è un così allegro compagnone, che s’ha da volergli bene per forza, e fare tutto ciò ch’egli vuole. E che buon vino si beve, in sua compagnia! Altro che il vino delle monache! Peccato ch’egli baci a mala pena il bicchiere! Si direbbe che n’abbia paura, lui, un vecchio soldato d’America! Basta, quel che non imbotta Michele imbotta Pasquale, e i conti si pareggiano. L’ho a far rimanere di princisbecche, or ora, quando gli racconterò che il colpo è fatto a dovere. E quell’altro signore, quello della gazzetta, sarà certamente con lui ad aspettarmi, poichè ci ha il diavolo dell’impazienza in corpo. Giovani, giovani! Quand’ero giovine io, ne ho fatte la mia parte, per sposarmi la Tecla!... E adesso anche lei m’è diventata una vecchia brenna, piena di guidaleschi, brontolona, balorda. Chi me l’avesse detto, quando s’era promessi e s’andava a far la nottata fino alla Madonna della Guardia, per trovarci lassù prima dell’alba? Che grazia di Dio! Al primo raggio di sole ci si specchiava tutti nelle nostre facce scialbe e nei nostri occhi lividi; ma lei, la Tecla, era là, colorita e fresca come una mela carla. E ce n’erano di volti a strizzarle l’occhio, ce n’erano, di questi damerini che vanno attorno per le fiere; ma lei dura; volle Pasquale, ed ebbe Pasquale. E l’ha tuttavia, il su’ omo, ma con trent’anni di sopraccarico. Povero cavallo bolso, ha finito anche lui di trottare; le spalle poi gli si sono incurvate, come per fargli vedere la fossa. Ma vedete un po’ quelle scimunite, quelle teste imbacuccate! Perchè la fatica m’ha concio a questo modo, s’ha a darmi del gobbo? —