I rossi e i neri/Secondo volume/X
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X.
Qui si dimostra che, per far la guerra a modo, ci vogliono alleati
— E adesso mi spiegherai.... — diss’egli, fermandosi alla svolta di Scurreria.
— Certamente, ogni cosa; ma entriamo in questo andito. — E condotto Marcello nel vano di un portone, il Giuliani si fece a indettarlo sommessamente di ciò che aveva in animo di tentare.
— Sì, perdinci, stupenda pensata! Tu hai buona lingua; io, non fo per dire, ho buone braccia, e se ardisce far l’omo, lo concio come va. Bravo, Giuliani! Ma se lo dicevo io, che mi piaci più quando operi....
— Vuoi sentirti a ripetere che mi piace il tuo canto? Non lo sperare. Contini! Ma andiamo, che il merlo non ci abbia a sfuggire. —
Abbiamo fede che i lettori discreti non ci chiederanno di condurre la precisione del racconto fino al segno di spiattellar loro il numero dell’uscio dove entrarono i nostri due personaggi. Era uno dei tanti che sono nella via di Scurreria, o di Scutaria, come si diceva cinque o seicent’anni fa, essendo in quella strada le officine degli scudai.
I due Templarii salirono, coll’aiuto di mezza scatoletta di fiammiferi, sino al quarto piano, e colà fecero sosta dinanzi a un uscio di modesta apparenza.
— Ecco il campanello! — disse a mezza voce il Contini, accennando la corda di lana intrecciata che pendeva, colla sua nappa, lunghesso lo stipite.
— No; — rispose il Giuliani; — se ella non ha smesso le antiche consuetudini, questo è il picchio notturno che dovrà farci aprir l’uscio. E mandando gli atti compagni alle parole, bussò quattro volte colle nocche delle dita sopra uno dei battenti.
Lo strepito di una porta interna che si apriva e il fruscio d’una veste sul pavimento, annunziarono poco stante che quella maniera di picchio notturno non aveva punto perduto della sua efficacia. Il Giuliani si volse con aria di trionfo a guardare il Contini; ma il Contini non vide quell’atto, perchè appunto allora gittava lungi da sè per le scale un rimasuglio di fiammifero, che gli scottava le dita.
— Chi è? — dimandò una voce di donna, che non doveva esser di donna giovine, nè bella, per conseguenza. Così almeno parve al Giuliani.
— Son io, un amico; — diss’egli.
Ma se la voce di dentro non parve a lui di donna giovine, nè bella, quella di fuori non parve, a chi stava dentro, la voce di persona aspettata, nè altrimenti conosciuta, perchè una nuova dimanda venne in aiuto alla prima.
— Un amico! Ma chi?
— Io, il Giuliani!
— Non la conosco.
— Vedi la fama, com’è traditora! — bisbigliò il Giuliani nell’orecchio al compagno.
Indi proseguì ad alta voce, rivolgendosi all’uscio.
— Non importa; va dalla signora, e dille che c’è il Giuliani, il Trovatore.
— La padrona è a letto.
— Ma veglia la sua donna! — ripigliò il Giuliani con accento melodrammatico. — Va ad ogni modo, e dille che Giuliani, il Trovatore, o Alfredo, se più le torna gradito, è qui, ed ha bisogno di parlarle. —
E siccome la donna borbottava dietro l’uscio, Alfredo, o, se più vi garba, il Trovatore, soggiunse a mo’ di perorazione:
— Bada, vecchia, se non fai l’ambasciata, la regal signora ti manderà a spasso. Se la fai, contenti la padrona e ricevi da me dieci lire, in premio «del celere obbedir».
— Vado! — disse la voce, rabbonita ad un tratto.
— «All’idea di quel metallo», — canticchiò Marcello tra i denti. — Ma l’ora è già tarda, e la vecchia non aprirà.
— Oh, ci aprirà! — disse il Giuliani. — Se poi non aprisse, non m’importerebbe una saetta. L’esito del picchio ha messo in chiaro che egli non è ancora venuto, e noi potremmo aspettarlo nelle scale. Già, egli, per solito, viene verso le tre, dopo essere stato alla bisca. —
Mentre così ragionavano, tornò la fantesca ed aperse l’uscio.
— Entri; — diss’ella, tirandosi da un lato, colla lucerna in mano; — la mia padrona si veste. Ma quest’altro signore....
— Non temere, è un amico mio, e della signora. Prendi, Gabrina!
— Mi chiamo Rosa, a’ suoi comandi! — soggiunse la donna.
— Non importa; io ti chiamo Gabrina. Eccoti il battesimo! — disse il Giuliani, mettendole in mano un mezzo marengo.
— E questa è la confermazione! — aggiunse il Contini, che aveva stimato opportuno di raddoppiare la dose.
— Grazie! Pregherò il Signore per le loro Eccellenze.
— Brava! — esclamò il Giuliani. — E procura di ottenere che non ci mandi in un luogo dove ti s’abbia a trovare.
— Ella ha ragione; son vecchia, e le vecchie non le vuole nemmanco il diavolo.
— Per risparmio di legna, perchè no? — le disse di rimando il Giuliani, in quella che la seguiva dall’anticamera nel salottino. — Vanne, Gabrina, e dormi i tuoi sonni tranquilli. —
La fantesca uscì sorridendo e facendo inchini a quei due gran signori. Intanto, il Giuliani, andato alla volta di un uscio che metteva alla camera della padrona, accostò il viso alla toppa, non già per guardare dal buco, ma per mandar queste parole alla diva del santuario.
— Violetta, ve ne prego, non istate a farvi troppo bella; se no caschiamo in tentazione.
— Pazzo! — rispose una voce argentina. — Ma voi non siete solo, m’è parso di udire....
— E le vostre orecchie piccine non vi hanno ingannato. È con me un amico carissimo, il quale è innamorato cotto di voi. Ha già speso cinquantamila lire per una bionda, e per un’altra getterà il rimanente.
— Bravo, e aiutate i negozi degli altri?
— Che volete? Si diventa vecchi; ma il cuore è sempre giovine, e se vi parrà di averlo a preferire....
— Oh, lo conosco, il vostro cuore! un limone strizzato! — gridò la diva, ridendo liberamente, in quella che la sua mano si accostava alla maniglia del saliscendi, per aprire il santuario.
— Prostrati, Marcello! Ecco la leggiadra Violetta che appare, «misteriosa, altera, croce e delizia al cor». —
Mentre così parlava il Giuliani, compariva appunto sul limitare la donna, tutta chiusa in un lungo accappatoio bianco, di cui, per vezzo, veniva stringendosi i capi colle braccia raccolte a mo’ di croce sul seno.
Quell’atteggiamento riusciva mirabilmente a disegnare i contorni di una persona svelta e pienotta ad un tempo, mettendo anche in mostra la bellezza delle mani, le cui dita affusolate parevano dire ai riguardanti: non sappiamo che sia fatica; non ci siamo mai punzecchiate coll’ago, nè indurite collo strofinaccio di cucina; per contro, morbide, tiepide e candide come siamo, ci è dimestica l’arte delle carezze, in cui sarà forse chi ci agguagli, non mai chi ci superi.
Costei, che i nostri lettori già conoscono moralmente un tantino, per quattro noterelle che abbiamo tirate giù sulla carta, a proposito del Bello e de’ suoi dispendiosi amori, veduta di giorno, mostrava di non esser più giovanissima, perocchè la ci aveva, tra gli occhi e le tempie, le tre rughe accusatrici, e qualche chiazza di pallore le guastava le rosee temperanze della carnagione. Ma di sera, quando l’avessero un tal po’ riscaldata le svariate cure d’un giorno allegro, o le sfavillasse negli occhi azzurri la pazza allegria del convito, ella appariva giovine e bellissima su tante altre, al cui paragone non avrebbe potuto reggere innanzi il mezzodì. Che fosse bionda, è già noto; che avesse occhi azzurri l’abbiam detto dianzi; che fosse padrona (e padrona per diritto di nascita) di due file di denti mirabili per candore, si aggiunge adesso, anche per far sapere ai lettori come e perchè ella avesse il riso facile, frequente, non pure quando era contenta, ma anche quando era adirata per qualche cosa, o infastidita dalla presenza di qualcheduno. E facciamola finita col ritratto; ella era quel che si dice volgarmente un bel tòcco di femmina, e se in cambio d’essere quella che era, fosse stata una matrona, ornata d’un marito, vivo o morto, e d’un cencio di stemma, antico o moderno, il suo nome sarebbe volato di bocca in bocca come quello di una Giunone, o d’una Venere ligustica, da adorare il giorno all’Acquasola, la sera al teatro Carlo Felice, e da additare agli ospiti forestieri, colla solita aggiunta, a mo’ di leggenda sotto il quadro, «salvo il tal di tale, che è morto dieci anni or sono, non si conosce ch’ella abbia avuto amanti; un po’ superbiosa, un po’ sciocca, ma bella come una figura del Vandyck!»
Una certa smorfia del viso diceva ai due visitatori che la signora Violetta non era molto contenta d’essere disturbata a quell’ora, sebbene uno dei due fosse il Giuliani, un antico Alfredo, cioè uno di quegli uomini, nei quali una donna riconosce qualche diritto di cittadinanza, e pei quali talvolta si scomoda, tanto per vedere come sopportino la memoria del passato.
— Che gravi cose, — domandò ella, — mi procacciano una vostra visita, a quest’ora?
— È l’ora degli innamorati! — rispose modestamente il Giuliani.
— Ma voi non siete più tale.
— Ah, crudele, me lo rammentate?
— Si può ben rammentarlo a chi lo ha dimenticato da cinque anni?
— Proprio da cinque? Mi pareva di più; e questo vi prova come il tempo mi sia parso lungo. Ma permettete che vi presenti il signor Contini, uno dei più bei giovani di Genova.
— Non gli credete! — soggiunse Marcello Contini con un accento e con un piglio così dolce che «parea Gabriel che dicesse Ave».
— Credo a’ miei occhi; — rispose la Violetta, guardandolo in volto colla libertà di certe donne, a cui non sogliono andar angioli per ambasciatori. E, ciò detto, venne a sedersi sul canapè, accanto a Marcello.
— Ah, sono contento! — disse il Giuliani, sedendosi a sua volta su d’una scranna, di costa al canapè, e pigliando familiarmente tra le sue una mano della Violetta. — Se non amate più me, amerete il mio amico, colui che io amo, sto per dire, più de’ miei occhi medesimi. Non sarò io il preferito; tu Marcellus eris.... —
Marcello aveva già aperto la bocca per dire al Giuliani che volesse finirla col suo eterno latino; ma non gliene lasciò il tempo la donna.
— Non vi farò il torto di credere, — diss’ella al Giuliani; — che siate venuto per ciò....
— Vi potrei rispondere: «perchè no?» — interruppe il giornalista. — C’è un amico che si strugge d’amore, e bisogna pure aver compassione di lui, non mettere indugio a contentarlo. Ma io rinunzio a questo argomento, e vi parlo col cuore in mano. Marcello è venuto per conoscervi, accompagnando me, il quale....
— Il quale? — incalzò la donna, vedendo che il Giuliani, rimaneva sospeso.
— Il quale sono venuto, — proseguì il Giuliani, la cui esitanza altro non era che un artifizio oratorio, — per parlare col nostro Garasso.
— La bomba è scoppiata! — disse Marcello tra sè. — Ora vediamo che cosa gli risponde costei. —
Bisogna credere che le donne siano meno sensitive degli uomini, o che un’antica necessità, diventata come una seconda natura, le faccia più forti a dissimulare le commozioni dell’animo. Non un lampo degli occhi, non un moto delle labbra, accennò che la Violetta fosse tocca da quel colpo repentino.
— Garasso! — ripetè ella, spalancando i suoi occhi azzurri in atto di maraviglia. — Chi è questo Garasso?
— Ah, non lo sapete? — ripigliò il Giuliani. — Allora ve lo dirò io. Il Garasso.... è il Bello.
— Ne so come prima; — disse la Violetta, stringendosi nelle spalle.
— Cioè a dire moltissimo; — soggiunse il Giuliani. — Questo Garasso, detto il Bello, è il personaggio misterioso, il notturno amante, che furtivo ascende....
— Parla come un libretto d’opera! — disse la Violetta, ridendo, e voltandosi a Marcello, che fu pronto a saettarla d’una tenera occhiata. — Ma voi, — proseguì, volgendosi all’altro, — vedete pure che sono sola.
— Sì, ma egli verrà tra un’ora, il crudo!
— In fede mia, Giuliani, ne sapete più di me.
— Oh, qui, poi, ci avete ragione; so molte cose di lui, che non vi andranno a sangue. Or via, biondissima creatura, volete che vi parli da amico, da uomo a cui foste un giorno «croce e delizia al cor?» Questo Bello, non è un uomo per voi, elegantissima camelia variegata, degna di ornare la risvolta di un abito tagliato dal Cosci, non fatta per insudiciarvi all’occhiello di un Alfredo da trivio, o di un Armando.... da quadrivio. Siete nata per lacerar cuori, ma soltanto ad illustri vittime, come un nobile uccello di rapina. Questo Bello è un farabutto, e la sua giacca ha odore di bisca. Voi stessa lo indovinate, poichè lo nascondete come si nasconde una vergogna. E qui non è tutto. Questo Bello, che, a dirvela di passata, ha venduto la sua gioventù ad una vecchia peccatrice danarosa che si chiama la signora Momina, ha venduto da un pezzo la sua coscienza, e fa un altro mestieraccio che saprete più tardi, quando avrete fatto il proponimento di levarvelo da’ piedi e di aver fede in un vecchio amico, che vi parla per amor vostro, e non senza un suo onestissimo perchè.
— Potevate venire da solo, a dirmele, tutte queste cosacce! — gridò stizzita la donna.
Marcello si avvide che questa era per lui, e da quel destro alleato ch’egli era, afferrò l’occasione per dare un’altra piega al discorso.
— Violetta, perdonate al Giuliani! — diss’egli, stendendo le mani, in atto di chetarla e accostando il viso a mezza spanna dal suo.
La Violetta, che era donna da cogliere i moscerini al volo, rispose a Marcello con un’occhiata da tragedia, che aveva l’aria di volerlo passare fuor fuori; e si sciolse dalle sue strette col piglio di donna che è allo stremo delle sue forze e che invita a tener saldo.
Intanto il Giuliani, che vedeva riuscire il suo disegno a buon porto, proseguì:
— Violetta perdonate. Ve ne ha pregato il mio amico Marcello, che mi pare innamorato cotto di voi. Io, poverino, lo vedete, lavoro umilmente per gli altri.
— Pazzo!
— Ridete? Tanto meglio. Ciò vi aiuta a mostrare trentadue perle orientali. Ora, se io vi facessi toccar con mano che il Garasso è un furfante....
— Non lo riceverei più! Anzi, non occorre che lavoriate più oltre; — disse Violetta, volgendo un’occhiata assassina a Marcello, — dico fin d’ora alla Rosa che non gli apra l’uscio.... se gli saltasse in mente di venire quassù.
— Ah, se gli saltasse in mente? Ma bisognerebbe proprio che gli saltasse, poichè ho un gran desiderio di vederlo.
— È vero, me lo avevate già detto.... — notò la Violetta, ricordando le prime parole del Giuliani.
E in quella che così parlava, i suoi occhi si volsero a lui, in atto d’interrogarlo. Ma egli non stimò necessario rispondere a quella muta dimanda.
— E la Rosa, — proseguì egli, — farà molto bene ad aprirgli.
— Ma perchè?
— Perchè ho cose importantissime a dirgli.
— Giuliani, qui c’è qualcosa che io....
— Che?
— Un mistero.... Voi mi sembrate molto desideroso di vedere quest’uomo.
— Fate conto che io n’abbia una gran voglia.
— Ma voi andrete ad aspettarlo fuori.
— In verità, avremmo pur fatto così, se voi non ci aveste aperto. Ora siamo dentro e ci stiamo, con vostra licenza, perchè il luogo è più sicuro, e più acconcio al colloquio che debbo avere col nostro galantuomo.
— Galantuomo! Perchè dite galantuomo?
— Ah sì, scusate, dovevo dire briccone; ma ormai l’abuso del vocabolo è tale che può reputarsi un sinonimo dell’altro. Ricordate, Violetta, che ho promesso di mostrarvi chi sia il Garasso....
— Avete ragione; io già ve l’ho data vinta: ma io temo di qualche guaio.... Giuliani, io non consentirò mai... Ve ne prego, andate ad aspettarlo fuori! Pensate al risico che io dovrei correre per un vostro capriccio. Se nulla nulla alzate la voce.... se odono i casigliani. Povera me! Giuliani, ve ne supplico, andate a tendere le vostre trappole altrove.
— Udite; — notò sorridendo il Giuliani; — non è più tempo; salgono le scale.
— È vero! Vedete? per colpa vostra! Oh, ma io non farò aprire.
— Brava! per riceverlo liberamente e tranquillamente domani, il vostro Alfredo da trivio. Povero Marcello, vedi come già se ne va in fumo l’amore!
— Finitela, co’ vostri sarcasmi! — gridò la donna, in quella che rispondeva con una stretta di mano alle tenerezze del Contini.
Marcello, già i lettori lo sanno, era un bel giovine, e un gran signore, agli occhi di Violetta. Il Garasso saliva le scale, e non sapeva ancora, il disgraziato, di scendere, anzi, d’esser già sceso.
Ella di sicuro non lo amava, e neanco lo preferiva ad altri, avendolo tolto per sua àncora di salvezza in una di quelle stagioni difficili che talvolta occorrono a certe bellezze stagionate, e lo teneva saldo, perchè era utile; ma nascosto, perchè avrebbe fatto cattivo servizio alla sua riputazione. Anche queste donne hanno una riputazione; le nobili protezioni ne accrescono il pregio; gli ignobili commerci non pure lo scemano, ma lo tolgono affatto. Che il Garasso fosse un poco di buono, lo aveva indovinato alle prime; ma avrebbe arrossito di sentirselo a dire; pronta del resto a piantarlo, se altri si fosse profferto, o se nel suo concetto il danno di quella tresca avesse superato il benefizio. Ora questo era il caso di Violetta. Il Giuliani aveva scoperto il segreto. Si aggiunga che il Bello le pareva sdanaiato; si poteva, si doveva metter fuori. E tutte queste cose le erano girate per la fantasia in quella mezz’ora di dialogo; nella sua ultima resistenza ai disegni del Giuliani non c’era più altro fuorchè il timore di uno scandalo notturno.
— Io non vorrei che avesse ad accadere una qualche disgrazia! — aveva ella soggiunto.
— Non temete, non accadrà nulla.
— Me lo giurate?
— Ve lo giuro. Conosco il mio uomo; so da che piede egli zoppica.
— Ma che gli dirò io?....
— Non gli direte nulla, perchè ve ne andrete in un’altra camera.
— Udite? È sul pianerottolo....
— Padrona! — disse con voce sommessa la vecchia fantesca, che s’era affacciata sull’uscio del salottino. — Ho da aprire?
— Sì, Gabrina; — entrò a dire il Giuliani; — non senti che suonano? Non è cortesia lasciar la gente sulle scale. —
La vecchia non si muoveva, e ci volle un cenno della padrona perchè obbedisse al comando del giovinotto.
— Presto, dunque! — disse questi; — andate con Marcello; non per di qua, che credo sia la vostra camera da letto.... Dove mette quell’uscio di rimpetto?
— Nella sala da pranzo; — bisbigliò Violetta, che udiva la Rosa esser giunta all’uscio di casa e metter mano al catenaccio.
— Orbene, andate, e non vi muovete; gli dirò che siete fuori di casa.
— Ma.... mi promettete?
— Sì, sì, non perdiamo tempo.... E tu, quel che sai! — disse al Contini, mentre li spingeva ambedue verso la sala da pranzo.
Marcello gli rispose con un gesto eloquente, ed ambedue disparvero nel buio della camera attigua. Il Giuliani tirò l’uscio per modo che paresse chiuso, e andò a sedersi sul canapè dove rimase, con una gamba cavalcioni sull’altra, in atto di contemplare gli arabeschi del soffitto.
Era tempo; il passo del Bello risuonava sul pavimento dell’anticamera, mentre la vecchia Rosa, o Gabrina, se più vi aggrada, richiudeva l’uscio dietro di lui. Poco stante egli entrò nel salottino, dove aspettava di veder la Violetta, e in quella vece gli si parò davanti agli occhi il profilo del Giuliani.
Se fosse in lui maggiore la meraviglia o la molestia, non sapremmo chiarirvi per bene. L’atteggiamento suo rimase perplesso tra il punto ammirativo e l’interrogativo; segno di grave turbamento. E ce n’è d’avanzo, a dipingervi la figura ch’ei fece.
XI.
"Tra male gatte era venuto il sorco."
Qui il Giuliani badò a lavorar di fine, chè ne andava dell’onor suo; e in quella che un sorriso gli si dipingeva sulle labbra, l’anima chiamò tutte le forze a raccolta.
— Oh! siate il benvenuto, Garasso! — diss’egli, voltando a mezzo la persona sul canapè.
— Signor Giuliani, le son servo; — rispose l’altro, ma col piglio di un uomo che in cuor suo mandasse al diavolo l’importuno.
— Vi pare strano di vedermi qui, non è vero? — ripigliò il Giuliani, che non poteva lasciar passare senza nota quell’aria stupefatta e infastidita del Bello.
— Ma sì, veramente, un pochino.... e se Ella, mi vorrà dire....
— Anzi! Avrete giuocato, m’immagino, qualche volta a’ goffi....
Il Bello accennò col capo di sì, non sapendo dove il giornalista volesse andare a parare.
— Orbene, Garasso, — proseguì il Giuliani, — noi andiamo ambedue del medesimo seme; E non facciamo un buon punto, nè voi, nè io, poichè, a quanto pare, un altro aveva già in mano la donna.
— Che vuol dire Ella con ciò?
— Che la donna non c’è, e non ci resta altro che andare a monte, o aspettarla allo scarto. —
Senza fermarsi a gustare quella metafora continuata del suo interlocutore, il Bello si mosse per andare alla camera letto. Girò la maniglia, aperse l’uscio, e vide la camera vuota.
— Uomo di poca fede! — gli disse il Giuliani. — Perchè avete voi dubitato!
— E dov’è? — chiese il Bello.
— Non ve l’ha detto Gabrina? È uscita. Ma venite qua; possiamo aspettarla. In due sarà meno fatica. Consolatevi, poi, che non vi sono rivale, ed ero venuto a bella posta per voi.
— Per me?
— Sì, per voi, col quale ho da ragionare di cose gravi.