I rossi e i neri/Secondo volume/IX

IX

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IX.

Dove si chiarisce la bontà del metodo induttivo

— Se si può! — ripetè capitan Dodero. — Si può sempre, purchè se n’abbia voglia.

— Anzitutto, bevi! — soggiunse il Contini, mescendogli nel suo bicchiere.

— Le tue bellezze; grazie! — rispose l’Assereto, accostando il bicchiere alle labbra.

— E raccontaci che cos’è avvenuto di te, — entrò a dire il Lorenzini, — che non t’abbiamo più visto da due giorni.

— Lo saprete insieme colle cose gravi per le quali sono venuto stanotte.

— Ah, gli è vero: parliamone dunque, e subito.

Paulo majora canamus! — disse il Giuliani. — Eccoci ad ascoltarti. —

Ed egli, e gli altri tutti, si raccolsero nel più profondo silenzio per udire le cose gravi dell’amico Assereto. Questi non entrò subito in materia, e, fosse per meglio disporre gli animi a prestargli attenzione, o fosse per non dipartirsi da certe loro consuetudini di conversazione, si trattenne in quella vece a fare alcune dimande, in maniera d’esordio.

— Amici, — diss’egli gravemente, — siamo Templarii?

— Siamo! — risposero parecchi ad una voce.

— E da senno, s’intende, non già per modo di celia?

— Da senno.

— Deliberati, — proseguì l’Assereto, — ad operar di concerto, ogni qualvolta uno di noi abbia bisogno degli altri? Pronti a soccorrere i deboli contro i prepotenti, a sventare i maneggi degli imbroglioni, a romper le trame dei tristi, quando tornino a danno di noi, o degli amici nostri?

— Perdio! e lo dimandi? — gridò il Lorenzini. — Pronti deliberati, col senno e colla mano, in ogni caso, in ogni occorrenza.

— Orbene, qui abbiamo un caso, per l’appunto: il caso di una fanciulla che è sparita da casa sua, non si sa come, ma certo per opera di furfanti matricolati, e assai potenti per giunta, poichè i signori di palazzo Ducale non vogliono darsene briga, certo per tema di scottarsi le dita. [p. 78 modifica]

— Questo è pan pe’ tuoi denti! — disse capitan Dodero, volgendosi al Giuliani. — Due paroline sul giornale, e poi si provino a star quatti!...

— No! — rispose il giornalista. — L’accusa sul giornale ha da lasciarsi pei casi disperati. Vediamo in cambio se non si potesse far meglio. —

Il consiglio del Giuliani dovette parer buono, perchè i colleghi di lui si fecero a chiedere all’Assereto che volesse raccontar loro per filo e per segno ogni cosa, e stettero ad udirlo con molta attenzione.

L’ottimo Assereto parlò forse mezz’ora, senza essere interrotto, narrando partitamente e minutamente tutto quel che sapeva; come il suo e loro amico Salvani avesse avuto mano nei rimescolamenti politici de’ giorni innanzi; come avesse in casa sua una sorella adottiva; come fosse stato custodito fino a quel tempo in una cassettina d’ebano il segreto dei natali di lei; come un’apocrifa perquisizione rapisse la cassettina appunto in quell’ora che il Salvani metteva a repentaglio la vita e la libertà; come egli, fallito il colpo, si mettesse in salvo, e come la fanciulla, in quella notte medesima, abbandonasse la casa, tratta fuori da una dama sconosciuta che era andata a cercarla, in compagnia d’un vecchio, congiunto, amico, o servitore che fosse.

Queste cose i nostri lettori le sanno, e non occorre ripeterle, seguendo il filo del racconto di Giorgio Assereto ai Templari. Egli narrò inoltre del servo Michele; e questo, che i lettori ignorano tuttavia, faremo di spiegar loro in brevi parole.

Il povero servitore, sapendo anch’egli della congiura e della parte che ci aveva il padrone, ma non volendo far contro a’ suoi comandi con lasciar sola in casa la giovinetta, segnatamente dopo quel guaio della perquisizione, per un po’ aveva roso il freno, misurando un centinaio di volte, con passo irrequieto, lo spazio che correva dalla cucina all’anticamera, e borbottando tra’ denti qualche verso delle sue canzoni spagnuole. In tal guisa passarono due ore, che gli parvero due secoli; finalmente, non udendo mai nulla, nè una schioppettata, nè un grido, commosso dalla ansietà della padroncina, ed aggiungendovi la sua, che non era poca nè lieve, pensò di andar fuori a pigliar lingua egli stesso, e uscire una volta da tanta inquietudine. E così fece, consentendolo la signorina Maria, dopo aver pregato una vicina che volesse andare a farle compagnia, per quella mezz’ora ch’egli sarebbe rimasto fuori.

Da casa alla piazza Carlo Felice non erano stati che due [p. 79 modifica] salti. Ma giunto in capo al vicolo della Casana, Michele aveva veduto una compagnia di soldati; e rifatta la sua strada, era andato per le scorciatoie fino alla Nunziata, Anche laggiù, soldati, carabinieri e sergenti di polizia; di popolo, niente. Michele ebbe insomma a confermarsi sempre più nella sua prima opinione, che il colpo fosse andato fallito. Ma Lorenzo, dov’era? Il nostro veterano volle averne l’intero; perciò mosse alla volta della Darsena. Ma non era anche giunto nei pressi di Santa Sabina, che s’imbattè in un popolano suo conoscente, appunto di quelli che dovevano menar le mani da quelle parti là, il quale gli diede in poche parole ragguaglio d’ogni cosa; tutto andato a monte; essi fuggiti in tempo e sparpagliatisi per la città; il loro comandante uscito prima di loro per andare al quartier generale; altro più non sapere di lui.

— Per Sant’Antonio! — esclamò Michele, che giurava volentieri nel nome di quel santo, dopo il combattimento che ne portava il nome laggiù in America; — il padrone è in salvo. —

E fattosi alquanto più tranquillo, se ne tornava a casa, pigliando la strada più larga. Passò senza intoppo per via Nuovissima, e giunto al quadrivio di San Francesco, stette perplesso un istante, se dovesse proseguire per via Nuova, o discendere dalle Vigne. Quest’ultimo consiglio la vinse; ma quel momento d’incertezza gli era tornato a danno, perchè due sergenti di polizia, sbucati di là presso, si fecero a domandargli con mal garbo dove andasse a quell’ora.

— Non lo so; — rispose asciutto Michele, a cui la vista di que’ due figuri aveva rimescolato nelle vene il suo sangue repubblicano.

— Non lo sapete? Venite con noi! —

Sulle prime, Michele aveva pensato a resistere; anzi, un moto delle braccia che poteva rassomigliare assai bene ad un pugno, aveva cominciato a far testimonianza del suo proposito. Ma in quel mezzo aveva scorto due carabinieri, i quali salivano l’erta, rasentando il palazzo Brignole, e, posto il caso si fosse liberato dai due sergenti, gli avrebbero impedito ogni scampo. Però, trattenendo il pugno a mezza rada, s’era contentato a protestare contro i modi delle guardie, e aveva finito col dire: orbene, poichè vi piace tanto la mia compagnia, vengo con voi.

Ed ecco per che modo il nostro Michele, in vece di andare a casa, era andato a Sant’Andrea, del quale non era punto divoto. [p. 80 modifica]

La mattina seguente, il prigioniero era stato interrogato dal giudice. Avendo imparato a sue spese, nella notte, a tener la lingua a segno, rispose modestamente esser egli Michele Garaventa, servitore del signor Salvani, che se ne andava tranquillamente a casa, dopo averne bevuto un bicchiere, non intendendo nulla di tutto quel subbuglio di uomini d’arme.

Il nome del Salvani non parve facesse alcuna impressione sul giudice. Le autorità di palazzo Ducale, colte alla sprovveduta in quei giorni, con tanta roba sulle braccia, molta se ne lasciavano cadere a terra, senza pensare neanco a raccattarla. D’altra parte il nome del Salvani, conosciuto per quel che valeva al comando militare, ma salvato dal più grave pericolo mercè l’amichevole sollecitudine del capitano Nelli di Rovereto, non era ancora, quella mattina, sulla lista del potere civile, e non poteva, per conseguenza, esser noto al potere giudiziario, il quale non aveva tra mani più di una trentina di popolani, arrestati la più parte a caso, e tutti intesi a dichiarare che non sapevano nulla.

Tornando a Michele, egli non era uomo da destar sospetto nell’anima timorata del giudice istruttore, il quale s’impuntò solamente, e più per consuetudine d’ufficio che non per altra ragione, a chiedergli il perchè avesse risposto «non lo so» alla domanda delle guardie.

— Mi hanno colto all’impensata; — rispose Michele senza turbarsi; — avevo anche un po’ bevuto, come ho già detto a Vostra Eccellenza.... Ella sa bene.... il vino impedisce lo sviluppo delle sillabe.... E poi, — proseguì egli, vedendo le labbra del giudice incresparsi, per trattenere il sorriso, — lo sapeva io, dove andassi? Non potevo mica sapere che mi avrebbero portato in catorbia! —

Qui il magistrato aveva riso a dirittura, e, la sera di quel giorno medesimo, il nostro Michele era posto in libertà. Corso a casa, aveva trovato faccia di legno, come il Montalto, il Pietrasanta e l’Assereto; però, dopo essere stato un pezzo a grattarsi la pera, aveva deliberato di andare da quest’ultimo, per chiedergli se sapesse nulla de’ suoi amati padroni.

L’Assereto gli aveva narrato a sua volta tutto quel che sapeva di casa Salvani. Non gli era molto, per verità. Ma la sparizione della fanciulla, tanto più notevole in quanto che pareva essere spontanea, messa a riscontro colla perquisizione, chiarita apocrifa, nella camera del signor Lorenzo, fece gridar Michele e strapparsi i capegli come un dannato. [p. 81 modifica]

— Sì certo! — andava egli borbottando negli intermezzi delle sue furie. — Erano venuti soltanto per la cassettina d’ebano, quei carabinieri di nuovo conio. Ah maledetta lingua!... —

E alle ripetute domande dell’Assereto che instava presso di lui per avere la spiegazione di quelle parole, il povero servitore aveva risposto un nome, quello del Bello, che era stato il suo Pilade, e poteva dirsi con più ragione il suo Giuda. Ma non sarebbe andato impunito, o non avrebbe avuto il tempo d’impiccarsi da sè, come l’apostolo del fico; perchè egli, Michele, com’era vero Iddio, l’aveva a freddare colle sue mani.

L’Assereto, che aveva durato molta fatica a cavargli i suoi sospetti di bocca, così furente com’era, ne durò un’altra grandissima a chetarlo. Finalmente (così narrava agli amici) gli aveva ingiunto, per l’amore dei suoi padroni, di non muoversi di casa, fino al suo ritorno, aspettando che egli avesse trovato il modo di porsi sulle tracce della signorina Maria. Questo era l’essenziale; quanto alla vendetta, sarebbe venuta poi; che intanto la era, giusta il proverbio de’ Côrsi, una vivanda da mangiarsi fredda.

Il racconto dell’Assereto fu ascoltato dagli amici Templarii con una attenzione che mai la maggiore. E invero, quel tenebroso sviluppo di casi, quella filatessa di malanni che s’era andata svolgendo così assiduamente nel breve giro di pochi mesi, e seguendo la legge del motus in fine velocior su quella giovine coppia fraterna, appariva tale da far pensare non poco, e da far credere che una possanza occulta avesse vigilato l’intrigo, condotto lo svolgimento del dramma.

Chi volle andare al fondo di quella evidente macchinazione fu il giornalista Giuliani, avvezzo per lunga e non lieta consuetudine del suo ufficio, a scrutare i cuori e le reni, per ogni atto degli uomini a metter sempre il naso nelle quinte, sul teatro della vita. Se Adamo fosse stato giornalista, scommettiamo che non avrebbe mangiato così alla leggiera il pomo della scienza, vogliam dire senza levargli la buccia, e senza investigarne la polpa, giù giù, fino alle cellette del torsolo. Epperò il Giuliani, mentre gli amici rimanevano come trasognati, fu sollecito a cogliere il primo appiglio, per tentare il suo lavoro a ritroso.

— Il Bello, hai detto? Chi è costui? Sarebbe per avventura un certo Garasso? [p. 82 modifica]

— Sì, il servitore del Salvani me lo ha indicato anche con questo nome. Lo conosci tu?

— Lo conosco. Molta gente conosco io, e di diversa mena, come ha scritto Dante, pigliando il vocabolo da noi Genovesi. Amici, — proseguì il Giuliani, voltandosi con piglio solenne ai Templarii, — qui certamente occorre di far qualche cosa; l’Assereto non ci avrà, spero, raccontata la sua storia per nulla.

— Sicuro; ma che fare? — dissero gli altri.

— Non lo so ancora, ma fare bisogna. Andiamo innanzi; troveremo, strada facendo. Conoscete il metodo induttivo?

— Filosofia! — esclamò il Lorenzini.

— Sia pure; l’ha trovato la filosofia, ma è buono dappertutto, come il prezzemolo. Chi lo ha tolto dal limbo, dove lo avevano cacciato i dogmatici, non fu propriamente un filosofo, sibbene un gran pittore, il quale s’intendeva di moltissime cose, Leonardo da Vinci. Un altro, astronomo e filosofo, Galileo, gli diede forma scientifica; un altro ancora, che fu un po’ di tutto, anche un tristo, Bacone da Verulamio, ne foggiò una fiaccola, e la portò a rischiarare tutte le ottenebrate sorgenti dello scibile; noi, Templarii, secondo il nostro bisogno, facciamone un’arma di combattimento.

— Parli come il Boccadoro; vediamo il tuo metodo alla prova.

— Eccolo. Mettiamo le fondamenta. Perchè questa guerra al Salvani? Che nemici ha egli, giovine, modesto, quasi oscuro, come è? Lo sai tu, Assereto?

— Credo non ne abbia alcuno, salvo il Collini, che lo tirò dapprima in quel suo garbuglio che sapete, e poi, quando egli se ne cavò valorosamente colle sue mani, gliene volle un mal di morte.

— Il Collini! Non mi basta; — sentenziò il Giuliani. — Costui è un ambizioso; ma non è, non può essere altri che uno stromento in mano di più ragguardevoli bricconi.

— D’altri non so, e non credo; — proseguì l’Assereto. — Il mio amico Lorenzo se ne è vissuto sempre ne’ suoi panni, lontano da ogni briga....

— No, no, il Salvani non c’entra, o c’entra soltanto di sbieco. Qui bisogna tener d’occhio il segreto domestico, la nascita della sua sorella adottiva. Non vedete come tutto è riuscito ad un fine? La perquisizione architettata da questo ignoto avversario, non mira ad altro che ad agguantare la cassettina d’ebano. Dopo la perquisizione, viene il tiro alla ragazza. A proposito, come nasce ella? [p. 83 modifica]

— Il segreto era appunto nella cassettina, e Lorenzo ne aveva accennato nella sua lettera al marchese di Montalto.

— Perchè al marchese di Montalto?

— Perchè la fanciulla verrebbe ad essergli congiunta di sangue, come figlia ad un zio paterno del signor Aloise, che è morto in esilio, or fanno dodici anni.

— E la madre?

— Non lo so; Lorenzo ne ha letto il nome in un carteggio che era chiuso nella cassettina, ma non ne ha detto nulla a me, nè al signor Aloise.

— Bisognerà vederlo, e saper questo nome.

— Sicuro, e questo è anche il disegno del marchese di Montalto, le cui ricerche si uniranno alle nostre.

Viribus unitis! — disse il Giuliani; — va benissimo. Intanto sappiamo che qui sotto c’è un vecchio peccato aristocratico, di cui forse una madre vuol sottrarre le prove, od altri giovarsi per suoi fini particolari. Questa seconda congettura mi pare anzi la più ragionevole. C’è troppi congegni in questa trappola che hanno tesa, troppo sforzo di molle!

— Hai ragione; — soggiunse il Savioli, — ma chi le ha foggiate, queste molle? e questa trappola, chi l’avrà tesa?

— Oh, pezzi grossi, di certo! Questa gente che invigila una casa e giunge a risapere d’un cofanetto così gelosamente custodito; questa gente che sa di lunga mano i negozi del partito, in cui s’è gittato il Salvani, e conosce così bene il giorno e l’ora di un tentativo politico da cavarne profitto per sè, mandando lo scatto de’ suoi congegni di conserva collo scoppio della rivolta; questa gente che ci ha i carabinieri apocrifi a’ suoi comandi, e mentre vi maneggia i bari da carte, i ladri notturni, così facilmente com’io questo bicchiere vuoto, fa a fidanza con tutte le autorità costituite; questa gente che ha modo di farvi uscire spontaneamente una virtuosa e severa fanciulla dalla casa che ama; questa gente, dico io, è schiuma di neri, o ch’io ho perduto l’ultima oncia di cervello. E chi sarà poi la dama che ha condotto via la fanciulla?

— Sua madre; — entrò a dire l’avvocato Emanuel.

— Potrebbe darsi, quantunque non lo creda; ad ogni modo, una dama di misericordia. La pietà è un’ottima bandiera per coprire ogni razza di merce.

— E i falsi carabinieri?

— Furfanti di tre cotte; gente avvezza al furto con rottura, vecchie pratiche della eccellentissima Corte, pensionati [p. 84 modifica] di Sant’Andrea; cotesto s’intende a bella prima. A me importa piuttosto indagare chi li ha guidati; e questi, già lo sapete dai sospetti del servitore, è quella buona lana del Garasso. E chi conferisce a costui l’ardimento di mettersi a questa impresa difficile? I pezzi grossi, sempre i pezzi grossi. Notate infatti: all’udire di quel doppio tiro, che farebbe rizzar i capegli in testa ad ogni fedel cristiano, la polizia non si commuove, manda tre gentiluomini da Erode a Pilato...

— Ottimamente! — gridò il Savioli, che non aveva ancor detto la sua. — Ma tutto ciò non ci chiarisce dove sarà la ragazza.

— Bravo! e dovrò dirtelo io? Ma dopo tutto, perchè no? In una casa privata, no certo, che sarebbe poco prudente consiglio. E questo mi fa pensare che la madre non c’entra, o soltanto (scusate la ripetizione) di sbieco. La madre, che ha cercato di occultare per oltre diciott’anni il suo peccato, non sarà diventata così audace ad un tratto. Io mi attengo sempre alla dama di misericordia; e la dama di misericordia mi chiama alla mente il monastero. La fanciulla è chiusa in un monastero; metterei la mano sul fuoco. Ho detto.

— E ben detto, Giuliani! — soggiunse capitan Dodero. — Al primo avvocato fiscale che tira le cuoia, ti proporremo candidato a quel ragguardevole uffizio. Ma ora, che si fa?

— Anche questo v’ho a dire? Orbene, mi provo. Due intenti abbiamo; riavere le carte, e per questo occorre sapere chi le ha; riavere la fanciulla, e per questo occorre sapere dov’è.

— Torniamo da capo! — disse il Contini. — Saper questo! sapere quest’altro! Francava la spesa di ragionar tanto!

— Hai finito? — chiese il Giuliani.

— Io sì; e tu hai ancora da cominciare.

— Probabilmente, e tu mi darai una mano, venendo con me alla scoperta di questo segreto.

— Adesso?

— Subito subito; genovese aguzzo, piglialo caldo.

— Possiamo venire anche noi, se c’è da scoprire qualcosa, — entrò a dire l’Assereto.

— No; è un negozio delicato; due bastano, uno di più guasterebbe.

— Ma dove andate? — chiese Mauro Dodero.

— Nell’antro del lupo rapace. Hai fede in me, Contini? — proseguì il Giuliani, volgendosi al compagno che aveva scelto. — Si fa un’impresa da vecchi Templarii. [p. 85 modifica]

— Mi piaci più quando operi, che quando ragioni; — rispose romanamente il Contini.

— Ingrato! Io t’amo anche quando canti; chi è il migliore, di noi due? Ma lasciamo le chiacchiere, e mettiamo alla vela.

— Si potrebbe almeno sapere che cosa hai immaginato? — chiese quell’ostinato di capitan Dodero.

— Ah, gli è il grande arcano; lo saprete tra due ore, se non vi dorrà di aspettarci.

— Aspetteremo sicuramente! — gridò l’Assereto. — Ma dove?

— Sedetevi a consiglio sulle panche delle cavolaie, qui sulla piazza di San Domenico; due ore, e siamo da voi. —

In questi discorsi s’erano alzati da tavola e scendevano, per la scaletta, nella sala a pianterreno. Colaggiù non c’erano più avventori, e il provvido tavoleggiante aveva già spento tre becchi della lucerna a gasse, lasciando a mala pena uno spiraglio nel quarto, per nutrire una scarsa fiammella, alla cui luce azzurrognola si poteva scorgere l’ostessa, che sonnecchiava dietro il suo banco in mezzo alle sue mostre di vivande, come un timoniere alla barra, in una notte di calma.

All’udir scendere quella lieta brigata che la faceva pisolare ogni notte a quel modo, la povera ostessa aperse gli occhi e mise un sospiro.

— Sospira per me? — chiese il Contini, accostandosi al banco.

— Sì, per l’appunto; — rispose l’ostessa, — e penso che non vorrei esser sua moglie per tutto l’oro del mondo.

— E perchè, di grazia?

— Perchè? Ma le par ora, questa, di andare a casa?

— Brava! appunto perchè non ci ho persona ad attendermi sulle celibi piume. Se sapesse com’è triste a vedersi, il letto d’uno scapolo! Vuol forse vederne uno?

— Vada là, vada là, buona lana!

— Non vuole? Ha torto. La cosa meriterebbe d’esser veduta. —

E ridendo a crepapelle, il più matto dei Templarii seguitò l’amico Giuliani, non senza aver stretto la mano agli altri colleghi e ricevuti i loro augurii per la magna impresa fantasticata dal giornalista.

Rimasti in due, tirarono diritto pel vicolo della Casana, e di là fino a Campetto. S’intende che il Giuliani guidava, e il Contini teneva dietro, non sapendo ancor nulla dei disegni dell’amico.