I rossi e i neri/Primo volume/VIII

VIII

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VIII.

Dove si legge vita e miracoli della signora che aveva scritto la lettera.

La contessa Matilde Cisneri, che ora è in Francia, abitava nel tempo di questa narrazione una palazzina di là dall’Acquasola. Oggi la cerchereste invano, questa palazzina, perchè ha da essere caduta nel taglio di una tra le nuove strade aperte verso la montagna, se pure non è rimasta sopraffatta tra due file di casamenti nuovi, che bene non ci ricorda.

Era una donna celebre, la contessa Matilde; una delle dieci o dodici apostolesse della moda, le quali si contendono, o si spartiscono il dominio dei cuori; regine elette per suffragio universale, ma che ripetono tuttavia il loro diritto divino dalla bellezza e dal censo; le quali, se vanno a spasso, ci hanno il corteggio di parecchi cavalieri, e in teatro vedono aprire e chiudere di continuo l’uscio dei loro palchetti, per la ressa dei visitatori; talune buone e talaltre cattive secondo la loro natura e quella di chi le attornia; donne che tutti saettano dei loro sguardi e assediano dei loro sospiri; delle quali ognuno vi racconta la vita, o si argomenta di raccontarvela, perchè essendo esse più in mostra di tante altre, ogni loro parola, ogni gesto, sono interpetrati per diritto e per rovescio, epperò ad un terzo di vero si appiccicano molto agevolmente due terzi di falso.

La contessa di cui parliamo, nata col titolo, avrebbe dovuto perderlo andando sposa ad un ricco intraprenditore di opere pubbliche; ma questi era morto, lasciando lei erede usufruttuaria. Non aveva carrozza; ma a Genova la mancanza di una carrozza non è poi molto grave. Per contro aveva un palchetto in prima fila al teatro Carlo Felice, e ci andava con una sua vecchia amica, la quale, non sapendo staccarsi dal mondo e dalle sue vanità, si appuntellava alla rinomata bellezza di una giovine, per non uscirne del tutto, avendo poi l’aria di tenere la vedovella in quasi materna custodia. Da qualche tempo la contessa era infastidita dei suoi adoratori consueti. A Genova, come in ogni altra città, v’è uno stuolo vagabondo di questi personaggi, [p. 58 modifica]i quali fanno in una sola sera, e nel tempo di una sola rappresentazione di teatro, più giri che uno sciame di pecchie. Altri direbbe calabroni, ma noi ci atteniamo alla immagine più graziosa. Ora alla contessa Matilde questo farfalleggiare non andava molto a genio, nè più le garbava quello scambiare di futilissimi discorsi, o il dover nutrire la conversazione di ciò che faceva l’Erminia, l’Amalia, la Fanny, od altra delle dive, semidive e ninfe della giornata.

D’altra parte (e forse qui era da trovarsi la vera ragione) da qualche tempo ella non risplendeva più nel «ligustico cielo» come una stella di prima grandezza. Al suo entrare in teatro, ella non vedeva più, come prima, voltarsi le teste di tutti gli Adoni, con quel piglio di curiosa attenzione che sembra dimandarne altrettanta. Gli astronomi del teatro guardavano qualche regina di più fresca consecrazione, o qualche sposina, o qualche bella fuggitiva d’altra città, regina forestiera, venuta a rivaleggiare di pompa e di leggiadria con le padrone del campo.

Ella insomma non era più nel novero delle prime, sebbene il suo specchio non avesse punto smesso dal dirle, e con ragione, che la bellezza le fioriva sempre le guance. Vanità delle cose umane! Neppur la bellezza bastava a combattere gli effetti della consuetudine; e quel che era peggio, molte delle nuove venute erano più belle di lei, nè i giovinetti, nè i vecchi che la pretendevano a giovinotti, quando si recavano a farle la visita d’uso, rifinivano mai dal tenerle discorso di questa o di quella delle sue fortunate rivali.

Il tedio della contessa Matilde era grande, anzi sterminato a dirittura. Già due volte aveva parlato, così tra un nastro e un ventaglio, di voler morire, perchè a questo mondo non si era compresi mai, e faceva delle elegie alla luna, ma avendo tuttavia il buon gusto di non metterle in versi. Anche qualche gita al camposanto non sarebbe stata male; ma quella mancanza d’alberi per incorniciare le tombe l’aveva subito distolta dal malinconico pellegrinaggio, e dai pensieri che vi fanno capo. Anche laggiù regnava la menzogna, e, peggio assai che detta a fior di labbro, scolpita nel marmo.

Gli amici di casa, vogliamo dire i più intimi, non la riconoscevano più. Nessuna cosa poteva rallegrarle lo spirito. Era ella in uno di que’ tali momenti in cui si piglia un amante, se si riesce a trovarlo autentico; uno di quelli amanti teneri e feroci ad un tempo, i quali si fanno della donna amata una divinità ed una vittima, e mettono un pizzico di pepe nelle sciocca monotonia della vita. [p. 59 modifica]

Aloise di Montalto, con la sua svelta persona, ed il viso improntato di nobile alterezza, che ricordava il verso di Dante Biondo era e bello e di gentile aspetto, sarebbe stato l’uomo adatto a temperarle quella mestizia profonda, a farle parere ancor bella la vita, e soprattutto a far crepare di rabbia tutte le rivali sullodate, e di gelosia mista a rimorso tutti i pianeti che s’erano lasciati attrarre nell’orbita di quelle nuove stelle, o comete che fossero.

Ma ella aveva fatto i conti senza Aloise. Il giovine Montalto amava, e non era lei la donna che lo faceva sospirare. Ora, con tutto il suo accorgimento femmineo, la contessa non aveva indovinato ciò; aveva creduto che Aloise fosse un uomo come tutti gli altri, ai quali basta una languida occhiata per farli girare, come le banderuole dei tetti, al più lieve soffio di vento. Per sua maggiore disdetta, la prima parola che ella aveva detto ad Aloise, nella veglia delle maschere al teatro Carlo Felice, lo aveva punto sul vivo.

— Che cosa vai tu a fare ogni giorno sul belvedere dei Giardinetti, accanto alla villa Di Negro? — gli aveva sussurrato ella all’orecchio, ripetendo una frase udita da altri.

Aloise andava appunto colassù ogni giorno e ci passava le ore intiere; ma c’era un grosso perchè, una viva debolezza del suo cuore. Egli infatti non andava a nessun ritrovo di amore, su quel belvedere dei Giardini pubblici, e non istava a guardar altro che un comignolo di tetto.

Già da parecchi mesi egli faceva quel pellegrinaggio ogni giorno; ma nessuno sapeva che cosa guardasse, perchè egli non se n’era aperto mai con alcuno, nemmeno col Pietrasanta che gli era amicissimo. Laonde, non è a dire come gli recasse molestia sentirsi toccare quel tasto da una maschera che egli aveva facilmente conosciuta per la contessa Matilde.

Tutti sanno che al tempo di questa narrazione, le veglie del teatro Carlo Felice si tenevano soltanto nelle sale del Ridotto. Le signore eleganti salivano in pompa magna a darvi una scorsa, o mettevano una mascheretta al viso, e un domino di seta sulla loro abbigliatura da teatro, onde era facile il riconoscerle, come se fossero andate a fronte scoperta.

Aloise dunque aveva arrossito a quella dimanda pungente della contessa Matilde, e tremando in cuor suo che ella avesse potuto indovinare un segreto non confidato da lui ad anima viva, rispose asciutto alla contessa Cisneri:

— Che cosa t’importa? Vo a studiare filosofia.

— Tu, filosofia! E su quale problema di grazia? [p. 60 modifica]

— Sulla curiosità di voi altre donne.

Allora venne la risposta della contessa: «non sei gentile» e tutto il rimanente, di cui ebbe a scontar la pena il Collini, che accompagnava la signora mascherata.

Il dialogo avvenuto fra i due era per la contessa il pizzico di pepe che abbiamo accennato più sopra. Aloise era uno scortese superbo, di cui avrebbe saputo vendicarsi in ogni occasione; il Collini, fino a quel giorno non avvertito da lei, s’era ingrandito di schianto fino alla misura di un eroe.

Ma quella era stata una meteora. Quarantott’ore dopo, ella sapeva della viltà di Ernesto Collini, e di Aloise gravemente ferito per mano di un cavaliere incognito (stile da romanzo storico) che il capitano Nelli di Rovereto andava dipingendo alle signore, gentile come una fanciulla e prode come Ettore Fieramosca.

La contessa Matilde non istette molto a pensare, e fattasi raccontare ogni cosa a puntino dagli amici del Nelli e del Pietrasanta, formò nella mente il più audace disegno che donna concepisse mai per vincere il tedio della vita. Il giorno dopo, una letterina profumata era già alla posta, coll’invito a Lorenzo Salvani di recarsi da lei, per cose d’urgenza.

Lorenzo era dunque aspettato nella mattina del giovedì, e c’era avviso ai servi che, entrato il signor Salvani, la contessa non era in casa per altri.

Adesso il cortese lettore si prenda l’incomodo di venire con noi nella palazzina Cisneri, e senza farci annunziare dal servitore in livrea di panno nero coi bottoni dorati e la lettera C sormontata da una corona comitale, passeremo per un androne lastricato a quadretti bianchi e neri, saliremo una breve scala di marmo, ed entreremo senza chiedere licenza in una spaziosa anticamera, tutta adorna di quadri a olio, paesi e marine di dugent’anni fa, che si potevano guardare ed anco trovar belli in una pinacoteca, ma che in quella sala non erano guardati da nessuno, sopraffatti per giunta da quattro tele più grandi, che rappresentavano gli antenati della contessa.

Uno di questi era un omaccione, grasso, rubicondo, con gli occhi sgusciati a guisa delle tartarughe; ed era il bisavolo, come ragionevolmente appariva dall’abito di velluto, tagliato alla foggia del settecento e dalla parrucca incipriata con la coda a sacchetto. L’altro era il trisavolo, magnifica arigusta avviluppata in un robone di velluto cremisino che [p. 61 modifica]aveva dovuto sostenere importanti uffici, non sappiamo dove, ma in qualche luogo di certo.

Mancava l’avolo, perchè (diceva la contessa) egli non aveva mai voluto farsi fare il ritratto. Il conte Cesare era un benedetto uomo, pieno di stravaganze, che non c’era verso di cavargliele dal capo. Aveva il temperamento sanguigno, il conte Cesare! Del resto, gran soldato; e Napoleone I, che s’intendeva d’uomini, avrebbe dato un occhio del capo per averlo dalla sua; ma lui duro. Il conte Cesare, che non voleva farsi fare il ritratto, era morto di un colpo apopletico. Bella morte, per un gentiluomo!

Come ognuno vede, se mancava il ritratto a olio, suppliva il bozzetto a voce. Il Cigàla, quel faceto giovinotto che molti dei nostri lettori si ricorderanno di aver conosciuto, e che è morto da valoroso nella giornata di Montebello, sospettava fortemente della autenticità di quei ritratti, e sosteneva di averli veduti nel fondo di una bottega da rigattiere. In quanto al conte Cesare, lo diceva un ritratto di fantasia, per meglio colorire i due accennati.

Gli altri due erano ritratti di donne. Una era la moglie del conte Cesare, la quale non partecipava punto alla ripugnanza del marito per la pittura. L’altra era una gentildonna della famiglia, andata a nozze, non si sapeva più bene se con un Pallavicino di Parma o con un Visconti di Milano.

Il prete di casa le sapeva a menadito, tutte quelle storie; ma il poveraccio era morto! La contessa Matilde ne aveva sentito parlare, quand’era piccina, ma non le aveva tenute a mente. Della qual cosa non è a dire quanto le dolesse; perchè le ricordanze di famiglia sono una seconda religione, e bisogna tenersele care.

Il padre della contessa, l’unico ritratto di cui il faceto Cigàla non avesse mai dubitato, era in miniatura, e si poteva vederlo nel salotto verde, sopra la spalliera del gran canapè, sul quale la contessa era usa sedersi, quando non le tornasse meglio sdraiarsi su d’un piccolo sofà, accanto alla finestra, per leggiucchiare i giornali.

Faremo un breve ritratto dell’ultima discendente di tanti egregi personaggi, dicendovi che era bionda, bianca nel viso come tutte le bionde, ed amava portare i capelli tirati indietro, ma con una fila ordinata di ricciolini minuti sulla fronte, come una dama francese del Seicento. Ella poi, bionda com’era, reputava ottima la tappezzeria verde, le cortine verdi, che facevano risaltare assai bene la sua bianca figura.

Siamo dunque entrati nel salotto verde, e non ci ha [p. 62 modifica]neppur visti dal vano di un uscio socchiuso, o dal buco di una toppa, la vispa Cecchina, una cameriera che sa tutto, che vede tutto, vero ministro degli affari interni in gonnella di lana, a scacchi rossi e neri, e grembiale di seta.

Invisibili come un eroe di poema epico, a cui un Nume benigno ha concesso l’accappatoio di una nuvola, possiamo guardare a nostro bell’agio la bionda contessa, che è appunto sdraiata sul piccolo sofà daccanto alla finestra, con un tavolincino di lacca giapponese posto lì presso, che la mano della signora possa giungervi senza incomodo, a scegliere tra una rivista francese, due giornali di mode, uno di politica, e un volume del Leopardi.

Il qual volume, sia detto ad onor del vero, stava aperto sulla lastra verniciata, parendo rimasto a bocca aperta per la meraviglia del trovarsi in quella compagnia.

La contessa Matilde non leggeva. Appunto pochi momenti innanzi aveva deposto il libro, aperto alla pagina di Consalvo, a cui consola la triste agonia il primo bacio di Elvira. Col capo arrovesciato sulla soffice spalliera tondeggiante del sofà, gli occhi socchiusi in atto di meditazione profonda, una mano raccolta al seno e l’altra mollemente abbandonata lungo le pieghe di una veste di color pavonazzo, stretta alla vita e stretta al collo, dov’era terminata da una gorgieretta a cannoncini insaldati, l’avreste detta una bella figura del Vandyck, spiccatasi dalla sua tela, e diventata di carne, d’ossa e di seta, per far grazia a voi, prelibati lettori.

Qual era l’argomento delle sue meditazioni? Ecco qua: la contessa Matilde pensava che era prossimo il tocco, e che, seguendo la consuetudine delle visite, l’ignoto ed affettato Lorenzo Salvani, non avrebbe tardato molto a giungere.

E infatti, il tocco era passato di poco, che un giovanotto chiuso in una specie di cappa che portava allora il nome di lord Raglan, commetteva i suoi stivalini inverniciati su per la salita della palazzina Cisneri. Giunto lassù, detto il suo nome, e gettato il raglan sulle braccia del domestico, salì nell’anticamera che il lettore conosce. Lo stesso domestico, passatogli innanzi, e alzata la portiera del salotto, annunziò alla contessa la venuta del signor Lorenzo Salvani.

— Fatelo entrare! — disse ella con una voce che noi non chiameremo argentina, a cagione dell’abuso che si è fatto ormai di simili aggettivi.

A Lorenzo il cuore «balzava in petto» davvero, e non già per far servizio alla rima come nei melodrammi, Il giovinotto era intrepido, anzi audace ai pericoli, ma pur [p. 63 modifica]sempre timido come un adolescente, al cospetto di una donna, e più d’una donna veduta per la prima volta. Ma bisognava farsi innanzi, ed egli entrò nel salotto, a fronte alta, per isforzo di volontà, impacciato nondimeno e confuso. Il verde di quel salotto gli aveva ferito lo sguardo; il viso di quella bionda creatura seduta lo aveva abbagliato.

La contessa era rimasta nella sua prima postura fino al comparire di Lorenzo sulla soglia; ma, vedutolo appena, con sapiente magistero aveva sollevata la testa e sporgeva la mano come per accennargli la via che egli aveva a tenere per giungere a lei.

Il salotto di una bella signora che non si è mai veduta, a cui non si è mai parlato, è infatti come una lunga strada, anzi come una distesa di mare, su cui c’è grande bisogno della bussola: ed anche allorquando si vede il porto, bisogna studiare il modo di giungervi, senza dar nelle secche.

— Signore, — disse la contessa al giovine, come fu giunto vicino a lei, — ho ardito chiamarvi da me come si usa con un vecchio amico. È però giusto che, come ad un vecchio amico, vi stringa la mano, mentre vi ringrazio della vostra sollecitudine. —

Che cosa rispose Lorenzo Salvani a quelle cortesie, a quella stretta di mano e a quel lungo sorriso che accompagnava gli atti e le parole? Qualche cosa egli balbettò di certo; ma nè ella l’intese, nè egli avrebbe saputo ripetere. Questo avviene pur sempre nei primi incontri, ed ognuno dei nostri lettori lo saprà per sua particolare esperienza.

Comunque sia, non è qui il caso di stare a cercare che cosa avesse detto. Egli strinse, o piuttosto si lasciò stringere la mano dalla contessa, arrossì un pochino e prese il posto che la signora gli offriva su d’una sedia a bracciuoli, accanto al sofà. Quell’atmosfera (se la donna è un corpo celeste, perchè non avrebb’ella pure la sua atmosfera?) quell’atmosfera, pregna di tutti i profumi della bellezza, lo aveva inebbriato.

Ahimè, povero uomo! Egli è sempre così che tu cominci i tuoi romanzi, senza sapere dove ti condurrà la catastrofe!

Cionondimeno, se Lorenzo Salvani avesse vissuto un po’ meno tra i libri e alquanto più nel consorzio dei vivi, egli non sarebbe rimasto sopraffatto a quel modo, e in quella atmosfera ci avrebbe trovato più quintessenza di violette, che non arcano profumo di donna gentile. Ma che farci oramai? Era quello di Lorenzo Salvani il primo segno, il barlume de’ suoi primi ardori per una donna vera. Egli [p. 64 modifica]non aveva fino a quel punto messo il suo cuore fuor che in quelli amori di sedici anni, così candidi, così vaporosi, per una donna di cui non s’è mai udita la voce; che si vede soltanto per le vie a diporto, e nemmeno tutti i giorni; della quale si vorrebbe essere casigliani, entrare in dimestichezza coi parenti, e financo, Dio ci perdoni, col ciabattino che le adorna il portone di casa; e alla quale nondimeno non si sente la fiera bramosia di stringere la persona tra le braccia, per ricevere la scossa elettrica di quel condensatore vivente.

Lorenzo non aveva ancora amato davvero. Non erano certo mancate le follie della prima giovinezza; ma le ali del pensiero non v’erano punto rimaste impaniate. Però quella entrata nel salotto della contessa Matilde era come l’apparizione di un nuovo mondo per lui; era il pianeta di Venere, nel quale egli si vedeva sbalzato, come per effetto d’incantesimo. Era egli Astolfo nella Luna, o Rinaldo nella dimora di Alcina, o Ruggero nei giardini d’Armida? Tutti questi eroi avevano perduta in ugual modo la bussola; però il lettore può scegliere.

A Lorenzo mille pensieri ed immagini di questa fatta passarono, come un baleno, nella mente, e insieme un desiderio prepotente di essere amato da quella graziosa donna dai capelli biondi e dalla lunga veste di color pavonazzo, che gli stava mollemente seduta di rincontro.

Era quella forse la donna della veglia mascherata, alla quale il marchese di Montalto aveva detto parole scortesi? Era quella la signora di cui si parlava tanto, per le sue acconciature, per le sue fogge di vestire, per la sua vita brillante? Era un angelo, o una sirena? Poteva amarlo, lo amava di già, o non l’avrebbe amato mai? Tutti questi pensieri erano e ad un tempo non erano nell’animo suo; si aggirava in una regione fantastica, e gli mancava il tempo di coglierne distintamente i contorni.

— Signor Salvani, — diss’ella, — voi dunque mi perdonate il fastidio che ho dovuto recarvi?

— Che dite mai, signora contessa? — rispose Lorenzo. — Io ringrazio anzitutto la buona ventura che mi ha fatto salire in questo paradiso. —

Per un esordio di conversazione non c’era male. La contessa fece un grazioso cenno del capo, e giovandosi dell’ultima parola di Lorenzo, proseguì:

— Un paradiso, dite benissimo, quantunque non vi siano angeli, nè santi. — [p. 65 modifica]

Lorenzo aveva già fatto il gesto di chi vuole rispondere qualche cosa; ma la contessa non gliene diede il tempo.

— Oh, non mi state a dir altro in contrario! — soggiunse ella. — Io so bene che voi, signori, non patite penuria di complimenti.

— Complimenti, signora contessa! È una brutta sentenza, e soprattutto pronunziata senza ascoltare le parti, quella che voi infliggete ad un uomo il quale non si disponeva a dir altro che la verità. A me infatti sembra che gli angioli almeno ci siano.

— E questo, — ripiccò sorridendo la contessa Matilde, — non è forse un complimento? —

Lorenzo stette un tratto silenzioso e raccolto in sè medesimo, a guisa di chi vuole si ascolti attentamente quello che sta per dire; quindi si fece a parlare in tal modo:

— Signora contessa, abbiatemi per iscusato, ve ne prego, se appunto la prima volta che ho la fortuna di parlare con voi, comincio a disputare come un accanito dialettico. Ma che cos’è infine un complimento?

— Voi saprete assai meglio di me la definizione del vocabolo, signor Salvani; ma qualunque cosa esso sia, non potrete levargli il carattere di una frase esagerata.

— E sia pure; — proseguì Lorenzo, — ma perchè si dice, questa frase esagerata? Una cagione riposta ci ha pure da essere. E che cosa sono, di grazia, le immagini e le metafore nello scrivere, se non modi svariati ed efficaci a colorire meglio un pensiero? Certamente non si potrà dir bella ad una brutta; ma si dicesse pure, non sarebbe esorbitanza di frase, sibbene una bugia addirittura, e l’uomo che la dicesse dovrebbe arrossire, temendo che fosse giustamente tolta in mala parte. Ora ditemi, signora contessa, arrossisco io forse per timore, nel dirvi, come faccio, che gli angioli ci sono, in questo vostro paradiso? —

Qui cominciò tra quelle due persone che non si erano mai vedute, l’una delle quali non sapeva ancora per qual ragione fosse chiamata al cospetto dell’altra, una di quelle conversazioni, tessute a ghirigori fantastici, nelle quali non si dice nulla, o quasi, e tuttavia si lasciano intendere tante cose.

Matilde ragionò di molto con lui; della sua solitaria dimora, fino a cui non giungeva il frastuono della città; del Leopardi, che ella leggeva con affetto indicibile, e di cui ella intendeva i concetti assai meglio che pel passato, quando l’animo suo non s’era anche educato alla scuola dei [p. 66 modifica]patimenti; del vivere ristretto e fastidioso di Genova; dei sereni piaceri della campagna, e di mille altre cose, vere o false, ma dette sempre con molta grazia e con un’aria di schietta semplicità da innamorare ognuno che fosse stato a sentirla.

Potete dunque argomentare quale prova facesse sull’animo di Lorenzo. Assorto come era in una ebbrezza profonda, non le chiese, anzi dimenticò affatto di chiederle la cagione per cui essa lo aveva chiamato in casa sua, e si lasciava andare a discorrere di mille cose, come il marinaio addormentato che sogna la sua innamorata si lascia cullare nel suo burchiello, confidato alla cura delle onde tranquille.

La contessa poi sapeva toccar quelle corde che gli andassero più a genio, e, come è virtù di molte donne, s’innalzava agevolmente al pari di lui, faceva suoi i pensieri del giovine e li metteva fuori in tal modo da far sembrare che ella non avesse mai pensato diverso.

Erano le quattro dopo il meriggio, e quella benedetta conversazione non era anche finita. I quattro tocchi della campana si fecero udire in mezzo ad una di quelle tali pause che si riscontrano nel dialogo più vivo, come una radura che lascia veder l’orizzonte, nel fitto di una boscaglia.

— Dio mio! le quattro! — esclamò la contessa. — Si dimentica il tempo in vostra compagnia, signor Salvani; e veramente mi duole di non avervi ancora parlato di quella tal faccenda per la quale vi avevo pregato di venire da me. Oggi intanto non sarebbe più tempo. Venite domani?

— Se così vi aggrada, — rispose Lorenzo sollecito.

— E se così aggrada a voi, — soggiunse la contessa.

— Oh, di questo potete esser certa, signora. Non si parte da casa vostra senza portar via qualche cosa....

— Qualche cosa?

— Eh, sicuro; il desiderio di ritornarvi.

— Se è così, tanto meglio; portatene via molto, signor Salvani; io non me ne lagnerò certamente. —

Il nostro Lorenzo se ne tornò a casa col cervello scombussolato, senza pensare, senza intendere cosa alcuna, ma leggiero, leggiero come un uomo felice. I tristi pensieri lo assalsero dopo l’arco dell’Acquasola, quando fu per discendere in città. Gli risovvenne allora della sua vita senza speranza, della povertà che lo stringeva ai lati, cose tutte che egli sentiva doppiamente acerbe, poichè egli aveva veduto la donna da cui gli sarebbe stato dolce l’essere amato.