I rossi e i neri/Primo volume/IX

IX

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IX.

Come Ercole filasse alla conocchia di Onfale,
e come tutti gli uomini possono somigliare ad Ercole

La dimane il giovine fu puntuale al ritrovo, come potete argomentar di leggieri. Nella notte il suo letto solitario era stato visitato dagli alati messaggeri di Morfeo, i quali erano tutti intenti a raffigurargli una bionda, con la veste di color pavonazzo e la gorgieretta di mussolina a cannoncini insaldati. Il più bizzarro ricambio di pensieri, il più veloce viaggio nei giardini di Amatunta era stato fatto dal dormente, in compagnia della bionda consolatrice del suo sogno. Però non è a dire con quanta sollecitudine ansiosa egli facesse, all’ora istessa del giorno innanzi, la salita della palazzina Cisneri.

Allorquando egli entrò nel salotto verde, vide la contessa Matilde seduta presso la finestra, con la matita tra le mani, che stava disegnando un fiore sopra un foglio di carta. Ella non indossava più la veste di color pavonazzo, ma un’altra di seta nera, con la vita foggiata per modo da lasciar le spalle nude ed il sommo del petto, su cui scendeva un camicino di mussolina ugualmente nera, lieve impedimento agli occhi di un profano riguardante. Intorno al collo si ravvolgeva, venendo ad incrociarsi sul petto, uno di que’ tali arnesi di pelo di martora che hanno pigliato presso le donne il nome pauroso di un serpente, forse in omaggio a quella bestia che venne a capo di infinocchiare la loro progenitrice degnissima.

La contessa poteva rimanere scollata, perchè il fuoco acceso nel camino manteneva nel salotto una tiepida temperatura. Acconciata in quel modo, aspettava la seconda visita di Lorenzo Salvani.

Appena egli comparve, la contessa alzò il capo, piegandolo leggiadramente verso la spalla in modo da saettare il giovine con uno sguardo ad occhi semichiusi, e, con la muta eloquenza del più cortese sorriso, gli porse la mano.

Lorenzo corse a stringere quella mano, e non contento Di stringerla, chinò il capo a baciarla. [p. 68 modifica]

Ella non fece alcun atto di meraviglia. È così poca cosa, ed ha una scusa così ragionevole nelle antiche consuetudini il baciare una mano, che la contessa Matilde poteva lasciarlo fare a suo modo, senza mestieri di simulare un atto di corruccio.

— Siete venuto! — diss’ella, così per cominciare il discorso.

— Potevate credere, signora contessa, — rispose Lorenzo, — che avessi tardato pure di un minuto?

— Oh no! Voi siete un cortese cavaliere, e questo si sa. Pensavo anzitutto che le vostre faccende avrebbero potuto forse trattenervi, e quasi mi doleva di avervi costretto a regalarmi un’altra delle vostre ore preziose. —

Un’ora! La contessa avrebbe potuto dir tre o quattro a dirittura, chè tante ne aveva passato accanto a lei, il giorno innanzi, il nostro Lorenzo. Ma questo era forse un modo di dire della contessa Matilde.

— Non v’è negozio che tenga, — rispose il giovine, — innanzi ad un vostro invito, e mi pare di avervi già detto con che animo si parta da casa vostra. Ma che cosa stavate voi facendo, signora?

— Oh, una cosa da nulla. Mio Dio! Temo che non m’abbiate a trovare un po’ troppo leggiera, con queste frivolezze.

— Che dite, signora? Per me non è nulla di frivolo in quello che fate, sia pure un ricamo.

— Ed è appunto un disegno per ricamo; — disse la contessa. — L’ultimo venuto da Parigi non mi garbava molto, e volevo farne uno di mio capo per metterlo sul telaio. Sapete pure, signor Salvani, che lunghe ore di tedio passiamo noi in casa, quando manchi l’argomento affettuoso delle cure domestiche. Un ricamo, od altra cosa qualsiasi, che a prima giunta pare, e considerata in se stessa è certamente assai frivola, ci offre una occupazione materiale in cui riposare la mente, per farci poi cavar più diletto da una bella lettura, o da una passeggiata all’aperto.

— Non vi scusate, signora contessa! — soggiunse Lorenzo. — Voi disegnate un fiore, e sta bene. Il fiore non è egli forse una delle più belle opere di Dio? Anzi, per dimostrarvi che siffatte occupazioni si addicono agli uomini come alle donne, con vostra licenza, voglio metterci anch’io queste mani profane.

— Fate pure, signor Salvani, e il mio fiore riuscirà certamente più bello. —

Lorenzo prese con fanciullesca sollecitudine, il posto della [p. 69 modifica]contessa Matilde, e tolta in mano la matita, si diede con artistica gravità ad abbozzare un elegante mazzolino di que’ fiori che nascono soltanto negli orti della fantasia cinese. Imperocchè l’uomo si è fitto in capo di abbellir la natura, e dove non si mette a dirigere e ad educare gli amori delle piante per mutarne le forme e temperarne a sua posta i colori, inventa nuove fogge senz’altro; queste però sulla carta, perchè la natura non è disposta a seguirlo in tutti i suoi capricciosi vaneggiamenti.

Non faccia le meraviglie il lettore se Lorenzo Salvani, il giovine severo, il soldato di Roma, s’è posto a disegnare un mazzolino di fiori pel telaio della bionda contessa. Gli antichi, nostri maestri in tante cose, non isdegnarono rappresentarci Ercole, il figlio di Giove e il domatore dell’idra di Lerna, seduto presso ad Onfale, in quella positura che finse più tardi lo Shakespeare per il suo Amleto a’ piedi di Ofelia (leggete a questo proposito il testo inglese), e intento a trarre il filo dalla conocchia di lei. Ora tutti gli uomini sono figli in cotesto del dio della Forza, che lo imitano a puntino nelle sue debolezze.

Che faceva intanto la contessa Matilde? Con una mano poggiata sulla spalliera della scranna, e la testa curva accanto a Lorenzo, ella stava seguendo degli occhi i giri della matita che egli maneggiava con facile sprezzatura. Le guance della donna erano presso alle sue, e i segni della sua ammirazione, tradotti in parole, gli accarezzavano il volto, chiamando il sangue in tutti i meati più sottili di quella superficie, di consueto così pallida.

Lorenzo disegnava, ma il suo sangue ardeva; e in quella guisa che un terreno arsiccio beve avidamente uno spruzzo d’acqua e ne fa sparire in breve ogni traccia, il suo sangue si beveva quel soffio delicato, e riardeva sempre più forte. Ma presto venne il punto che egli non potè più durarla, e alzando il capo verso la contessa, ne disse una delle sue, la più grossa che le avesse ancor detta.

— Oh perchè non posso io dar loro la vita, a questi poveri fiori, e inspirar loro nelle aperte corolle quel dolce effluvio che si spande dalla vostra persona! —

Non era questa la prima avvisaglia, ma certamente la più forte, e la contessa non potè simulare di non averla notata. Risollevò il capo con aria turbata, si volse indietro due passi e si lasciò cadere sul sofà, dove stette silenziosa col viso nascosto nelle palme.

Era graziosa, molto graziosa in quella postura, la contessa [p. 70 modifica]Matilde. Le sue mani sottili e delicate che il Bartolini, adoratore di belle mani, avrebbe modellate assai volentieri, non giungevano a coprirle tutto il viso; però la fronte e una parte delle guance lasciavano scorgere quel leggiero incarnato che si dipinge così facilmente sul volto delle donne, quando mette loro più conto.

Più turbato a gran pezza di lei, Lorenzo si alzò e si fece presso alla contessa.

— Signora, — le disse egli con voce tremante, — che cosa ho detto io mai, che abbia potuto spiacervi tanto? Io sarei il più tristo degli uomini se avessi, con animo deliberato, a dirvi cosa che potesse offendere la vostra dignità, o fallire al rispetto che meritate.

— Oh no, signor Salvani; non si tratta di tanto; — rispose la contessa Matilde, in quella che si affrettava a stendergli la mano. — Voi ricadete nella malattia dei complimenti, e ne avete fatto uno testè, il quale, non mi offende già, mi addolora. —

Lorenzo non sapeva che rispondere. Che questa donna non m’intenda? pensò egli tra sè. Che essa non si avveda di ciò che gli occhi miei le dimostrano?

La mano della contessa era ancora nelle sue, e non dava segno di volersi ritrarre. Non era dunque una donna sdegnata che gli aveva parlato a quel modo; e questa considerazione gli diede animo a rispondere, ma senza accorti rigiri, aperto come egli sentiva.

— Signora contessa, mi accusate forse di un lieve fallo, per delicato intendimento di non avermi a rimproverare una colpa più grave, e non farmene arrossire?

— No, vi dico quel che penso; perchè?

— Perchè se voi mi reputaste capace di avervi recato offesa, ve ne recherei scusa e uscirei subito dalla vostra casa. Se in quella vece, come cortesemente mi dite ora, mi accusate di far complimenti, di non dirvi schietta la verità, io vi prego di concedermi libertà di parola, per difendermi da un’accusa che so di non meritare.

— Che aria grave assumete voi, signor Salvani! Parlate pure; io so bene che non potrete dir cosa mai, la quale mi offenda.

— Orbene, signora, vi parlerò schiettamente, checchè possa costarmi. Sono un povero giovine, ma sono altresì un onest’uomo. Questo povero giovine, che vedete dinanzi a voi, è rimasto inebriato dalla vostra bellezza, dalle grazie del vostro spirito. E non istate a dirmi che esco dai confini [p. 71 modifica]del vero. In un cuore come il mio l’affetto nasce e germoglia sollecito, e voi siete fornita di così sottile accorgimento da intendere come l’esser vicino a voi abbia potuto turbarmi. Questa è la verità, o signora, e l’onest’uomo, che vedete del pari, sente il debito di dirvela tutta quanta. Se anco questa vi spiace, il povero giovine, l’onest’uomo, se ne andrà; sebbene combattuto dal più fiero desiderio di rimanere, dal più acerbo dolore di non aver meritato una migliore accoglienza, se ne andrà, ve lo giuro, se ne andrà.

— Dio mio! — esclamò la contessa, che era stata ad ascoltarlo in atteggiamento di mestizia. — È egli dunque vero che un uomo ed una donna non possano stare l’uno accanto dell’altra ed essere amici, null’altro che amici? —

Qui la contessa raccolse di bel nuovo la sua bionda testa nelle palme, e stette un tratto a pensare. Lorenzo non rispose, e ricadde sulla scranna, con le mani sulle ginocchia e il capo chino.

— E perchè mai, — proseguì la contessa, come se ragionasse con se medesima, — tutti gli uomini hanno a dire le stesse parole? —

Lorenzo allora sollevò la fronte, e dopo una breve pausa si fece a rispondere:

— Le stesse parole, forse; ma non tutti a questo modo, signora, nè con tanta verità di pensiero. Vi diranno di amarvi; ma nessuno ve lo dirà così presto come io ve l’ho detto, la seconda volta che vi vedo, pronto a soffrire quella pena che voi potreste infliggermi maggiore, negandomi di poter ritornare da voi. Signora, non perdonerete voi dunque a chi vi ha detta la verità? —

E così dicendo, Lorenzo Salvani si alzò, aspettando la sua sentenza.

La contessa alzò la fronte a guardarlo. Il giovane aveva pallido il viso e impresso di una severa mestizia; nè ella seppe tener fermo, senza un poco di turbamento, innanzi allo sguardo profondamente pietoso, ma altero ad un tempo, di Lorenzo Salvani.

— Perdonarvi! — disse ella con voce fioca. — È cosa fatta. Una donna non ha ragione a dolersi se un uomo pari vostro le parla di amore. Taluna forse, più sofistica delle altre, noterebbe che simili parole, perchè s’abbia a ritenerle in ogni loro parte sincere, son forse dette troppo presto.

— Ma io vi ho già detto, o signora, come la penso in materia di amore. Io non pratico, nè conosco la ipocrisia del cavaliere galante, il quale vi s’insinua dolcemente nel [p. 72 modifica]cuore, vi signoreggia superbamente quando sia giunto a persuadervi con la sua lunga umiltà. Con me, signora contessa, voi siete padrona di voi medesima; io non aspetto a cogliervi alla sprovveduta; vi amo, e ve lo dico schiettamente con le labbra, poichè mi è dato parlarvi, in quella stessa guisa che ve lo avrei detto e seguiterei a dirvelo con gli occhi, se non avessi altro modo.

— Ma sapete, signor Lorenzo, — (la contessa Matilde disse proprio: Lorenzo) — che queste vostre parole mi mettono in pensiero? Sedetevi qui, accanto a me, e vediamo di poter discorrere tranquillamente. Ho da dirvi anzitutto perchè io v’abbia pregato a venir qua. —

Lorenzo si assise. Il cuore del giovine s’era inondato di gioia, all’udire che la contessa per la prima volta lo chiamava col suo nome di battesimo.

— Parlate, parlate, signora! — esclamò Lorenzo. — Voi sapete pure la mia vita esser vostra, e non essere cosa ai mondo la quale io non fossi lieto di fare per obbedirvi. —

Una stretta di mano lo ricompensò di quelle parole, e se una mano ardeva, l’altra non era fredda di certo.

— Voi siete un uomo d’onore; — incominciò a dire la contessa, con un tal poco di solennità nello accento, — lo so; e appunto per questo ho amato meglio volgermi dirittamente a voi. So che vi siete diportato da prode gentiluomo in un duello, nel quale avevate a contendere con uno dei più valenti schermidori della città, e me ne congratulo con voi, non già in quel modo e per quella costumanza volgare di una persona che s’incontra per via, ma con affetto sincero, ed anco, se non vi è discaro saperlo, con gratitudine, perchè c’era di mezzo una dama, e questa dama voi l’avete difesa, in vece del suo cavaliere che si dimostrava un codardo.

— Come, signora? Voi sapete....

— Sì, so tutto, e non mi riterrò neppure dal dirvi che quella dama.... ero io.

— Voi, signora contessa! —

E così dicendo, Lorenzo Salvani la guardò trasognato, come per nuova che giunga inaspettata, sebbene egli stesso, fin da principio, avesse argomentato che l’invito della contessa Cisneri potesse avere qualche addentellato col suo duello di San Nazaro.

— Non vi faccia stupore! — proseguì rapidamente la contessa Matilde. — Se sapeste il fatto, non vi sarebbe difficile intendere quanto poca parte ci avessi. Ero nel mio [p. 73 modifica]palchetto in teatro, sul finire dello spettacolo, e mi aveva preso desiderio di salire nel Ridotto a vedere le maschere. Il dottor Collini era nel palchetto, come ci sono tanti altri, — (queste parole, in forma di parentesi, furono accompagnate da un sospiro) — ed egli mi si profferse per cavaliere. Detto, fatto; entrai mascherata nel ridotto, e fu allora che mi avvenne di dire al marchese di Montalto quelle innocenti parole che voi sapete....

— Io! non so nulla, signora contessa; — interruppe candidamente Lorenzo Salvani. — Il nome della signora mascherata non fu pronunziato da alcuno, ed io non chiesi nemmeno quali parole avessero dato appiglio alla contesa tra il Collini e Aloise di Montalto.

— Oh, mi fate respirare! — soggiunse la contessa. — Appunto a voi, cortese e leale come oggi vi conosco, ma come fin dall’altro giorno vi avevano decantato i padrini del vostro avversario, volevo chiedere se il mio nome fosse stato messo fuori. A voi, Salvani, — (la contessa qui disse proprio Salvani, tralasciando il titolo di cerimonia) — a voi non sarà ignoto che noi, povere donne, siamo come le nostre vesti di seta o di raso; una macchiuzza, e che sarebbe invisibile sulla vostra giubba di panno nero, le guasta per modo che non hanno più nessun pregio. Ora il solo avermi nominata, sebbene io sappia di non aver detto o fatto cosa biasimevole, l’esser posto il mio nome in mezzo ad una contesa di quella fatta, che fu sciolta per giunta col sangue, mi avrebbe cagionato un rammarico da non dirsi. —

Questo discorso fu fatto con piglio modesto dalla contessa, in quella che i suoi occhi non si dipartivano dal volto di Lorenzo, quasi interrogando i pensieri che gli passavano per la mente. Ed ebbe a rallegrarsi della sua attenzione, perchè Lorenzo aveva seguito con manifesta ansietà il racconto e si leggeva ne’ suoi occhi come fosse contento di sapere che il Collini era per lei un semplice conoscente, e null’altro.

Quello di Lorenzo Salvani era un sentimento che tutti gli uomini conosceranno a prova. La donna che noi incominciamo ad amare non ha da essere sospettata, nè d’opere, nè di pensieri; non ha da aver fatto mai l’occhiolino ad un altro, sotto pena di scomunica. Ed ecco in qual modo si può diventar gelosi perfino del passato.

— Ora, — proseguì la contessa Matilde, — poichè ho cominciato, vi dirò tutto. Non vi annoio, già?

— Signora, — esclamò Lorenzo, con aria di dolce rimprovero. [p. 74 modifica]

— Eh, gli è che questi discorsi non mi paiono tali da premervi molto. Comunque sia, lasciatemi dire, e ci guadagnerete questo, che mi conoscerete un po’ meglio. —

Il giovane rispose a queste parole afferrando per la seconda volta la mano della contessa, e stampandovi un bacio. Questo almeno era un modo di parlare che non si poteva togliere per un complimento, e non domandava nemmeno risposta. Matilde arrossì, sorrise malinconicamente, e senza ritrarre la mano da quelle di Lorenzo che la tenevano prigione, proseguì:

— Al marchese di Montalto, che conoscevo come tanti altri per averlo veduto in qualche veglia, dissi poche e cortesi parole. Ma, che volete? senza badarci, anzi senza saperlo, io debbo aver toccato un tasto delicato, e me ne duole, poichè un cuore di donna intende come pungano certi dolori; e sebbene egli non s’è mostrato molto cortese nel rispondermi, io lo stimo come un giovine abbastanza diverso da tanti e tanti altri.

— Avete ragione, — esclamò Lorenzo. — Aloise di Montalto è un vero gentiluomo. Egli a quest’ora sarà dolentissimo di essersi mostrato scortese con voi, quantunque io penso che non vi avesse conosciuta, e soltanto la presenza del Collini gli avesse inasprite le parole. Ma io lo conosco già tanto da potervi quasi affermare che, appena risanato, egli mi seguirebbe fin qui, per iscusarsi con voi.

— No, no, Salvani! Non ve ne date pensiero; — interruppe la contessa, ridendo. — Che importa a me, finalmente? Io stimo quel signore, ed oggi anche più di prima, poichè vedo che lo stimate voi: ma in verità non reputo necessario di conoscerlo più da vicino. —

Anche questo era un tocco maestro, e Lorenzo lo sentì, senza darsene ragione.

Egli stette silenzioso, ed ella egualmente; ma egli, se taceva, non rifiniva però dal guardarla con que’ suoi occhi languidi.

— Or bene, — gli disse ella dopo un tratto, — che fate?

— Signora, adesso tocca a me. Il mio discorso era rimasto a mezzo; lasciatemelo dunque finire. Mi crederete voi se vi dirò che vi amo? Mi perdonerete voi se ardirò dirvelo?

— Signor Salvani!... — esclamò la contessa, adombrando nella sua reticenza un timido rimprovero.

— Signora! — ripetè egli. — Poc’anzi avevate messa da parte questa inutile parola. [p. 75 modifica]

— Davvero? Ah, mi avvedo che perdiamo il capo ambedue. Siatemi invece cortese di finir l’opera vostra. Il mio disegno vi attende, perchè gli diate l’ultima mano.

— Debbo finirlo? Vi preme tanto?

— O che, non mi avrebbe a premere? Qual conto fate di me? Suvvia, da bravo, venite. Ciò detto, la contessa Matilde si alzò e condusse Lorenzo al tavolino.

— Ma non son buono a far nulla, — diss’egli, poichè si fu seduto dinanzi al suo bozzetto, — se voi non vi mettete da capo ad ispirarmi.

— Intendiamoci, anzitutto! — rispose la contessa alzando l’indice con gesto leggiadro; — voi non mi direte più nulla?

— Ve lo prometto, ma, ve ne prego, ripigliate il posto di prima. La bionda contessa sorrise, e posta la mano sulla spalliera della scranna chinò il capo fin presso alla guancia del giovine, in atto di guardare i segni che gli uscivano dalla matita.

E noi in questa positura li lasceremo ambedue, poichè ci stanno benissimo, e non si annoieranno di certo.