I rossi e i neri/Primo volume/VII
Questo testo è completo. |
◄ | Primo volume - VI | Primo volume - VIII | ► |
VII.
Di un’alzata d’ingegno che fece l’uomo dai capelli rossigni, e di quello che poscia ne avvenne.
Quella apparizione improvvisa scosse un tal po’ la brigata; ma ebbero da strabiliare addirittura quando videro chi fosse l’uno dei due nuovi venuti.
Era il dottore Ernesto Collini, che stava sulla soglia con gli occhi bassi e le braccia penzoloni. Accanto a lui era un ignoto personaggio, vestito di nero dal capo alle piante, che non mostrava nemmeno i solini della camicia. Con aria tra l’umile e lo sfrontato, se ne stava là, a spalle un po’ chine, ma con gli occhi fissi su quel crocchio di giovani, senza punto scomporsi, e quasi senza addarsi del senso d’ingrata meraviglia che la presenza del Collini e la sua avevano destato negli astanti.
Il primo a rompere il silenzio fu Lorenzo Salvani, a cui come primo padrino del Collini e per cagion sua costretto ad incrociare il ferro col marchese di Montalto, si spettava più che ad altri il parlare.
— Voi qui? — diss’egli, con accento da cui trapelava tutto lo sdegno dell’anima. — E che cosa venite a fare? —
Il Collini, di smorto che era nel viso, si fece livido senz’altro; alzò la fronte verso Lorenzo, ed al fiero corruccio balenante dagli occhi del giovine rispose con uno sguardo sottile e freddo che pareva volesse passarlo fuor fuori; ma quello sguardo fu un lampo, e gli occhi del Collini si levarono subito al cielo, con aria contrita, in quella che la voce diceva, con accento da pulpito:
— Il mio dovere!
— Il vostro dovere? È già stato fatto; — gridò il Salvani. — Guardate; per cagion vostra due galantuomini, i quali non avevano sdegno o rancore di sorta l’uno contro l’altro, sono stati ad un pelo di uccidersi.
— Il Cielo mi è testimone che io mi dolgo amaramente di quanto è avvenuto testè, — disse il Collini, alzando gli occhi al cielo, come per offrirgli il suo calice di amarezza; — credevo che tra il marchese di Montalto e i miei padrini non dovesse accader nulla. Se manca uno degli avversarii (e permettetemi di usare questa parola per farmi intendere, sebbene non sia intesa più dal mio cuore), i suoi padrini, dissi tra me, non hanno a far altro che dar atto della sua assenza, comunque ella possa venir giudicata da animi preoccupati. Io dunque sono condotto a credere che se, dopo un fatto simile, si è trovato il modo di fare un duello, ciò debba ascriversi a feroce desiderio di sparger sangue, e non ad altra cagione. —
Lorenzo era fuori di sè per lo sdegno; gli altri tutti erano meravigliati, stupefatti da tanta audacia. Pure nessuno fiatò.
— E tuttavia, — proseguì il Collini col medesimo acuto e senza guardare in volto nessuno degli astanti, — io me ne dolgo come se fosse un male avvenuto per cagion mia. Ora, o signori, lasciatemi dire il perchè non sono venuto al ritrovo, e poi mi giudicherete.
— Sono curioso davvero di saperlo; — borbottò il dottor Mattei, daccanto ad Aloise di Montalto, il quale stava ancora seduto sul terreno, aspettando il fine della fasciatura.
— Sapevo che il battermi era un male; — disse Ernesto Collini. — Son cristiano, cattolico, e me ne vanto. Cedendo la provocazione del marchese di Montalto, io ho obbedito ad un sentimento di vanità mondana, che ora detesto. E notate, o signori; io m’ero talmente ostinato in questo pericoloso sentimento, che fui per ricusare il sacrifizio di me stesso, perfino alle strazianti preghiere di un vecchio venerando....
— Che altra storiella ci racconta costui? — interruppe l’Assereto.
— Lasciatelo dire, signor Assereto; — soggiunse il capitano; — il suo racconto mi diverte non poco.
— Vi diverta, o no, — ripiccò il Collini, voltandosi improvviso e rizzando il capo come un serpe a cui sia stata calpestata la coda, — io debbo andar fino all’ultimo. Sì, o signori, quel vecchio venerando mi mandò iersera a chiamare, e mi chiese se fosse vero di quella sfida che avevo mandata al marchese di Montalto, ed io non potei nascondergli il vero, che egli del resto conosceva per filo e per segno. Egli mi pregò, mi scongiurò allora, che mi ritenessi da quella prova di sangue, e non gli valsero preghiere, nè scongiuri. La mia ostinatezza giunse a tale da consentire che egli scendesse dal letto, sul quale è inchiodato da più mesi, e trascinare sul pavimento la sua onorata canizie. Egli tremava per il grave scandalo e per me, ma più ancora per la vita del suo nipote....
— Ah! ah! mio nonno! — interruppe Aloise. — Non avrei pensato mai più che egli ci avesse un cuor così tenero.
— Sì, o signor marchese di Montalto. Vostro nonno vi ama, checchè possiate pensarne voi. Quel buon vecchio, al quale con le mie cure assidue vo prolungando la vita, io sono stato al punto di ucciderlo con la mia ostinazione vanitosa. E ci volle la intromissione di parecchi savi personaggi, perchè io vedessi il danno che recavo a quel povero vecchio, e l’offesa che facevo alla santità della morale. Infine, signori che vi dirò? Ho raccolto il capo nelle palme, ho pianto come un fanciullo, e in quelle lagrime tutta la mia superbia si è stemperata. E allorquando ebbi rinunziato al duello, avreste dovuto, com’io, vedere il suo giubilo. Figliuol mio, mi disse egli, io vi sarò grato di questo sacrifizio fino a tanto che io viva, ed eccovi la benedizione di un povero vecchio....
— Per ora; — interruppe da capo Aloise, — e più tardi potrà anco lasciarvi il rimanente.
— Signor marchese, potreste supporre?...
— Tutto. Non vi ha egli chiamato suo figlio? Badate a me, e consolatevi. I vecchi sono pozzi di verità.
— Insomma, signor di Montalto, comunque vogliate portar giudizio di me (e debbo fare anche questo sacrifizio) credete pure che ci vuol più coraggio a parlarvi come io vi ho parlato adesso, che ad incrociare una spada col più valente schermidore del mondo.
— Avete ragione, messer Collini; — interruppe a sua volta Lorenzo, il quale non poteva frenarsi più oltre, — e penso che ci voglia più pazienza ad ascoltar voi per dieci minuti, che a marcire nel fondo di una prigione. Colà, almeno, non si ode altro che lo strepito delle proprie catene; non si vede altro che il viso arcigno, ma non disonesto, di un carceriere. Insomma, voi siete un codardo; liberateci dalla vostra presenza, e subito!
— Ben detto! — gridarono tutti ad una voce. — Levatevi di qua! —
E uno di loro, il Nelli, aggiunse con piglio marziale: — fronte indietro, passo di carica, e marche!
Il Collini vibrò una bieca occhiata a Lorenzo, un’altra in giro a tutti gli astanti, e stringendo i pugni, uscì dalla chiesuola, accompagnato dal sozio vestito di nero.
Giunti che furono sul ripiano, in cambio di tirar oltre per la viottola, dove avrebbero potuto esser còlti dalla brigata che ci aveva le sue vetture ad aspettarla, voltarono a sinistra per una via scoscesa, che, praticata sul lembo dello scoglio, va giù fino ad una spiaggerella sul mare. Di là risalendo, potevano andare a passare per un’altra viottola, e la mercè di certe scorciatoie assai note ai genovesi che vanno colassù a villeggiare, riuscire a San Pietro della Foce, da dove sarebbero tornati in città alquanto più tardi delle vetture.
Era quella del resto la strada che il Collini aveva tenuta per andare alla chiesuola. Senza essere veduti da alcuno, egli e il suo taciturno compagno erano giunti fin sotto quella sporgenza del masso dove accadeva il combattimento, ed avevano potuto cogliere il momento opportuno di farsi innanzi, quando più non si udisse lo strepito delle armi.
Ridiscesi adunque su quel tratto di spiaggia, dove erano affatto celati alla vista di coloro che stavano in alto, sul ripiano della chiesuola, i due sozii si fermarono.
Il dottor Collini aveva la schiuma alla bocca, e mulinava nel capo i più feroci pensieri. La vergogna era stata grande per lui, e tutti i sarcasmi di quei giovani animosi li aveva infitti, come strali avvelenati, nel cuore. Imperocchè egli sentiva pure tutta la vigliaccheria del suo atto; ma, siccome avviene a tutti i tristi della sua fatta, che sono codardi e vanitosi ad un tempo, non sapeva patire lo scherno, e covava nell’animo la vendetta.
Nessuna parola era stata anche scambiata fra i due. Ernesto Collini, senza badar molto a quello che si facesse, si chinò sul greto a raccogliere alcuni ciottoli, e si diede a scagliarli nel mare, facendoli scivolare di rimbalzo sulle acque tranquille.
Duemila trecento e trentott’anni innanzi, un altro vanitoso crudele, sebbene assai più possente di lui, se la prendeva col mare, facendolo battere a colpi di verghe.
— Perdio! — ruppe finalmente a dire il Collini. — E non mi vendicherò di costoro? E quel Salvani, il quale mi dice occorrere più pazienza a udir me, che non a marcire nel fondo di una prigione!... Oh, ti ci farò marcire ben io, se quello ch’io penso è vero.
— Benissimo, figliuol mio! — disse allora il compagno. — Questo si chiama ragionare. Seguite l’esempio di chi ha vissuto più di voi. Io mi sono vendicato di molti, e la buona causa se n’è avvantaggiata parecchio.
— A voi sembra un negozio molto spiccio, padre mio. Ma come fare?
— Non dubitate; da cosa nasce cosa, e il tempo la governa. Costoro, se voi siete prudente ed astuto, vi daranno tutti nel laccio da sè. Io li conosco, questi cervelli stemperati, i quali ardiscono fare e dire ogni cosa che loro talenti, alla luce del sole. La vendetta è un peccato, figliuol mio, quando ella non giova ad altri che a noi, quando non serve a Dio; ma la vendetta che giova alla sua causa, è buona. Non si chiama egli il Dio delle vendette? Date tempo al tempo, e vedrete come sapremo conciarli pel dì delle feste.
— Ma io ho bisogno di far presto! — rispose il Collini, digrignando i denti. — Sentite, padre mio, come il cuore mi batte. Oh certo, se non era pel vecchio Vitali, io non mi sarei lasciato persuadere a tanta debolezza.
— Che! che! — interruppe quell’altro, accompagnando le sue parole con un certo risolino sarcastico; — non vi sareste battuto neppure. Avete colorito assai bene il vostro racconto, bisogna convenirne; ora finite con aggiustargli fede voi stesso.
— Padre!... — esclamò il Collini, provandosi a guardare in viso il suo interlocutore.
— Bando alle inutili parole, vi prego! — disse questi, senza tener conto del piglio sdegnoso del Collini. — Sapete pure che se io per avventura ammalassi, non manderei per voi, e non inghiottirei pur una delle vostre pillole. Con me i vostri corrucci non faranno mai buona prova. Siate dunque più schietto con me, poichè ci conosciamo così bene! Io poi non vi ascrivo a colpa di non essere un Rodomonte. Altri ha il coraggio di sfidare la punta di una spada, o la canna di una pistola; noi abbiamo quello del serpente, che striscia nel buio, e dal tronco di un albero agguata il leone e lo stritola. È questo, a mio credere, il coraggio più sicuro e il più profittevole. Io vi confesso schiettamente che sono contento di voi, e tutta la società, alla quale dovete gloriarvi di appartenere, non si dipartirà da questo giudizio. Al vecchio Vitali importava che voi gli uccideste il nipote, o che foste ucciso da lui (la qual cosa era molto più probabile), come a me importa di quel gabbiano laggiù, che va girando sui flutti per buscarsi un pesce a fior d’acqua. È la salute dell’anima che gli preme, a quel vecchio barattiere, e il mio consiglio soltanto gli dettò quella preghiera che egli vi fece, senza punto discendere dal letto e trascinare nel fango la sua onorata canizie, come voi dicevate testè con tanta eloquenza, quella preghiera insomma alla quale voi vi siete acconciato così di buon grado. Non è egli vero?
— È vero! — brontolò il Collini, chinando la testa.
— Il vecchio Vitali è un tristo; — riprese l’uomo vestito di nero; — le sfondate ricchezze che egli ha, non sono sue. Non vi è ignoto com’esse provengano da un nostro deposito, che egli non ha voluto restituire, e di cui si ostina anzi a negare l’esistenza. Ora i suoi milioni sono il frutto di quel deposito; son dunque nostri, e dobbiamo ad ogni costo riaverli, sia che egli faccia voi suo erede, la qual cosa mi pare molto difficile e fors’anco un tantino pericolosa, o che Aloise di Montalto diventi uno dei nostri, e si rassegni a spartire con noi. Eh, figliuol mio, non mi crollate il capo a quel modo! Se ne son vedute tante, in questo mondo. In fin dei conti, è necessario che i milioni del vecchio tornino a noi; questo è l’essenziale, e noi provvederemo ai modi. Voi siate prudente, più zelante, e soprattutto più obbediente che non foste pel passato. —
Il Collini si mordeva le labbra, e non rispondeva nulla a quel discorso del savio compagno. Ma questi non aveva anche finito.
— Badate, signorino! — aggiunse egli. — Se voi siete fino ad un certo punto utile a noi, per l’ufficio a cui v’abbiamo posto nella casa del vecchio, noi siamo padroni assoluti e dispotici della vostra persona, e, come avrete potuto già intendere da certe mie paroline, ci abbiamo in mano il bandolo di molte matasse ingarbugliate, e della vostra fra l’altre. Non ricalcitrate dunque, che potrebbe tornarvi a danno; in quella che la fedeltà e l’obbedienza vostra potranno farvi ricco, reputato e contento. State adunque di buon animo, ed accettate un giogo, che è tanto lieve e soave. Farete in questa guisa il vostro tornaconto, e vi vendicherete di tutti i vostri nemici.
— Avete ragione, padre mio! Io sono un pazzo, quest’oggi!
— Bravo! così mi piace vedervi. Suvvia, dimenticate quello che io vi ho detto, se pure non vi parrà più acconcio chiudervelo bene in mente, e andiamo in città.
— Andiamo, — rispose il Collini. — Pur che io mi vendichi!... —
E fatto questo discorso edificante si mossero verso la salita, donde potevano recarsi a San Pietro della Foce.
Intanto che questa bieca conversazione si faceva sulla spiaggia del mare, più in alto, sulla porta della chiesuola diroccata di San Nazaro, Aloise stringeva affettuosamente la destra di Lorenzo.
— Amico vostro per tutta la vita, Salvani! Voi siete un gentiluomo, e lo avervi conosciuto mi tempera il rammarico della ferita che ho toccata da voi. Vogliate anzitutto scusare quel piglio d’alterigia e qualche brutta frase che non v’è andata a sangue, e che a me importa assaissimo di spiegarvi ora. Il Collini è un mascalzone, e a quest’ora lo sapete anche voi. Dopo aver fatto il valoroso al cospetto di una donna, egli cercò padrini, e nessuno gli volle servire. Io non conoscevo voi, e potete argomentar di leggieri che il vedervi giungere col signor Assereto, altra persona a cui profferisco la mia amicizia, mi facesse cattivo senso. Infatti io ero certo che il Collini non si sarebbe battuto. Un suo duello di due o tre anni fa, quantunque l’avversario non fosse uomo di polso, finì Dio sa come, e ci volle tutta la prudenza dei padrini per rabberciare la cosa e non farla voltare allo scandalo. Ricordandomi delle sue prodezze, io dunque pensai che volesse mettermi uno schermidore di rincontro; e tale di fatto eravate, ma non a quel modo che io argomentavo. Eccovi la ragione dei miei portamenti di questa mattina; ed ora che vi ho tutto confessato, accettate voi il mio pentimento sincero? —
Lorenzo afferrò la mano che Aloise gli offriva, e lo abbracciò con affetto.
— Vostro amico per la vita e per la morte, Aloise di Montalto. Il caso, più assai che l’arte, dirige la punta di una spada; ma non è certamente il caso quello che fa incontrare due uomini i quali debbano essere amici, come noi saremo da oggi in poi. —
Aloise e Lorenzo, il nobile e il popolano di nome, ma ambedue gentiluomini per altezza di mente e cortesia di modi, si abbracciarono da capo.
Tante e così svariate commozioni avevano stancato il ferito, che sostenuto da Lorenzo e dal dottore Mattei si recò fino alla sua carrozza, la quale stava ad aspettarlo più al largo, a metà della viottola.
Il duello di Aloise di Montalto fece chiasso, e se ne parlò per giorni parecchi in ogni ritrovo, da via Balbi a porta d’Arco, dalla piazza de’ Banchi al famoso angolo della libreria Grondona; e questo per la qualità delle persone che c’entravano, e che, salvo Lorenzo, erano tutte conosciute in Genova, stiamo per dire, come Barabba a Gerusalemme, nei tempi evangelici.
Come è costume da noi in simili occasioni, furono fatte di molte ciarle su quello scontro e sulle sue conseguenze. Il Montalto era lì lì per tirare le cuoia; il polmone era stato passato fuor fuori; un’arteria era stata toccata; insomma non c’era più speranza di salvarlo. Tutti avevano parlato col medico, e vi sapevano dire perfino come il ferito avesse passato la notte. Ma più delle ciarle furono discordi i pareri sulle ragioni del duello. C’era chi dava il torto al marchese di Montalto, e chi a Lorenzo Salvani; e si trovò perfino chi desse ragione al Collini, perchè (si diceva) era tempo oramai di farla finita con quella barbara costumanza del duello.
E v’ebbe anche taluno, il quale, forse per meglio dimostrare la barbarie del duello, affermò che se a lui fosse stata recata una sfida, avrebbe risposto a pugni e mostaccioni: oppure avrebbe accettato l’invito, ma con due pistole, l’una carica e l’altra vuota; e magari con due pillole, diverse nella composizione e negli effetti; il che nel caso del signor Collini sarebbe parso più naturale.
Ma torniamo a Lorenzo, del quale ci importa per ora più che di tutti gli altri personaggi della nostra narrazione. Egli era tornato a casa, dove il veterano Michele lo aveva preceduto, dando con tutta la forza dei suoi polmoni nella tromba della fama, sebbene non ci avesse altri uditori che la signorina Maria.
La giovinetta s’era fortemente turbata a quel racconto di Michele; ma Lorenzo era giunto anche lui sano e salvo; laonde ella non seppe dolersi dell’accaduto che riusciva ad onore del fratello, e tenne bordone alle guerresche sfuriate di Michele con una frase che merita d’essere qui riferita:
— Alla perfine, un uomo deve fare il debito suo, avvenga che può; ed anco a me, se fossi un uomo, darebbe l’animo di fare lo stesso. —
Il giorno dopo, Lorenzo Salvani, tornando dalla via Balbi dove si era recato a visitare Aloise di Montalto, passò all’uffizio delle Poste, e trovò una lettera per lui, la quale veniva da Genova.
Chi mai poteva avergli scritto da Genova?
Era una letterina chiusa in una elegante sopraccarta inglese di forma quadrata, col suggello di ceralacca azzurra e una corona comitale in rilievo. Di conti, Lorenzo non conosceva altri, per allora, che il Nelli di Rovereto; ma la lettera non poteva venire da lui, che egli aveva veduto mezz’ora innanzi al capezzale di Aloise. D’altra parte la soprascritta faceva mostra di certi graziosi uncinetti, che non indicavano punto la mano di un uomo; e non veniva da un uomo quell’essenza di violetta che profumava la lettera.
Lorenzo, dopo avere almanaccato un tratto, fece quello che avreste fatto voi, o lettori, e che avremmo fatto anche noi, in un caso simigliante. L’aperse, e lesse queste poche parole:
«La contessa Matilde Cisneri prega il signor Lorenzo Salvani, a voler passare da lei, domani, per cosa urgente; e lo ringrazia in anticipazione.»
Potete immaginarvi come egli rimanesse a quella lettura. Di stucco, è forse un dir troppo. Ma che cosa voleva la contessa Cisneri da lui? Lorenzo l’aveva udita nominare come una delle più belle signore di Genova; ma, vivendo egli appartato dal mondo elegante, non aveva mai avuto occasione di conoscere quella bellezza neanche per via. Ma egli era uomo, finalmente; ed una lettera di donna doveva fargli quel senso che fanno di consueto ad un uomo gli scarabocchi di una figlia di Eva.
— Domani! — andava egli dicendo tra sè. — Da oggi a domani ci sono ventiquattr’ore da aspettare. Basta; purchè passino, vedremo.