I naufragatori dell'Oregon/6. Sul rottame
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CAPITOLO VI.
Sul rottame.
Il tradimento del malese aveva resa la situazione dei passeggieri e dell’equipaggio disperata: una catastrofe tremenda minacciava la vita di tutti!...
L’Oregon aveva ormai le sue ore contate. Se aveva potuto resistere per sei ore all’irrompere delle acque, doveva cedere dinanzi all’impeto della bufera che s’avanzava a grandi passi, sconvolgendo orribilmente il mare delle Celebes.
Già si piegava minacciosamente sul babordo, come se da un istante all’altro dovesse rovesciarsi e sommergersi col suo carico umano e giù, nella camera delle macchine, si udiva l’acqua percuotere con crescente furore contro le tramazzate di prua e di poppa, minacciando di sfondarle e di invadere le cabine, il quadro, le sale e la camera comune dell’equipaggio.
Ogni onda che montava sul bordo, sfasciandosi contro le murate, lo inclinava spaventosamente.
I passeggieri, muti per terrore, avevano cessate le loro grida d’angoscia. Raggruppati gli uni addosso agli altri, parte a prua e parte a poppa, guardavano con ispavento le onde che urlavano attorno al disgraziato Oregon. Parevano ormai rassegnati alla catastrofe.
Il comandante, in mezzo ai suoi ufficiali ed ai marinai, discuteva con animazione, ma nessuno trovava il modo di uscire da quella tremenda disgrazia.
– Non ci rimane che un mezzo – disse ad un tratto il capitano.
– Quale, signore? – chiesero gli ufficiali.
– Tentare la costruzione di una zattera.
– Ne avremo il tempo?
– Confidiamo in Dio.
– Ma potremo costruirla con questo mare sconvolto?
– O non sarebbe meglio tentare d’accomodare il gran canotto? – chiese un contro-mastro.
– Non potrebbe ricevere mezzi i passeggeri – rispose il comandante.
– E la costruzione di una zattera è assolutamente impossibile – disse O’Paddy, facendosi arditamente innanzi. – Le onde porteranno via il legname appena calato in acqua.
– Avete un mezzo per salvarci voi? – gli chiese il capitano, aggrottando la fronte.
– Io no, signore.
– Allora tacete.
– Sono un uomo di mare anch’io, signore!
– Sì, ma per sfondare le navi degli altri – rispose il comandante seccamente.
– Vicende del mare.
– E degli uomini inesperti.
O’Paddy alzò le spalle e volse i talloni.
– Al lavoro – disse il comandante. – Temo che l’Oregon non possa resistere fino a domani.
L’equipaggio, quantunque non avesse grande speranza nel disperato tentativo, si era messo animosamente al lavoro. Sotto la direzione degli ufficiali aveva già cominciata la demolizione dell’opera morta per avere grande copia di legname e di una parte delle cabine situate sopra coperta, mentre il mastro ed alcuni carpentieri procedevano al taglio dell’alberatura, i cui tronchi dovevano servire per la formazione dello scheletro del galleggiante.
O’Paddy non si era creduto in dovere di prendere parte a quei lavori. Invece ronzava attorno al signor Held, che si era seduto ai piedi della scala del cassero, tenendo presso di sè la giovane Amely e Dik.
Pareva che aspettasse di venir interrogato ed infatti le sue speranze non tardarono a realizzarsi. Il signor Held lo aveva notato, e sapendo che era l’autore principale di quel disastro, non potè fare a meno di dirgli con una certa acredine:
– Vedete, signore, in quale stato ci avete ridotti?
– Lo vedo, signore – rispose O’Paddy, fermandosi dinanzi a lui. – Ma che colpa ne ho io, se le onde m’avevano spento i fanali e spezzato il timone?... Sono una vittima del mare anch’io e se mi rincresce di essere stato la causa involontaria di questa collisione, lo lascio immaginare a voi, avendo perduto tutto il mio avere ed il mio intero equipaggio.
– Povero uomo! – mormorò Amely.
– Avete ragione di dirlo, signorina – disse l’irlandese con voce triste. – Io mi chiedo se sono più disgraziato io od il comandante di questo vascello.
– Ma credete che vi sia speranza di salvarci? – chiese Held. – Voi, uomo di mare, potete giudicare la nostra situazione meglio di noi.
O’Paddy lo guardò alcuni istanti senza rispondere colle braccia incrociate, poi disse con voce grave:
– Volete un consiglio?
– Parlate, signore.
– Non abbandonate questa nave.
– Ma non vedete che stanno costruendo una zattera?
– Lasciate che s’imbarchino gli altri.
– Non v’imbarcherete voi?
– Io?... No, signore, rimarrò sull'Oregon.
– Ma lo steamer minaccia di andare a picco.
– C’è del tempo: gli scompartimenti stagni non cederanno così presto. Vedete laggiù quella nuvola nera che si alza col levar del sole!... Indica che fra poche ore il vento soffierà di là.
– E che importa a noi del vento?
– Eh!... mio caro signore, quel vento sarà la nostra salvezza, poichè spingerà l’Oregon sulle coste del Borneo. Io conosco questo mare come le mie tasche, avendolo navigato per vent’anni.
– Ma la zattera?...
– Si sfascerà ben presto. Queste onde impediranno all’equipaggio di saldarla per bene e voi la vedrete sciogliersi. Volete imbarcarvi? Fatelo; ma badate a me, rimanete su questa nave come ci rimango io.
– E se invece la nave si capovolgesse?... Io non voglio che questi fanciulli periscano.
– Non affonderà, ve lo ripeto. Credete ad un uomo di mare, che ha salvato la propria pelle in sette naufragi.
– Amely – disse Held a voce bassa, rivolgendosi verso la giovinetta – hai fiducia in quest’uomo?...
– È un uomo di mare, signor Held – rispose ella.
– Vuoi rimanere qui o tentare la sorte sulla zattera?... – le chiese poi a voce alta.
– Se voi rimanete, noi non vi abbandoneremo.
– Temo assai per la zattera, Amely.
– Allora resteremo sull’Oregon. Dio veglierà su di noi.
– E poi, signorina – disse O’Paddy, con voce insinuante – se la nave dovesse correre un serio pericolo, penserò a radunare per tempo dei rottami e fabbricare una zattera migliore e più sicura. Ho con me un malese che non ha l’eguale in tali costruzioni.
– Ci affidiamo a voi, signore – disse l’ex-ufficiale.
– Ed io vi salverò – rispose O’Paddy. – Aier-Raja!...
Il malese, che non si trovava lontano, fu sollecito a comparire.
– Credi tu che la zattera dell’equipaggio possa resistere? – gli chiese l’irlandese.
– No, padrone – rispose il malese. – Il mare la sfascerà e spazzerà via tutti gli uomini che la montano.
– Udite signore? – disse O’Paddy, rivolgendosi al signor Held. – Anche il mio malese prevede lo stesso pericolo.
– Ma approdando noi sulle selvagge sponde del Borneo, potremo poi trovare il modo per continuare il viaggio, signor Held? – chiese Amely.
– Dove eravate diretti? – domandò O’Paddy.
– A Kupang, nell’isola di Timor – rispose Held.
– Per un viaggio di piacere?
– No, per raccogliere una eredità enorme, una cinquantina di milioni.
– Fulmini di Giove!... Cinquanta milioni!...
– Che spettano a questi due ragazzi.
– Ma non siete un loro parente voi?
– No, un vecchio amico del loro padre, che li ha affidati a me prima di morire.
– Quando si devono intascare cinquanta milioni, non si deve morire. Lasciate pensare a me e vi prometto di farvi toccare terra.
– Se lo fate, signore – disse Amely – vi prometto di indennizzarvi della perdita della vostra nave.
– Non parliamo di ciò, signorina – disse O’Paddy. – Noi, gente di mare, cerchiamo di rendere dei servigi, quando possiamo, senza interesse.
– Grazie, capitano... – disse Held.
– John O’Paddy – disse l’irlandese.
– Grazie, signor O’Paddy – continuò l’ex-ufficiale olandese, tendendogli la mano. – A cose finite, se riusciremo a uscire vivi da questa triste situazione, Amely e Dik si ricorderanno di voi e spero che non farete a loro il torto di rifiutare una nuova nave.
– Ah!... signori miei!... – esclamò l’irlandese con un tono di voce che sembrava realmente commossa. – Basta!... pensiamo innanzi tutto a salvare la pelle. Ecco la nube che s’avanza sempre e che il mare s’alza verso oriente: buon segno!... L’Oregon andrà ad arenarsi sulle sponde del Borneo e tanto peggio per coloro che non hanno voluto ascoltarmi e che tenteranno la sorte sulla zattera. A me, Aier-Raja.
Il furfante salutò i suoi nuovi amici e si diresse verso poppa, seguìto dal malese, ripetendo:
– Fulmini!... Cinquanta milioni!... Che bel colpo se potessi diventare l’erede per tre mesi!... Al diavolo Wan-Baer ed il suo milione!...
Intanto l’equipaggio dell’Oregon lavorava accanitamente per gettare in mare lo scheletro della zattera. Aveva già abbattuti gli alberi facendoli cadere sul coronamento di tribordo, per alleggerire un po’ il babordo, poi li aveva divisi ed ora stava calandoli a poppa.
Le onde però rendevano quel lavoro estremamente penoso e pericoloso. I pezzi degli alberi, quantunque trattenuti colle funi, minacciavano da un istante all’altro di venire portati via e gli uomini, sospesi ai paranchi, rischiavano di venire sfracellati contro la poppa del vascello.
Dopo mezz’ora di febbrile lavoro, erano però riusciti a legare i quattro pezzi principali che formavano l’ossatura, ed alcuni uomini si erano calati su quel primo galleggiante, facendosi trattenere dai compagni rimasti a bordo, per mezzo di solide funi.
Tosto cominciarono a legare i pezzi minori, quindi le tavole, procurando di saldarle le une alle altre con chiodi, con chiavarde e con uncini. Altri uomini erano discesi su quel primo ponte ed avevano intrapresa la costruzione di un altro, ma con immense fatiche, poichè le onde invadevano senza posa il galleggiante, rovesciandoli e minacciando di trascinarli via. Già parecchi marinai erano caduti fuori dei bordi e non erano stati salvati che con pene infinite.
Alle dieci però anche il secondo ponte era finito e si poteva ormai dire che la zattera era quasi terminata ed in grado di ricevere i passeggieri.
Ma proprio allora, quasicchè il mare volesse impedire la salvezza di quei disgraziati, aumentava la furia della bufera. Cavalloni enormi si scagliavano con impeto irresistibile sul galleggiante, lo sollevavano come una piuma, lo sbattevano contro la poppa dello steamer facendolo scricchiolare e minacciando di disgiungerlo e di disperderlo.
Gli uomini non potevano resistere che tenendosi aggrappati alla fune con suprema energia.
– Bisogna affrettarsi o la zattera si sfascierà – disse il comandante.
– E la nave galleggia sempre, signore – disse O’Paddy.
– Avrete paura a imbarcarvi?
– No, signore, ma io rimango sul vostro steamer.
– Fate come vi aggrada. Avanti i passeggieri!...
Uomini e donne si erano precipitati confusamente verso poppa, temendo che la nave, la quale già provava scosse tremende, fosse per inabissarsi, ma tutti si erano arrestati vedendo quelle montagne d’acqua irrompere, con mille muggiti, sulla zattera.
– Capitano!... – gridavano. – Laggiù vi è la morte.
– E chi rimane sull'Oregon morrà prima – rispose il comandante. – Avanti le donne, innanzi a tutto.
Un marinaio afferrò una fanciulla ed approfittando del momento in cui un’onda sollevava la zattera fino a quasi a livello del coronamento di poppa, si lasciò cadere giù.
Fu come il segnale d’una fuga precipitosa. Uomini, donne e ragazzi, incoraggiati, si slanciarono alla rinfusa sulla zattera, precipitandosi l’uno addosso all’altro. Le onde li spazzavano via, li travolgevano, li rotolavano, ma non badavano più a nulla. Una voce aveva gridato in mezzo a quella orribile confusione:
– La nave affonda!...
E tutti, vinti dalla paura, si erano precipitati su quel galleggiante che offriva, almeno pel momento, una tavola di salvezza.
Degli uomini, delle donne e dei fanciulli erano stati strappati dalle onde e sbattuti contro la poppa della nave, ma chi si curava di loro in quel supremo momento, fra quel terrore?...
In pochi istanti la tolda della nave era rimasta quasi deserta. Non rimanevano che Held, Amely, Dik, il malese, O’Paddy, ed un giovanotto robusto che indossava la divisa delle truppe coloniali delle Filippine.
– A voi!... – gridò il comandante, volgendosi verso quel gruppo.
– Restiamo sulla vostra nave, signore – rispose O’Paddy, con accento risoluto.
– Ma voi? – chiese, volgendosi verso il soldato.
– Io, comandante, ho salvato due volte la mia pelle rimanendo a bordo delle navi naufragate ed oggi farò altrettanto.
– Ma, disgraziati, non vedete che la nave sta per affondare?
– Non ancora, capitano – disse l’irlandese.
– A vostro comodo.
E balzò sulla zattera gridando:
– Tagliate le funi e che Dio ci protegga!...