I misteri del processo Monti e Tognetti/Capitolo XXIV
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XXIV
Una seduta della Sacra Consulta.
Tutti erano al loro posto: i dodici giudici in sottana paonazza sui loro scanni, e fra essi il presidente in seggio più elevato; monsignor relatore alla sua tribuna, il procuratore del fisco al suo scanno, e dirimpetto a lui il difensore, l’avvocato Leoni.
Gli uscieri chiusero tutte le porte.
In mezzo al silenzio universale il presidente si levò in piedi, e tutti l’imitarono.
Egli invocò il nome santissimo di Dio colle solite preci latine, alle quali risposero in coro tutti i presenti: Amen!
Poi rivolse la parola ai giudici, dicendo:
— Carissimi fratelli! leviamo lo spirito all’Onnipotente, e preghiamolo, perchè voglia illuminare le nostre menti, scaldare i nostri cuori, cosicchè il nostro giudizio riesca conforme ai santi consigli della giustizia, della clemenza e della carità.
Dopo ciò, il presidente sedette, e tutti sedettero dopo di lui.
— Fratelli carissimi! ripigliò egli. Noi siamo qui congregati per giudicare la causa di Lesa Maestà, contro i ribelli che commisero gli atrocissimi fatti dell’ottobre nell’anno passato. In questa seduta ci occuperemo più specialmente di quella parte che riguarda gli accusati Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti. Monsignore! aggiunse poi, volgendosi alla tribuna del relatore, si compiaccia di fare la relazione della causa.
Monsignor relatore si levò in piedi, salutò l’uditorio a diritta e a mancina, poi cominciò il suo discorso così:
— Eccellentissimi e reverendissimi monsignori giudici! Dappoichè, per opera d’uomini scellerati, furono indegnamente usurpate alla Santa Sede le principali provincie, gli empj rivoluzionari non ristettero dal tentare ogni mezzo più iniquo per abbattere e distruggere del tutto il governo del Sommo Pontefice. E finalmente, non più paghi delle occulte insidie, si ridussero palesemente alle aperte violenze. Fin dallo scorrere del mese di settembre 1867 masnade garibaldinesche muovevano a invadere l’attuale territorio della Santa Sede, commettendo scelleraggini d’ogni maniera, e intanto uomini protervi, sanguinari e feroci s’introducevano nella capitale.
„ Mentre le provincie erano messe a fuoco e sangue dai perfidi invasori, Roma, che giusta i preconcetti disegni avrebbe dovuto insorgere, se ne stava salda, quieta, imperturbata, pronta bensì agli eventi, ma fidente, e stretta al suo amato sovrano. I membri del sedicente Comitato romano davansi bene attorno a fare proseliti, ma gli sforzi non riuscendo alla vastità dell’impresa scellerata, fu duopo movessero da Firenze uomini esperti delle rivoluzioni.
„ Allo intento delle mire rivoluzionarie facevano ostacolo le truppe straniere al servizio della Santa Sede, e di preferenza gli animosi zuavi: Castel Sant’Angelo, baluardo del Vaticano, ben guardato e difeso, non offriva modo di aversi con un colpo di mano. Quindi sorse negli empj il pensiero infernale di ricorrere al tradimento, minando le caserme dei militari pontificj.
„ La sera del 22 ottobre scoppiò l’insurrezione in Roma, per opera di forastieri, non ajutati dal vero popolo romano, e subito vinta e repressa dal valore delle truppe papali.
„ Alla operazione delle mine si prestarono in quella occasione gli accusati Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti, i quali si accinsero all’opera, non già per ispirito di parte, ma unicamente per sete di danaro, avendo prima del misfatto pattuito il pagamento, che ricevettero infatti dappoi.
„ Risulta adunque dal processo, che Monti e Tognetti alle ore 7 pom. di quel giorno, 22 ottobre 1867, mediante una chiave falsa, s’introdussero in un locale ad uso di deposito d’armi e di munizioni, sottoposto alla caserma Serristori, occupata dai prodi zuavi, e là dentro avendo portati due barili di polvere, a questi appiccarono il fuoco.
„ Catastrofe orrenda! La caserma Serristori crollò in gran parte, travolgendo nella ruina non pochi zuavi, dei quali ventidue furono tratti morti di sotto alle macerie, e dodici rimasero malconci e feriti per modo, che tre di essi ne perirono in progresso di tempo.
„ Sussiste adunque l’insurrezione, sussiste la rovina della caserma Serristori procurata mediante lo scoppio di una mina, e di questo delitto sono convinti per le risultanze del processo Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti.„
Terminato così il suo discorso, monsignor relatore, salutò nuovamente l’uditorio, e sedè nel suo seggio.
— La parola spetta al signor procuratore generale del Fisco, disse il Presidente.
Il procurator generale si levò in piedi, salutò gli astanti, poi disse:
— Eccellentissimi e reverendissimi monsignori giudici, breve sarà il mio dire, dopo la splendida e chiara esposizione della causa, fatta da monsignor relatore. Da essa conobbero chiaramente le eccellenze vostre quali fatti risultino dal processo, a carico degli odierni accusati.
„ Riguardo a questi fatti, Giuseppe Monti ha confessato spontaneamente e limpidamente ogni cosa. Gaetano Tognetti, sebbene non abbia assolutamente confessato in ogni sua parte il misfatto, ha tenuto però nell’istrutoria del processo tale un contegno, da non lasciare dubbio alcuno sulla sua reità.
„ Da tutte le altre parti del processo, dalle rivelazioni e confidenze segrete, testimonianze, confessioni giudiziali, e stragiudiziali, dai rapporti della polizia, dagli interrogatorj e verbali, vengono i due accusati Monti e Tognetti ampiamente convinti dei delitti di lesa maestà, insurrezione, devastamento e omicidio.
„ Laonde, in applicazione degli articoli 85 e 273, del Regolamento penale, e degli articoli 3, 708, 711, 715 del Regolamento di procedura criminale, devono essere condannati alla pena di morte, da eseguirsi mediante decapitazione, nonchè alla rifusione dei danni ed interessi a chi di ragione, e alla rifusione delle spese giudiziali verso il governo pontificio.„
Il procuratore generale del fisco tacque, e si ripose a sedere.
Il presidente allora si volse al banco della difesa:
— Parli l’avvocato difensore.
L’avvocato Leoni si levò in piedi.
Esso era pallido nelle guancie, e mestamente pensoso nella fronte. E cominciò a dire così:
— Voi mi vedete, o signori, peritoso e tremante. Non è già che io non abbia fede nella innocenza degli accusati da me difesi. Oh no! Gli è che io vedo con orrore pendere la pena di morte sul capo di due uomini onesti e valorosi.
A questo punto il presidente interruppe il difensore, e soggiunse:
— Prevengo il signor difensore di attenersi nel suo discorso al rispetto dovuto alla religione, al governo, e alle leggi.
— Non mancherò a questo rispetto in alcuna maniera, rispose il difensore. E se alcune delle mie parole dovessero sembrare troppo ardenti e avventate, invoco fin d’ora il perdono del tribunale. Quello che mi anima non è altro che l’amore della giustizia, quel medesimo che deve parlare, o signori, nell’interno delle vostre coscienze. Io ho sentito il procuratore del fisco invocare una pena gravissima contro i miei difesi, la tremenda, la irreparabile pena di morte. Io ho tremato, ho inorridito, o signori, all’intendere le sue parole, perchè io sono convinto nell’intimo dell’anima mia ch’essi sono innocenti.
„ Innocenti potrà rispondermi il signor procuratore del fisco. Ma essi sono convinti dal processo di avere minata una caserma, e cagionata la morte di varj soldati. È vero! Io non voglio inoltrarmi nelle strettoje di questo processo, sentiero troppo intralciato ed oscuro per la difesa. Io potrei cercare fin dove siano credibili le rivelazioni degli impunitari, i rapporti delle spie; potrei chiedere fin dove meriti fede una confessione emessa negli orrori del carcere, e sotto il timore di una condanna di morte. Potrei svolgere e indagare tutte le carte del processo, e porre l dubbio nell’animo vostro, o signori, e il dubbio dovrebbe bastare perchè gli accusati fossero assolti.
„ Ma io non voglio farlo. Ammettiamo pure, che Monti e Tognetti abbiano veramente avuto parte nella insurrezione, ch’essi abbiano anzi operata la mina della caserma Serristori: ebbene, anche in tal caso io sostengo in appoggio alla verità, alla ragione, alla giustizia, ch’essi non sono colpevoli di un delitto capitale, che non sono meritevoli della pena di morte! Essi hanno, voi dite, cagionate delle uccisioni; sia pure, ma chiamate colpevole, punite di morte il soldato che in battaglia uccide il nemico? Rispondete perchè qui sta tutta la questione. Nel giorno 22 ottobre, è un fatto che nessuno può negarlo, i Romani si battevano in Roma contro i soldati del governo.....
— I Romani, no! esclamò il presidente. Era tutta gente venuta di fuori. I Romani non hanno preso parte all’azione.
— Il mio difeso Gaetano Tognetti è romano, riprese con fermezza l’avvocato. Io devo parlare di Romani. I Romani adunque lottavano: il conflitto era impegnato, si combatteva a Porta San Paolo, al Campidoglio, a Piazza Colonna, in altri punti della città: i Romani cadevano sotto le fucilate degli zuavi: fu in quel momento che Monti e Tognetti fecero saltare la caserma. Non si può guardare questo fatto isolato; bisogna coordinarlo con tutto il resto. Monti e Tognetti facevano parte di quella forza di popolo che in quel giorno, in quell’ora medesima, si batteva contro la truppa degli zuavi. Fra gli insorti e i soldati vi era battaglia; quanto sangue non fu sparso dalle truppe? Furono uccisi dei fanciulli, delle donne... Se voi non puniste i soldati che hanno operate quelle carnificine, perchè si trovavano nello stato di guerra, non potete per la stessa ragione punire gl’insorti che caddero in vostro potere.
„ Ma si dirà che i miei difesi invece di battersi a corpo a corpo hanno accesa una mina. Ebbene? e per questo? Quegli che compie tali operazioni combatte del pari di quello che incede colla sciabola o il fucile nel pugno. Essi si sono esposti a un pericolo più terribile e immediato; ecco la sola differenza che passa fra loro e quegli altri, che si moschettarono cogli zuavi e coi gendarmi. L’uso delle mine non è consueto nelle guerre? E chi si è mai sognato di condannare quei valorosi soldati che hanno posta in forse la vita nell’esplosione delle mine per salvare i loro compagni? Chi è che non esalta l’eroismo di Pietro Micca?„
Il presidente, che da un pezzo andava sbuffando, e si dimenava sul suo seggiolone, interruppe di nuovo il difensore, soggiungendo:
— Il caso è diverso: quello era un soldato che serviva regolarmente il suo governo legittimo. Questi invece erano ribelli che lo combattevano.
— Ribelli o soldati, proruppe l’avvocato, essi erano combattenti nello stato di guerra. È un fatto storico, che non può mettersi in dubbio. Garibaldi si avanzava colle sue truppe; le milizie pontificie avevano pugnato contro quelle in regolari combattimenti. Or bene, il movimento di Roma non era altro che un episodio, o una conseguenza, se vuolsi, di quella medesima guerra. Si combattéva dentro e di fuori di Roma, ma per la stessa causa, in nome dei medesimi principii. Gli aggressori del di fuori erano d’accordo coi rivoltosi del di dentro; il governo stesso lo ha riconosciuto, lo stesso processo lo ha dimostrato.
„ Dunque, o signori, dunque Monti e Tognetti hanno combattuto in Roma nel modo medesimo, che i garibaldini hanno combattuto a Bagnorea, a Monte Rotondo, a Mentana. Essi si trovano nel medesimo caso dei garibaldini prigionieri di guerra. E chi si è sognato che i prigionieri di guerra dovessero essere massacrati? Perchè dunque spargere il sangue di questi due infelici? Essi sono coperti dal diritto delle genti, che vuol salva la vita dei guerreggianti, quando cadono in potere dell’inimico. Da questo dilemma non si esce. O si dovevano sterminare tutti quanti i prigionieri garibaldini (e notate che in questo caso Garibaldi avrebbe usato del diritto di rappresaglia) o si devono liberare anche questi due.
Il difensore così parlando si era animato con tutta l’energia dell’anima. Il pallore era scomparso dal suo volto; si sarebbe detto che mandava fiamme dagli occhi. Egli si deterse il sudore della fronte, poi ripigliò:
— E poi, signori, mettiamo una mano sul petto. Se Monti e Tognetti fossero anche colpevoli, lo sarebbero essi al punto di meritarsi la pena di morte? No, o signori, essi non sono volgari malfattori. Monsignor relatore ha detto ch’essi agirono per interesse, che furono pagati! Non è vero. Lo provi il fisco, se può.
„ Monti e Tognetti erano due onesti operai. Non v’ha nulla di colpevole nel loro passato. Monti è anche padre di famiglia. Ebbene, o signori, due bravi operai, due figli del lavoro, un uomo sopratutto ch’è marito e padre, avvinto alla vita dai vincoli più tenaci e cari, non espongono loro vita per pochi soldi. Oh no! essi non furono spinti in quella strada dall’ingordigia di un vile guadagno. Essi seguirono un’idea nobile e generosa... sarà stata un’illusione, un’utopia, un errore, non importa; quell’idea era grande, era bella nel loro pensiero. Essi volevano liberare la loro patria, questa Roma.....
— Signor difensore! gridò il presidente. Non seguiti a parlare così, altrimenti le tolgo la parola.
— Monti e Tognetti avranno errato, lo ripeto, riprese il difensore, saranno illusi, traviati, ma il loro inganno era generoso. Dalla loro colpa, se colpa v’ha in essi, a quella dell’assassino v’è un abisso. Se errarono nel fatto, nell’intenzione erano puri. E in nome di quanto v’ha di sovrumano nel culto dell’idea, per quell’amore che indusse il divino Redentore a perdonare i falli dell’uomo, entrate, o giudici, nei penetrali della vostra coscienza, interrogate il vostro cuore, e pronunciate, se lo potete, che questi due uomini sono meritevoli di una morte ignominiosa!„
Una breve pausa seguì queste parole, pronunciate con tutto il calore del sentimento. Il difensore pareva oppresso dall’emozione; pareva quasi che il suo entusiasmo fosse giunto a trasfondersi nei cuori gelidi di quei sacerdoti. Essi stavano immoti a guardarlo, aspettando che riprendesse la parola.
E il giovane generoso così continuò:
— E poi, perchè vorrete far ricadere tutta la colpa sul capo di questi due sventurati? Perchè devono essere essi soli i capri espiatori dei passati mali? L’impresa ebbe pure dei capi. Dove sono essi? Se quell’impresa fu un delitto, andranno impuniti i rei principali, e gli agenti subalterni assoggettati alla morte? V’erano pure altre persone coinvolte in questa parte della causa. Le carte processuali serbano traccia di un nome, scomparso nella relazione, il nome di un certo Curzio Ventura.
„ Per quanto ho potuto raccogliere, l’uomo così chiamato avrebbe rappresentata una parte principale nel fatto di cui sono accusati Monti e Tognetti. Che è avvenuto di lui? dov’è desso? La difesa dei due accusati ha diritto di domandarlo.
— Signor avvocato, proruppe il presidente. Ella passa in un campo estraneo alla difesa, ed io le tolgo la parola.
— Una sola parola mi sia lecito aggiungere, esclamò il difensore. Una vecchia madre, una sposa derelitta, dei piccoli bambini aspettano tremando la vostra decisione. Lo può farli piombare nella desolazione, un detto può consolare tutti quei cuori angustiati. Quale sarete voi per pronunciare? quale? Io volgo lo sguardo a quella santa immagine del Nazareno, che pende sui vostri capi, e su quelle labbra divine io leggo la parola Perdono. L’ultima voce della sua vita mortale non fu una una prece per quelli stessi che l’avevano crocifisso? Padre, pregò egli, perdonate loro perchè non sanno quel che si fanno. Avrò io bisogno di ripetere le sacrosante parole del Redentore, a voi, che siete i suoi sacerdoti? Non vi stanno esse scolpite a caratteri indelebili nel cuore? Non sono esse il simbolo del vostro ministero, che è tutto di pace e di perdono? E vorrete voi comandare che sia sparso questo sangue, quando il divino Maestro comandò a Pietro di riporre la spada nel fodero? Io non aggiungo altro. Volgetevi a quella immagine, e da quella ricevete l’ispirazione, quando sarete per pronunziare la vostra sentenza.„
Il giovane pose fine al suo dire, interrotto dalle lagrime, che calde e copiose gli sgorgavano dal ciglio.