I misteri del processo Monti e Tognetti/Capitolo XXIII
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XXIII.
Scene preliminari.
Fra gli strazi dei prigionieri, le lagrime delle famiglie, le perfidie dei giudici, giunse, dopo un anno, il giorno del giudizio definitivo.
Il 16 ottobre 1868 si riuniva nella gran sala del palazzo Innocenziano di Monte Citorio il supremo tribunale della Sacra Consulta per giudicare la gran causa di Lesa Maestà.
Quanto sangue e quanto pianto gronda intorno alle pareti di quella sala, dove furono condannati al patibolo e alle galere tanti generosi patrioti! In quella sala sta scritta tutta la storia del papato moderno, di un potere che si regge col solo puntello delle bajonette e delle mannaje.
Un grande crocifisso pende dalla parete, e sott’esso sta un busto marmoreo di papa Pio IX.
Una gran tavola semicircolare, coperta da un drappo nero, è anteposta a dodici scanni pei giudici, fra i quali uno più elevato per il presidente. A diritta e a sinistra stanno altri scanni, pel procuratore fiscale, per monsignor relatore, pel difensore.
Dodici sono i giudici, compreso il presidente, e tutti prelati; tutti chiercuti, che giudicano della vita e della morte.
Per gli accusati non v’era posto; ch’essi non comparivano innanzi ai loro giudici, nè la loro voce si udiva nella sala del tribunale.
Il giudice processante Marini aveva fatta stampare e distribuire ai giudici la sua relazione del processo, la quale doveva servir di base alla sentenza; perchè i giudici non isvolgono mai le carte processuali, e si rimettono in tutto alla relazione del processante.
La relazione di Marini era riuscita un capo d’opera di perfidia e di astuzia. Nel compilarla egli si era mantenuto fedele al sistema, che gli vedemmo tenere nella istruzione del processo. Due fini principali gli erano stati imposti, e a questi aveva diretto tutto il suo lavoro. Egli doveva dimostrare queste due cose: che il movimento della insurrezione romana non fu opera dei cittadini di Roma, ma fu importato dal di fuori, e che gl’imputati non erano stati spinti nei loro atti dall’idea patriottica, ma sibbene da un vile interesse. Monti e Tognetti non solamente dovevano essere uccisi, dovevano anche essere infamati!
Tale fu la direzione che Marini diede alla sua relazione processuale, contorcendo i fatti e ravvolgendoli in ambagi cavillose.
Non tardò il processante a ricevere i rallegramenti dei monsignori della Sacra Consulta, e una ricompensa più gradita, che fu una croce dell’ordine Piano, che lo elevava al grado di cavaliere.
Tronfio dei novelli onori, e colla sua bella croce sul petto, Marini si aggirava nelle anticamere del Supremo Tribunale. Ad ogni monsignore che entrava, egli accorreva a baciare la mano, e ne riceveva una stretta, un sorriso, una benigna parola, che lo facevano andare in visibilio.
Quando fu la volta di monsignor Pagni, questi strinse la mano a Marini più a lungo degli altri, e:
— Bravo! gli disse. Bravo, signor cavaliere! Ho letta la vostra relazione e posso assicurarvi che è un bel lavoro. Ve ne faccio i miei rallegramenti.
— Sono troppo fortunato, se l’opera mia ha incontrato l’approvazione dell’eccellenza vostra reverendissima, rispose Marini con un inchino.
― Sì, la mia piena approvazione, riprese monsignore. Ed io farò in modo che il sovrano favore non si limiti alla croce che vedo brillare sul vostro petto.
— E di cui sono riconoscentissimo a Sua Santità, e anche all’eccellenza vostra reverendissima, che colla sua potentissima protezione....
— Un posto di assessore di polizia è appunto vacante, e forse...
— Direte a quei signori della Sacra Consulta, che auguro loro un buon sonno! — Pag 110.
— Che? potrei forse ottenerlo! Ah eccellenza!
— Facciamo prima di compir l’opera, e poi verranno le ricompense. Anche noi sudiamo sangue per questa causa.
— A vostra eccellenza spetta un guiderdone più elevato. Questo processo diventa la base della cattedra di Pietro. Altro che bajonette e cannoni! processi, vogliono essere, processi e condanne, e condanne di morte.
Monsignore sorrise all’insolita parlantina del giudice processante. La croce dell’ordine piano, e la speranza dell’assessorato l’avevano posto fuori di sè.
— Le condanne di morte! mormorò il prelato a mezza voce, in questa causa non dovrebbero mancare.
Due per lo meno mi sembrano sicure, riprese il cavaliere piano, quelle di Monti e di Tognetti.
— Ah sì! ripigliò monsignore, queste due sono necessarie. Bisogna dare un esempio agli empi rivoluzionari.
— Vendicare i valorosi zuavi.
— E far vedere al sedicente regno d’Italia che non abbiamo paura dei framassoni.
— Dunque le pare, eccellenza, che la mia relazione sia bene diretta a codesto fine?
— È una rete inestricabile, dalla quale non si potranno sciogliere gli accusati: è un documento, che rimarrà a infamia eterna dei nostri nemici.
— E alla maggior gloria del Santo Padre, soggiunse modestamente il cavaliere.
L’avvocato Leoni entrò nella sala, e salutò monsignor Pagni.
— Benvenuto, signor avvocato, disse questi. Vedete che ho mantenuta la promessa che vi feci in casa della principessa Rizzi. A voi è affidata la difesa degli accusati.
— Ho ottenuta la grazia, disse Leoni, e sono quasi pentito di averla impetrata.
— Eh capisco soggiunse Marini, col suo risolino. Riandando il processo, vi siete persuaso anche voi della scelleraggine dei vostri difesi.
― No, rispose con forza l’avvocato, mi sono anzi convinto della loro innocenza!
— Come?
— Sì, della loro innocenza, e cercherò di trasfondere la mia convinzione nell’animo dei giudici. Ciò che mi rende titubante, e quasi smarrito, è la tremenda responsabilità che pesa sopra di me, ed io diffido delle mie deboli forze. Pazienza! io conosco qual’è il mio dovere, e spero coll’aiuto del Signore di compirlo.
— Dal lato nostro, disse monsignor Pagni, in tuono di compunzion religiosa, non bramiamo altro che di poter seguire i miti consigli della difesa. Preghiamo lo Spirito Santo perchè voglia illuminarci colla sua luce.
In quel punto, un usciere si avvicinò a monsignor Pagni, annunziandogli che una vecchia aspettava nella sala delle udienze private, implorando la grazia di parlargli per un momento.
— Sta per incominciare la seduta. Non posso.
Così disse monsignore; poi parve che gli sopravvenisse un pensiero, che gli fece mutare risoluzione. Fe’ cenno all’usciere di ristare; si accomiatò dal giudice processante e dall’avvocato, e si avviò verso la sala delle udienze private.
Una vecchia lo aspettava infatti.
— Avvicinatevi, buona donna, diss’egli, con finta benignità. Chi siete? che cosa volete da me?
— Io sono la madre di Tognetti, monsignore, e voglio giustizia, intendete, giustizia.
— Non vi mancherà, buona donna. Noi siamo qui appunto per rendere giustizia.
— Mio figlio è innocente, monsignore: egli non merita la morte! Eppure ho inteso a dire che la Sacra Consulta vuol condannarlo a morte! Mio figlio è stato arrestato, perchè difendeva un altro, nell’atto che i birri volevano arrestarlo, e quest’altro, monsignore, era Curzio Ventura. Ora perchè Curzio Ventura è salvo, e mio figlio è in procinto di essere condannato a morte? Mio figlio doveva essere liberato; io aveva ottenuto la promessa dalla principessa Rizzi, e per suo mezzo anche la vostra, monsignore. Perchè dunque egli è rimasto in prigione, perchè dev’essere condannato?
Il prelato taceva.
— Il perchè ve lo dirò io, continuò la povera madre furibonda: perchè in vece di mio figlio avete voluto far fuggire Curzio Ventura; perchè Curzio Ventura è vostro figlio!
— Silenzio! gridò monsignor Pagni.
— Sì, vostro figlio! ripete più forte Maria. Per questo avete voluto salvarlo, per questo volete condannare in vece sua il mio Gaetano! Ecco la giustizia che fate voi altri! e vi dite sacerdoti di Dio!
La collera ribolliva nell’interno del prelato, ma il suo volto si manteneva atteggiato alla mansuetudine, e con voce pacifica, ripigliò:
— Voi dunque, buona donna, venite a reclamare contro la salvezza di Curzio Ventura..
— No, diss’ella non m’importa che Curzio sia salvo, ne ho piacere anzi, perchè l’ho amato come un figliuolo, ma il mio Gaetano non dev’essere condannato; non voglio che sia sparso il sangue del mio povero figlio.
— Povera donna! soggiunse ipocritamente il prelato. Io compatisco il vostro dolore di madre; me ne piange il cuore. Ma la giustizia deve avere il suo corso.
— Che dite? gridò la donna infelice... Volete proprio assassinare il mio Gaetano? Ma allora io dirò... forte che tutti sentano...
— Silenzio! esclamò il prelato, prendendola per un braccio.
— Lasciatemi.
Monsignore suonò un campanello.
Si presentò un usciere.
— Le guardie! gridò il prelato.
L’usciere uscì, e dopo un istante entrò coi soldati di guardia. Intanto la mano vigorosa di monsignor Pagni tratteneva la disperata.
— Sappiate tutti... essa urlava, che mio figlio....
— Portate via questa donna; e impeditele di gridare, ordinò monsignore alle guardie.
I soldati si lanciarono sulla povera vecchia; la ridussero all’impotenza e al silenzio; e la trassero via.
L’usciere avvertì il prelato che il Supremo Tribunale si stava raccogliendo nella gran sala.