I misteri del processo Monti e Tognetti/Capitolo XXI
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XXI.
Il giudice processante.
Erano pochi minuti dacchè Lucia Monti aveva lasciato il palazzo di monsignor Pagni quando si presentò nelle anticamere del prelato il giudice processante Marini, chiedendo udienza. Gli fu risposto che monsignore per quella mattina non voleva ricevere nessuno.
Il giudice guardò in aria furbesca il cameriere che gli parlava, mise la mano destra in una saccoccetta del suo panciotto nero, la cavò fuori carica di un bel mezzo scudo d’argento, e con quella strinse la mano del cameriere, dicendogli a mezza voce:
— Galantuomo, fatemi il piacere di dire a sua eccellenza reverendissima che il giudice Marini ha bisogno di parlarle, per un affare urgentissimo, che non ammette proprio dilazione.
— Vossignoria sarà servita all’istante, riprese il cameriere vinto da quei bei modi.
E dopo di essere entrato nelle stanze di monsignore, rientrò spalancando la porta, e dicendo:
― Entri, illustrissimo signor giudice.
— S’accomodi. Che cosa desidera? disse monsignore colla solita aria di protezione, lasciando in piedi Sua Signoria illustrissima, mentre egli se ne stava mezzo sdraiato sulla sua poltrona.
— Domando perdono a vostra eccellenza reverendissima, se riesco importuno in questo momento. Cosi esordi Marini, stando colla schiena curva e il collo piegato sull’omero destro, e tenendo il cappello con ambe le mani sopra la pancia.
— Dica, dica pure quello che ha da dirmi; purchè faccia presto. Questa mattina ho un mondo di cose da sbrigare, e mi piovono le noje.
— Io sono, come vostra eccellenza sa benissimo. l’istruttore del famoso processo.....
— Di lesa maestà.
— In primo grado. Non le dirò le fatiche, i sudori indefessi, le notti vegliate che mi costa questa causa. Io conosco tutta l’importanza della mia missione; non risparmio travagli, non mi arresto innanzi agli ostacoli. E.... posso dire, con qualche orgoglio (e qui accompagnò le sue parole con un risolino modesto) che la mia operosità fu già coronata da un certo successo. Uno dei punti più tenebrosi del processo, mercè le mie cure, è venuto in chiaro; quello che riguarda la mina della caserma Serritori. E su questo punto, eccellenza, sono stato proprio fortunato, perchè mi è riuscito di ottenere da uno dei rei principali la genuina confessione del fatto. Giuseppe Monti ha confessato il delitto ne’ suoi più minuti particolari.
— È dunque vero? interruppe il prelato: quel Monti è uno dei principali delinquenti?
— Eccellenza, sì; ed io mi tengo sicuro, che non potrà andar esente dalla condanna capitale.
Gli occhi di monsignor Pagni mandarono un lampo di gioia selvaggia.
— Però, proseguì il giudice, ad onta de’ miei sforzi pertinaci, non sono riuscito a cavargli di bocca i nomi de’ suoi complici; e le mie cure sono dirette adesso a supplire in qualche modo al suo silenzio. Ho potuto raccogliere de’ gravissimi indizj a carico di altri coinquisiti. Consta, per esempio, per la relazione di un confidente segreto, che Giuseppe Monti fu visto pochi momenti prima della esecuzione del misfatto in compagnia di Gaetano Tognetti, e di un certo Curzio Ventura... che...
Il processante si arrestò a questo punto, guardando in faccia monsignore, e cercando di misurare l’espressione della sua fisonomia per dedurne se dovesse seguitare oppur no.
Il prelato gli volse un’occhiata brusca, dicendo:
— Ebbene?
— Di un certo Curzio Ventura, proseguì il giudice, pel quale vostra eccellenza reverendissima si è degnata di mostrare un particolare interesse.
— E perchè? chiese monsignor Pagni con tal voce tonante, che fece tremare il terribile inquisitore.
— Perchè, rispose questi con voce sommessa e arrestandosi ad ogni parola, come quegli che mette innanzi il piede per tastare il terreno prima di fare un passo: perchè vostra eccellenza reverendissima... si è compiaciuta... di accordare un salvacondotto al nominato Curzio Ven...
— Se, così feci, interruppe il prelato con accento di collera, non fu già perchè io abbia qualche interesse per quel giovane. Mi meraviglio ch’ella, signor giudice, osi solamente supporlo. Se ella avesse più rispetto pe’ suoi superiori, non penserebbe nemmeno che essi possano sacrificare le esigenze della giustizia alle loro particolari affezioni. Se io accordai un salvacondotto a Curzio Ventura, si fu unicamente perchè gl’interessi dello Stato lo esigevano imperiosamente. Capisce? perchè era una suprema necessità che il nome di quell’individuo non figurasse nel processo. Intende? E così facendo, io mi valsi di quella facoltà che mi viene concessa dal mio grado, e dai poteri straordinari che mi competono... ha capito? E mi stupisco, le dico, che il signor giudice processante abbia trovato a ridire su quanto io ho creduto di fare e comandare, me ne stupisco assai!
Durante quella intemerata il povero Marini aveva fatto una pantomina continua di assicurazioni, di proteste, di sottomissioni, e quando monsignore ebbe finito di parlare:
— Ma io, soggiunse, non ho supposto... non ho creduto... ma le pare, eccellenza, che io voglia ardire di sindacare le operazioni di un mio superiore? Ma ciò ch’ella fa è ben fatto; ma ella non deve rendere conto delle sue azioni all’umilissimo suo servitore. E poi, io mi sono espresso male. Capisco bene io ciò che vuol dire. Sì signore, gl’interessi dello Stato esigono.... capisco.... so bene. Ventura è romano; non si deve credere che gli agenti principali della ribellione fossero sudditi del Santo Padre. Dico bene, eccellenza?
E qui si arrestò temendo di cadere un’altra volta in fallo; ma il prelato non rispose, il giudice interpretò il suo silenzio come una tacita approvazione, e continuò:
— Ed è appunto per servire in questo senso agl’interessi dello Stato che io mi sono permesso di venire a disturbare l’eccellenza vostra.
— Che cosa vuol dire? si spieghi.
— Voglio dire, monsignore, che quel tal individuo, quel Curzio Ventura, il cui nome non deve figurare nella sentenza, è stato arrestato ai confini.
— Arrestato ai confini?
— Mentre faceva ritorno nello Stato Pontificio con abiti falsi, e falso passaporto.
— E dove si trova adesso?
— È trattenuto nella caserma dei gendarmi a mia disposizione: prima di farlo tradurre nelle Carceri Nove ho pensato bene d’interpellare l’eccellenza vostra.
— Ella ha fatto benissimo, signor giudice; il farlo rinchiudere nuovamente nelle Carceri Nove sarebbe stato un gravissimo errore.
— È quello che ho detto io medesimo, eccellenza, e per questo sono venuto ad avvertirla.
— Va bene; di questo affare me ne incarico io; vado anzi sul momento a consultarmi con Sua Eminenza il segretario di Stato. Quanto a lei, non se ne dia altro pensiero: il detenuto passi a mia disposizione, ed io penso al rimanente.
— Come comanda vostra eccellenza; sarà obbedita puntualmente.
E così dicendo, Marini s’inchinò per la centesima volta.
Il prelato suonò un campanello, e al servo che si presentò sulla porta, ordinò:
— La mia carrozza.
— Monsignore la riverisco, disse allora il processante, baciando la mano al prelato con un centunesimo inchino.
— La saluto, rispose seccamente monsignore.
Poi, mentre Marini se ne andava, camminando a ritroso come i gamberi, soggiunse:
— Aspetti!
Il giudice si fermò in tronco.
— So ch’ella desidera qualche cosa.
— Oh troppo buono a occuparsi di me, fece il giudice con una smorfia.
— Un avanzamento, una promozione...
— Io terrei paghi i miei voti quando... ma non ardisco sperare...
— Oh, dica pure.
— Quando fossi nominato assessore di polizia.
— Va bene; ne parleremo con sua eminenza.
— Ah monsignore! Ella vorrà degnarsi...
— Conti sulla mia protezione.
— Eccellenza!
Il giudice Marini ritornò a baciare la mano di monsignore coll’entusiasmo della riconoscenza anticipata, poi riprese il suo cammino retrogrado, finchè fu uscito dalla porta del salotto.
In anticamera sorrise al cameriere, che lo aveva introdotto, e nello scendere per le scale si fregò le mani, pensando:
— Ecco un mezzo scudo bene speso. Il posto di assessore questa volta è assicurato.