I misteri del processo Monti e Tognetti/Capitolo XX
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XX.
La rivincita di un prelato.
La desolazione più fiera era entrata nella casetta di Trastevere, dove un giorno aveva regnato la pace e la serena tranquillità di una vita modesta e incolpata. La famiglia di Giuseppe Monti era colpita dalla maggiore fra le disgrazie. Il capo maestro languiva in un carcere durissimo, minacciato da una condanna di morte, soggetto a tutte le privazioni e ai patimenti del prigioniero, e martoriato da quell’angoscia più crudele d’ogn altra d’essere diviso dalle persone tanto care al suo cuore.
Intanto sua moglie, i suoi figli, abbandonati, privi di soccorso, soffrivano l’inopia delle cose più neccessarie, e il tormento più feroce struggeva il cuore della Lucia, il pensiero delle sofferenze di suo marito, e il terrore della sorte che gli soprastava.
Essa era ignara della parte che Monti aveva avuta nella rivolta: ma sinistre voci erano giunte fino a lei, che parlavano di gravi indizi, di prove, di confessioni, di pene estreme, e tremende; e in quella incertezza paurosa quanto fosse straziata l’anima della povera donna, chi ha cuore nel petto può facilmente immaginarlo.
Nei primi giorni essa aveva trovata quella violenta energia, che assiste la donna nei momenti più terribili della vita. Animata da un virile coraggio, si era presentata agli uffici, alle prigioni, aveva parlato ai giudici, ai cancellieri, aveva chiesta udienza a prelati, e cardinali; preci, pianti, denaro, tutto aveva posto in opera per giovare al marito.
Ma quando vide tornar vani tan li sforzi pertinaci; quando vide accolte con fredda indifferenza le sue disperate supplicazioni, e perdersi tutte le sue monete nelle ingorde mani degli uscieri e dei secondini, senza alcun frutto, e ch’essa non poteva nemmeno aver notizia dello stato di suo marito, e del suo destino, e che le era conteso perfino il conforto di vederlo una volta, di mescere con esso il pianto degl’infelici, allora la povera donna sentì lo scuoramento entrarle nel cuore, e venirle meno ogni forza. In quella febbrile attività dei primi giorni si era consumata tutta quanta la sua energia; essa cadde in uno stato terribile di prostrazione.
Frattanto le sue risorse pecuniarie erano mancate, avendo ella consunti tutt’i suoi risparmi in quegli inutili tentativi: e i suoi bambini avevano bisogno di pane. Fu allora che la buona Teresa divenne l’angelo tutelare della famiglia.
Anch’essa aveva un pensiero d’amore che si volgeva dolorosamente alle Carceri Nove; ch’essa era amante e fidanzata del giovane Tognetti; ma all’aspetto di quella immensa sventura, che aveva colpita la sua cugina Lucia, dimenticava gli affanni suoi proprii per dividere le pene atroci della moglie di Monti. E quando il coraggio di questa, giunto all’estremo, diè luogo a un cupo sconforto, essa pensò e provvide ai bisogni della famiglia.
Si diede a lavorare giorno e notte senza riposo, e per quella fatica continua, smagrito il bel corpo, ingiallite le guancie e incavati gli occhi, mutò in breve sembiante, meno avvenente agli sguardi, ma più eletta e divina pel cuore; chè nulla sublima la donna quanto l’esercizio della pietà, la più celeste fra le virtù.
Lucia voleva lavorare anch’essa, ma in quello stato di affralimento a mala pena poteva reggere l’ago, e troppo spesso il pianto le faceva velo agli occhi, ed il dolore le toglieva ogni senso di vita.
Allora la brava Teresa moltiplicava le sue forze, i suoi pensieri; assisteva la desolata, acquietava i bimbi, provvedeva il vitto, e trovava tempo da lavorare per tutti.
Quando Lucia riacquistò un poco di vigore, ricominciò le sue gite. Si recava al cancello delle Carceri Nove supplicando quei cerberi che le lasciassero almeno vedere in lontananza il marito, per assicurarsi ch’esso era in vita; correva di porta in porta dai giudici per impetrare la salvezza del prigioniero, e ritornava sempre più sconsolata.
Un giorno le fu indicato il palazzo di monsignor Pagni, siccome quello d’uno dei membri più potenti della Sacra Consulta, del supremo tribunale, dal quale dipendeva la causa di suo marito. Ed essa, poveretta, salì anche quelle scale, e chiese di monsignore.
Dapprima le fu negato l’ingresso, ma insistè e pianse tanto, che il suo nome fu annunziato al prelato. Subito dopo essa fu introdotta nel salotto elegante, dove monsignore dava udienza ai supplicanti, insultando quasi col suo fasto alla loro miseria.
Monsignor Pagni, vestito colla consueta ricercatezza, in sottana di seta paonazza, stava seduto, in atto di molle riposo, sopra un soffice seggiolone; nè all’aprirsi della porta si volse a guardare chi entrasse. La povera Lucia si avanzò trepidando, e non osava guardare in volto il prelato. Poi si fermò, e rimase in umile atteggiamento, aspettando di essere interrogata ma egli noncurante, non la guardava nemmeno.
Essa allora si accinse a parlare, e alzò gli occhi da terra. Lo vide, appena che riconobbe il prelato, non ostante le mutate vesti e il tempo trascorso. Rabbrividì; avrebbe voluto fuggire, ma il pensiero del marito, la cui vita pendeva forse dalla volontà di quell’uomo, l’arrestò. Si provò di parlare, ma la sua lingua incollata al palato non poteva articolare un accento.
Lucia stava immobile, quasi istupidita: monsignore si degnò finalmente di volgere il capo dalla sua parte; la guardò, la squadrò dalla testa ai piedi, poi disse in tuono di benigna clemenza:
— Che volete, buona donna?
Ella si sforzò allora di pronunciare qualche parola, e riuscì a stento a balbettare:
— Mio marito... si trova... in prigione....
— Chi siete voi? chiese il prelato, mirandola cogli occhi socchiusi come fanno i miopi.
— La moglie... di Giuseppe Monti.
— Ahimè! fece monsignore con una smorfia; mi dispiace per voi, poera donna, ma non so mica come vostro marito potrà cavarsela. Uhm! si tratta di lesa maestà in primo grado. L’ha fatta grossa quel Monti. Voi dunque siete sua moglie!... Avvicinatevi; avete figli?
— Tre, eccellenza.
— Guardate, se un padre di famiglia deve cospirare contro il suo legittimo sovrano!... E voi, non vi siete mai accorta dei raggiri, delle male pratiche di vostro marito?
— No, eccellenza...
Monsignor Pagni fingeva di non riconoscere la moglie del soprastante muratore, e intanto osservava i mutamenti cagionati dal dolore su quella donna. Il volto emaciato dalle angoscie, gli occhi arrossiti dal pianto continuo non erano più tali da suscitare dei desiderj amorosi. Il prelato sorbiva invece la voluttà infernale della vendetta.
Quella donna l’aveva un giorno respinto sdegnosamente: ed egli aveva giurato di vendicarsi. Il giorno del suo trionfo era giunto più presto che non credeva pareva che la cieca fortuna avesse cospirato in suo favore.
Ed ora quella donna orgogliosa, che lo disprezzò, era lì supplicante, paurosa, piangente, ed egli poteva a colpi di spillo ferirla nella parte più sensibile del cuore. Proseguiva dunque lentamente, e studiando con feroce piacere l’effetto delle sue parole sul volto di quella disgraziata:
— Uhm! non so: è una causa grave; potrebbe anche andar bene, ma sarebbe un miracolo del cielo. Quel disgraziato Monti, sopratutto, si trova in una condizione più seria degli altri.
Poi, dopo una pausa atroce:
— Non so davvero se gli riuscirà di salvare la pelle!
— Ah!
Lucia diede un grido fortissimo; poi, diritta, irrigidita, colla bocca anelante, coi grandi occhi neri aperti, spalancati, colle braccia protese in avanti, mormorò con voce soffocata:
— Che dite, eccellenza? Mio marito... si trova in pericolo di...
— Di andare alla morte... Ma, Dio buono, sicuro; credete che si possa impunemente ribellarsi al proprio sovrano, al padre amoroso dei fedeli?
— Ah Dio! credo di divenir pazza... non lo dica, eccellenza... pensi che abbiamo tre figliuoli... tre fanciulletti innocenti... che non hanno colpa di nulla...
— E che cosa ci posso fare io?... Egli doveva pensarci, prima di mischiarsi nelle cospirazioni della setta. Adesso l’ha fatta: la pagherà.
— Dio mio!
Lucia si mise le mani congiunte sul seno, dove aveva sentita una fitta acutissima che le toglieva il respiro, sentì piegarsi le gambe, e stette lì lì per cadere.
Ma in quel momento il suo sguardo si volse sulla faccia del prelato. Essa lo vide guardarla con un sogghigno beffardo, nel quale stava dipinta tutta la diabolica gioia di un uomo che si beava all’aspetto di tanta sventura. Lucia comprese la crudeltà di quello scellerato, e non volle dargli un ultimo piacere coll’aspetto della sua debolezza. Richiamò gli spiriti attivi dell’anima con un supremo sforzo di energia. Indietreggiò come inorridita, si coperse la faccia colle mani, e fuggì correndo da quella casa abbominata.