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monti e tognetti | 67 |
Anche nella prigione delle Carceri Nove si trovarono adunque i patrioti agglomerati coi rei di delitti comuni; e non fu raro il caso in cui il giovi. netto carcerato per semplice sospetto di patriotismo si trovò rinchiuso nella medesima cella con un assassino già condannato a morte, che aspettava di giorno in giorno l’ora del suo supplizio.
Un’iscrizione sulla porta di quella prigione ci ammonisce che la clemenza fa uno dei motivi che indussero Papa Innocenzo a far costruire le Carceri Nove. L’infelice che vi si trova detenuto può farsi un’idea esatta della clemenza dei papi.
I carcerati, e specialmente i politici, vi sono esposti a durissimi trattamenti. O accalcati alla rinfusa in fetidi cameroni, o isolati in celle umide e sotterranee, mancano d’aria pura e di luce. La nequizia dei preposti rese nulle e disusate anche le regole dell’igiene che presiedettero alla fondazione di quel carcere, duro ma non insalubre nella sua origine.
I detenuti delle Carceri Nove hanno oggigiorno per letto poca e sucida paglia il loro vitto è scarso e malsano; sono sottoposti al digiuno e alla sferza per colpe leggere e spesso immaginarie!
Ma ciò che rende più orribile quel luogo infernale è la tortura morale, alla quale sono spesso soggetti quei detenuti per la durezza dei guardiani, degni interpreti della efferatezza dei governanti. Non solo manca agli sventurati ogni parola di conforto, ogni ajuto di benigno consiglio, ma vien loro negata sovente quella consolazione che i congiunti o gli amici con gentile pietà cercano di inviare oltre le mura del carcere. Avviene sovente che ai prigionieri si lascia ignorare che i parenti furono a chiedere loro novelle, loro si contende un semplice ricordo, un saluto: cosicchè alle loro pene si aggiunge il martirio dell’incertezza: sia che temano sulla sorte dei loro cari, sia che li angosci il dubbio di essere nella loro miseria obliati.
Un’altra pena atroce di quella crudele fra le carceri preventive si è lo spionaggio, la mala pianta che nell’interno delle prigioni pontificie trova salde e vigorose radici. Il sollievo più caro degli infelici è il racconto dei proprii casi, il compianto delle comuni sventure. Ebbene, anche quest’ultimo conforto è conteso ai detenuti politici nelle prigioni pontificie. Il compagno di carcere, che in sembiante di amico vi si stringe d’intorno, che con modi affettuosi vi sforza a parlare, è quasi sempre uno scellerato spione, che la polizia papale ha destinato al soggiorno delle carceri, un miserabile che, abusando della vostra sventura, compra colla nefanda delazione l’impunità di altri atroci delitti.
E, incredibile a dirsi, le relazioni di quegli ignobili e degradati strumenti formano spesso la parte sostanziale dei processi politici di Roma. Le confidenze strappate sotto il velo dell’amicizia, della compassione dai compagni di carcere, divengono il sostegno più saldo dell’accusa.
E come no? La forma inquisitoria del processo, abolita oggi da ogni