I misteri del processo Monti e Tognetti/Capitolo XI

XI. L'osteria della sora Rosa

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XI.

L’osteria della Sora Rosa.


Ai bevitori del buon vino dei Castelli era nota una taverna, situata in un vicolo a piedi del Monte Quirinale, a poca distanza della fontana di Trevi. Era l’osteria della Sora Rosa.

La Sora Rosa, l’ostessa, stava imperturbata al suo banco nei giorni di sommossa come in quelli di reazione, o che si dovesse nella sua bettola organizzare una rivolta, od operare un arresto; era amica dei liberali come delle spie, purchè suoi avventori, e purchè pagassero: era un’immagine di quelle antiche deità che i pagani fingevano indifferenti ai casi umani, immutabili per volger di tempi e di eventi.

Era la sera del 30 ottobre; del giorno stesso in cui i Francesi erano entrati in Roma, troncando ogni speranza di ulteriori tentativi, rendendo vani tutti gli eroici sforzi tentati fino allora. L’osteria della Sora Rosa presentava un aspetto signolare. Da un lato stavano seduti alcuni uomini del popolo, dall’aspetto torbido e cupo. Giuocavano e bevevano, eppure sembrava che li occupassero altri pensieri che non erano quelli del vino e delle carte.

A un altro tavolo stavano a cioncare allegramente alcuni zuavi, un tedesco, uno spagnuolo, un francese, bella miscela di fedeli credenti!

Erano lieti; nei giorni passati avevano sacrificate tante vite di scomunicati rivoluzionari, alla maggior gloria del Santo Padre, che già credevano di vedere schiuso sulle loro teste un lembo di paradiso.

Erano lieti avevano per tanti giorni, ricevuto un lauto soprassoldo, che le loro tasche riboccavano di monete d’argento, portanti la effigie del benedetto pontefice e re.

Erano lieti, per Dio! Non erano forse sopraggiunti i Francesi a [p. 48 modifica]sorreggere la loro fortuna vacillante, a ricacciare indietro i garibaldini colla furia dei fucili Chassepots?

Epperciò esalavano la loro letizia in ogni maniera possibile. Bevevano, canticchiavano, cozzavano insieme i bicchieri, facevano brindisi al Papa e alla Francia, al buon vino e alle monete d’argento, alla morte degli eretici romani, e alla prosperità della chiesa cattolica.

E quand’ebbero cioncato e inneggiato a loro bell’agio, si alzarono traballando, si presero a braccetto, e se ne andarono cantarellando nelle loro tre lingue un coro degno dell’antica Babele.

Quando furono usciti dalla osteria, un giovane che giuocava gettò le carte rabbiosamente sul tavolo, e sclamò:

— Hanno ragione di cantare questi maledetti, hanno ragione! Uh! se non tornavano i Francesi, dàlli dàlli, avremmo poi finito con cacciarli tutti quanti nel Tevere.

Vicino a quel giovane stava un uomo di mezza età, di grossa corporatura, di fisonomia sinistra vestito con una giubba di velluto e con un cappello di feltro, calato sulla fronte.

Costui diede col gomito sul braccio a quegli che aveva parlato, e gli susurrò a mezza voce:

— Non vi fate sentire a dir queste cose, potrebbe succedervi qualche male.

— Io, caro mio, riprese l’altro, parlo come me la sento. Il cuore ce l’ho sulle labbra, io.

— Male, amico, male! A questi tempi il cuore bisogna tenerlo serrato a doppio catenaccio, come faccio io. Vi voglio bene, e per questo vi dò un consiglio di amico. Ci sono tante spie in giro!

— Accidenti a loro! a me non importa niente. Mi mandino anche in galera ci starò per poco! Oh sì!

Un nuovo personaggio entrò nell’osteria.

Era un uomo di alta statura, tutto avvolto in un mantello, che gli celava parte del volto.

Quello sconosciuto passò vicino al tavolo, dove stavano i giuocatori; si arrestò per un istante vicino a quell’uomo di bieco aspetto, che aveva raccomandata la prudenza al suo compagno; gli battè sulla spalla poi essendosi quello rivoltato a guardarlo, senza aprir bocca, gli fe cenno di seguirlo indi andò a sedersi in una tavola isolata e lontana da quella dove si giuocava.

L’uomo lo seguì vicino a lui, poi disse:

— Ebbene? Che volete, compare?....

Si arrestò; guardò meglio l’incognito, lo riconobbe, e soggiunse rispetosamente:

— Lei! eccellenza!....

Ma l’altro lo interruppe, facendogli segno di tacere; poi chiamò il garzone dell’osteria, e fece portare un boccale. [p. 49 modifica]

— Che cosa fai qui, mascalzone? chiese l’uomo che veniva chiamato eccellenza, mentre il suo interlocutore, dopo aver riempiuto il bicchiere, lo vuotava in un fiate.

— Ebbene, siete in arresto! grido il commissario. E nello stesso tempo gli afferrò le giubba sul petto. — Pag. 54.

— Io farei la medesima domanda a lei, rispose questi con quel tuono mezzo officioso, mezzo insolente, che assume qualche volta la bassa gente quando il superiore si pone al suo livello.

— Rispondi a me. Che cosa fai qui? [p. 50 modifica]

— Sto qui, così... per passare un’ora... per divertirmi.

— Tu menti, mio vecchio Giano.

— Come vuole vostra eccellen...

— Taci!

Intanto l’uomo misterioso non aveva più la faccia coperta dal mantello, e Giano poteva liberamente riconoscere nelle sue fosche sembianze il principe Rizzi.

Era proprio desso, ch’era venuto incognito e solo nell’osteria della Sora Rosa: ora vedremo a qual fine.

— Tu menti, replicò il principe. Vuoi che ti dica perchè sei qui?

— Avrei piacere di saperlo, disse Giano.

— Prima di tutto, tu aspetti una persona.

— Questo è vero. Avanti.

— Questa persona è un giovane chiamato Curzio, un settario, uno dei capi della rivoluzione.

— Questo poi! fece Giano con una smorfia. Non sono capace!

— Zitto là! disse bruscamente il principe, e proseguì: Tu l’aspetti per farlo fuggire. Hai già pronti i cavalli che devono portarlo fuori di Roma, ed anche oltre il confine. Tu tieni lì in saccoccia...

— Che cosa? i cavalli?

— Il falso passaporto che deve servire per la fuga di quel giovane.

— Ma eccellenza per chi mi prende?

— Ti prendo appunto per quello che sei. Tu tieni anche in saccoccia la somma di duecento scudi romani, dei quali cento devono servire per tuo compenso, e gli altri cento per le spese della fuga.

— Vedo che ella è informata proprio benino, e io non persisterò a negare purchè mi dica come mai ha saputo...

— Io so inoltre, che la persona la quale ti ha dato quei duecento scudi insieme all’incarico di questa impresa, non è altri che la mia signora moglie, la principessa Rizzi: essa, che vuol salvare ad ogni costo il suo amante Curzio. Nega adesso, se hai coraggio.

— Io non nego nulla; vorrei solamente sapere come mai vostra eccelleza...

— Zitto!.. ora tu hai due strade da scegliere: una è quella di mettere in esecuzione il tuo progetto di fuga; in tal caso sarai arrestato insieme a Curzio, tradotto alle Carceri Nove, e posto sotto processo a disposizione della Sacra Consulta.

— Quella strada non mi garba affatto. Sentiamo l’altra.

— L’altra consiste nel lasciar le cose come stanno, e non opporsi all’arresto di Curzio. In tal caso egli solo sarà carcerato, e tu ti godrai in santa pace l’intera somma dei duecento scudi. Scegli fra le Carceri Nove e i duecento scudi. [p. 51 modifica]

— Scelgo i duecento scudi.

— Sta bene. Ascolta dunque come devi comportarti: fra poco verrà in questa osteria Curzio, secondo quanto ha concertato con te. Tu devi tenerlo a bada, dicendogli di aspettare qui in tua compagnia la persona con cui dovete partire. Egli si tratterà qui senza sospetto, finchè verrò la forza ad arrestarlo. Tu allora ti trarrai da parte, e lascerai fare. Va bene così?

— Benissimo, rispose Giano. E aggiunse fra sè: Eh, per essere un principe la sa lunga in queste cose.

Poi, dopo un istante di silenzio, riprese:

— C’è una sola difficoltà.

— Sentiamo.

— Io devo render conto dell’affare alla signora principessa...

— La signora principessa deve credere che la commissione è stata eseguita: tu dunque le dirai che Curzio ha passato felicemente il confine e si trova in salvo.

— Ma se poi viene a sapere che invece si trova in prigione?

— Imbecille! i processi della Sacra Consulta si conducono nel più stretto segreto, e nessuno conosce il nome dai carcerati. La principessa non saprà mai nulla.

Ciò detto, il principe si alzò in piedi, poi disse a Giano:

— Dunque giudizio! Pensa che se tu fossi arrestato saresti tradotto...

— Alle Carceri Nove.

— Pensa che dalle Carceri Nove qualche volta si passa...

— Sulla piazza dei Cerchi.

— E sulla piazza dei Cerchi...

— Zaf! esclamò Giano, facendo il gesto di un rapido taglio.

— Mi hai inteso. Prudenza e fedeltà! aggiunse il principe pianissimo.

Poi gettò una moneta sul tavolo, si avvolse nel mantello, e uscì dalla taverna.

Giano ritornò al tavolo dei giocatori, canterellando:

— La-la-laral-là! la-la-laral-là!

— Ohè! mastro Giano! gli chiese la Sora Rosa dal suo banco. Chi è, se è lecito, quell’omaccio nero nero, che ha parlato fino adesso con voi? mi ha tutta l’aria d’un beccamorti.

— Altro che beccamorti! disse Giano. Quello è nientemeno... sapete chi è?

— Chi mai?

— Un venditore di cerotti pei calli. Sì, proprio. Un uomo che ha l’abilità di farvi camminare dritta come un fuso. Mastro Matteo, eccomi qua ripigliamo la nostra partita: a me le carte.

Un uomo entrò nell’osteria, e andò a sedersi inosservato in un angolo oscuro. [p. 52 modifica]

Era Giuseppe Monti. Egli era sfuggito quasi per miracolo alle carcerazioni di quei giorni. Niuno aveva sospettato di lui, nessuna spia lo aveva denunziato.

Ora che tutto era finito, egli avrebbe voluto partire da Roma senza ritardo. A lui solo non sarebbe riuscita difficile la fuga; ma egli non poteva lasciare esposta alle crudeli rappresaglie del Governo pontificio la sua innocente famiglia.

Troppo spesso i preti governanti sogliono vendicarsi dalla salvezza dei patrioti sui loro congiunti.

Domandare un passaporto in quei giorni sarebbe stato lo stesso che svegliare un sospetto, che poteva riuscire fatale.

Egli aveva dunque deciso di aspettare ancora, a meno che non si fosse presentato un modo di scampo per tutta la sua famiglia.

In quella sera Curzio gli aveva dato appuntamento nell’osteria della Sora Rosa.