I misteri del processo Monti e Tognetti/Capitolo XII
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XII.
L’arresto.
Non era molto che Monti aspettava, quando Curzio giunse nell’osteria.
Entrato appena il giovane scultore si assicurò con un’occhiata di tutte le persone che erano là dentro.
Si avvicinò a Monti, e gli disse nell’orecchio:
— Aspetta.
Poi passò dall’altra parte della stanza, e fattosi accanto al tavolo dei giuocatori, chiamò Giano.
— Lascio le carte per un momento, disse questi a’ suoi compagni. Aspettatemi.
Quindi si alzò in piedi, e si ridusse con Curzio in un canto della taverna.
— È tutto all’ordine? chiese il giovane.
— Tutto, rispose Giano.
— Il passaporto?
— L’ho in saccoccia.
— I danari?
— Anche.
— La carrozza?
— Anche... cioè voglio dire che la carrozza ci aspetta.
— Dove?
— Non so...
— Come, non sai?
— Il vetturino deve venire a prenderci qui.
— A prenderci qui?... Ma è un uomo sicuro?
— Come me stesso. È un mio compare.
— Dunque, non abbiamo niente a temere?
— Nientissimo.
— Me ne accerti?
— Quanto è vero che io sono un galantuomo.
— E a che ora deve venire questo tuo vetturino?
— Alle otto.
— Sono già suonate.
— Ebbene sarà qui a momenti.
Curzio rimase pensoso, poi disse:
— Senti, Giano, prima di partire vorrei... se fosse possibile...
— Che cosa?
— Rivedere mia... la principessa.
— Manca il tempo.
— Avrei voluto darle un ultimo saluto.
— Glielo darò per voi. Non vi movete di qui. Sarà qui a momenti.
— Chi?
— Non ve lo detto? il vetturino, il mio compare. Aspettiamo, non abbiamo che da aspettare. Intanto, così, per non destare sospetti, io vado a finire la mia partita.
E infatti, Giano tornò a sedere al tavolo di prima, e a giuocare tranquillamente.
Un altro uomo entrò nell’osteria e si avvicinò a Curzio: era Gaetano Tognetti. Anch’esso aveva ricevuto dallo scultore un appuntamento in quel luogo.
Curzio lo prese per mano, e lo condusse al tavolo dove l’aspettava Monti.
— Amici, disse allora il giovane artista, la nostra partita per ora è perduta. La ricomincieremo forse in breve, ma questa volta abbiamo perduto. In questo momento il trionfo è pei preti e pei loro spioni. Bisogna partire. Tutto è concertato per la mia partenza, ma mi piangeva il cuore di lasciar voi, miei fratelli, nel pericolo, che ad ogni ora che passa pende sui vostri capi. Una persona amica pensò già a provvedermi di passaporto e di denaro. Or bene, io mi sono procurato un foglio di via, che può servire per voi due. Seguitemi, amici miei, e fra poche ore avremo varcato il confine, saremo in salvo.
— Amico mio, ti ringrazio, disse Monti, ma io non posso dividermi della mia famiglia: non posso lasciare mia moglie e i miei figli soli, in preda alla vendetta dei preti, la più implacabile delle vendette!
— E tu, Tognetti?
— Io, rispose Tognetti, non posso abbandonare mia madre. La mia fuga scoprirebbe che io ebbi parte nella congiura e questi cani, non potendomi avere in loro potere, non tarderebbero un istante a vendicarsi sulla povera vecchia, cacciandola in prigione.
Curzio rimase pensoso.
— Dunque, come farete? chiese dopo un momento di silenzio.
— Aspetteremo, rispose Monti, che si presenti il modo di salvare con noi anche la famiglia.
— Ma voi rimanete esposti ad un pericolo tremendo! Se vengono a scoprirvi, siete perduti.
— Piuttosto morire, disse Tognetti, che mancare al mio dovere di figlio.
— Nel giorno in cui ci siamo posti nella congiura abbiamo rinunziato alla vita, aggiunse Monti.
— Ottimi amici! soggiunse Curzio. Voi siete migliori di me.
— Non è vero. Tu non hai famiglia, sei libero di partire. Non sei astretto dai doveri che incombono su noi.
— E poi, la polizia conosce certamente il tuo nome come quello di un Capo-sezione; mentre noi oscuri popolani non saremo sospettati da nessuno.
A questo punto la porta dell’osteria si aperse.
Un uomo dell’aspetto sinistro comparve.
— Oh che brutta figura! disse uno dei giuocatori.
— Dio ne scampi, disse piano un altro. È un lavorante di manichini.
Quell’uomo che era un commissario di polizia, entrò scambiando un segno impercettibile con Giano.
Sulla porta semichiusa si mostrarono le faccie laide dei birri papali.
Ognuno comprese che cosa stava per accadere, e nell’osteria non s’intese un respiro.
Il commissario mosse diffilato alla tavola dove stavano i tre amici, si volse a Curzio, e gli chiese con tuono burbero:
— Siete voi il signor Curzio Ventura?
— Son io, rispose lo scultore.
— Ebbene, siete in arresto, gridò il commissario. E nello stesso tempo gli afferrò la giubba sul petto.
Monti e Tognetti si alzarono, e cacciando indietro lo sgherro, lo costrinsero a lasciare l’amico.
Alla vista di quella lotta i birri ch’erano rimasti fino allora sull’ingresso entrarono tumultuosamente nell’osteria della Sora Rosa.
Erano otto o dieci manigoldi vestiti in borghese, ma muniti di stili e pistole.
In un attimo si scagliarono addosso ai tre amici.
— Legateli tutti e tre, gridò il commissario.
— Indietro! esclamò Curzio.
E facendosi innanzi colle robuste braccia, atterrò due birri, che si erano avvicinati per impadronirsi di lui.
Al primo cominciare del tafferuglio, Giano aveva imboccata la porta della taverna, e se l’era svignata.
Gli altri giuocatori balzarono in piedi, e si diedero a lottare coi birri.
È indescrivibile lo scompiglio che si produsse nell’osteria. Volavano i bicchieri, le bottiglie: le panche venivano inalberate a modo di bastoni, le tavole erano rovesciate.
I poliziotti spararono alcuni colpi di pistola, che in quella confusione non ferirono alcuno. La stanza si riempì di fumo, e si accrebbe il serra serra, dei lottanti.
Sola la Sora Rosa in mezzo a quell’immenso schiamazzo se ne stava seduta al suo banco, imperturbabile, con una specie di olimpica serenità.
Fra la nebbia del fumo, e il disordine di quel parapiglia, poteva riuscire ai tre amici di guadagnare la porta, e fuggire. E già divisavano di farlo, e già riusciva loro di metere il piede sulla soglia, quando la via apparve sbarrata da una compagnia di gendarmi che si avanzava colla bajonetta in canna.
La resistenza non fu più possibile. Monti, Tognetti e Curzio e i loro difensori dell’osteria furono legati, ammanettati, e trascinati alle Carceri Nove.