Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
52 | i processi di roma |
Era Giuseppe Monti. Egli era sfuggito quasi per miracolo alle carcerazioni di quei giorni. Niuno aveva sospettato di lui, nessuna spia lo aveva denunziato.
Ora che tutto era finito, egli avrebbe voluto partire da Roma senza ritardo. A lui solo non sarebbe riuscita difficile la fuga; ma egli non poteva lasciare esposta alle crudeli rappresaglie del Governo pontificio la sua innocente famiglia.
Troppo spesso i preti governanti sogliono vendicarsi dalla salvezza dei patrioti sui loro congiunti.
Domandare un passaporto in quei giorni sarebbe stato lo stesso che svegliare un sospetto, che poteva riuscire fatale.
Egli aveva dunque deciso di aspettare ancora, a meno che non si fosse presentato un modo di scampo per tutta la sua famiglia.
In quella sera Curzio gli aveva dato appuntamento nell’osteria della Sora Rosa.
XII.
L’arresto.
Non era molto che Monti aspettava, quando Curzio giunse nell’osteria.
Entrato appena il giovane scultore si assicurò con un’occhiata di tutte le persone che erano là dentro.
Si avvicinò a Monti, e gli disse nell’orecchio:
— Aspetta.
Poi passò dall’altra parte della stanza, e fattosi accanto al tavolo dei giuocatori, chiamò Giano.
— Lascio le carte per un momento, disse questi a’ suoi compagni. Aspettatemi.
Quindi si alzò in piedi, e si ridusse con Curzio in un canto della taverna.
— È tutto all’ordine? chiese il giovane.
— Tutto, rispose Giano.
— Il passaporto?
— L’ho in saccoccia.
— I danari?
— Anche.
— La carrozza?
— Anche... cioè voglio dire che la carrozza ci aspetta.
— Dove?
— Non so...
— Come, non sai?