I Persiani (Eschilo-Romagnoli)/Terzo episodio
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LAMENTAZIONE FUNEBRE
La regina versa via via i varî libami sopra la tomba di Dario. I vegliardi accompagnano il sacrificio col loro canto, alternato nell’epodo, i due semicori si fondono. |
corifeo
Orsú via, venerabi li Dèmoni
delle tenebre, Ermète, e tu, Gea,
e tu, Re degli estinti, inviateci
alla luce lo spirto di Dario:
ché se v’ha medicina dei mali,
indicarla egli solo potrebbe.
coro
Strofe I
Ascolti, o beatissimo
Sire, o pari ai Celesti,
me, che con persi limpidi
accenti, alzo dei mesti
lagni i lugubri modi?
Io griderò la mia doglia miserrima:
tu di sotterra m’odi?
Antistrofe I
O terra, o degli spiriti
Dei condottieri, il duce
che in Susa nacque, il nobile
Re, mandate alla luce
dal sotterraneo regno:
mandate il prence onde mai non coprirono
le zolle altro piú degno!
Strofe II
Diletto l’uomo, e pur diletto il tumulo
dov’è la cara sua virtú racchiusa.
Aidonèo, Aidonèo1, fa’ tu che libero
l’unico re di Susa,
salga alla luce, Dario, Dario. Ahimè!
Antistrofe II
Ch’ei non condusse mai dei Persi il popolo
al guerresco sterminio, alla sconfítta:
esso fu detto, e fu Divin consiglio:
ché per la via diritta
sempre guidar seppe sue genti. Ahimè!
Strofe III
O nostro antico principe,
principe nostro, appari.
giungi, soccorri a me.
Sovra l’orlo del tumulo
poggino i tuoi calzari
di croco: fulga chiara
la tua regal tara
o innocuo padre, o Dario, accorri! Ahimè!
Antistrofe III
Odi i novelli spasimi,
odi il recente duolo:
móstrati, o Re dei Re!
D’una stigia caligine
su noi si addensa il volo:
tutti caddero spenti
i giovani fiorenti:
o innocuo padre, o Dario, accorri! Ahimè!
Epodo
Ahimè, ahimè,
tu pel cui fine tanto
versâr gli amici pianto,
nostro Re, nostro Re,
perché mai questo duplice
error sovra il tuo regno ora s’abbatte!
Ahi, le nostre triremi! Ahimè, ridotta
a nulla è omai la flotta!
Sopra la tomba appare l'ombra di Dario. I vegliardi cadono
ginocchioni al suolo.
dario
O voi fidi tra i fidi, o voi, compagni
della mia gioventú, persi vegliardi,
da qual travaglio afflitta è la città?
Pianti odo, e palme ai sen percosse, e al suolo
batter di piedi; e presso alla mia tomba
veggo, e temo, la sposa, i cui libami
graditi accolsi. E voi, presso il mio tumulo
piangete, e me chiamate ad alte grida
evocatrici di defunti. Facile
non è l’uscita: assai piú pronti a prendere,
che a rilasciare i Numi inferni sono.
Pure, prevalsi, ed eccomi. Ma spàcciati
ora, che a me l’indugio non sia biasimo.
Qual nuovo male s’aggravò sui Persi?
corifeo
Parlare al tuo cospetto
non ardisco, né in te lo sguardo figgere,
per l’antico rispetto.
dario
Or poiché di sotto terra sono accorso ai tuoi lamenti,
non mi far lunghe parole, ma favella brevi accenti:
il discorso tuo sia pieno — né l’ossequio a te sia freno.
corifeo
Parlar non m’assecuro.
dire dinanzi a te quanto, se l’odano,
troppo agli amici è duro.
dario
Poi che tanto può l’antica reverenza entro il tuo petto,
parla tu, nobil vegliarda, tu, compagna del mio letto.
Lascia i pianti, lascia gli ululi, parla chiaro. Questi mali
saran quelli a cui soggetti sono pur tutti i mortali:
ché per gli uomini, allorquando la lor vita troppo dura,
e dal mare e dalla terra sorge piú d’una sventura.
atossa
Tra i mortali o beatissimo, sin che i rai del sol vedesti,
come fosti invidiato, quando al pari dei Celesti
t’adorò la Persia! E anche ora ben t’invidio, che al tuo fine
giunto sei prima di scorgere questo abisso di rovine.
Un discorso molto breve basta, o Dario, a dirti il tutto:
il poter dei Persiani potrai dir che sia distrutto.
dario
Come? Fu flagel di peste? Fu di popolo sommossa?
atossa
No: ma tutta contro Atene si fiaccò la nostra possa.
dario
E qual mai dei miei figliuoli, mosse, dimmi, a questa guerra?
atossa
Serse fu, l’impetüoso, che vuotò d’Asia ogni terra.
dario
E per terra o su navigli prova tal tentò lo stolto?
atossa
E per terra e in mare: doppio dell’esercito fu il volto.
dario
Come dunque a tanto esercito di pedoni il passo apria?
atossa
Cinse un giogo, all’Ellesponto, di congegni, e aprí la via.
dario
E tanta opera ardí compiere? Il gran Bosforo rinchiuse?
atossa
Tanto fece: senza dubbio tal pensiero un Dio gl’infuse.
dario
Ahi! Possente giunse un Dèmone che gli tolse l’intelletto.
atossa
Quale male suscitasse, puoi vederlo dall’effetto.
dario
E che cosa avvenne adesso che il tuo pianto provocò?
atossa
La rovina della flotta l’altre schiere sterminò.
dario
Sterminata sotto l’aste fu cosí tutta la gente?
atossa
Tanto, ch’or, deserta d’uomini, piange Susa amaramente.
dario
Che? L’esercito è perduto, nostro ausilio e baluardo?
atossa
Tutto il popolo dei Battrî sterminato: e niun vegliardo.
dario
Ahi!, tapino! E tanta dunque gioventú per lui si perse!
atossa
Dicon poi che, derelitto, con pochi altri, il solo Serse...
dario
Morto anch’egli? Come e dove? O trovò scampo da morte?
atossa
Giunse al ponte che congiunge le due sponde; e fu gran sorte.
dario
È ben certo questo? E salvo fu, giungendo al nostro lido?
atossa
Bene esplicito, e contrasto non si dà, ne corre il grido.
dario
Come presto degli oracoli giunse, ahimè!, l’esito! Il Dio
il successo dei responsi suscitò sul fígliuol mio!
Io speravo che i Celesti ne tardassero l’evento;
ma se tu premi, lo stesso Nume affretta il compimento.
Ecco, un fonte di malanni sugli amici ora s’è aperto:
Il figliuol mio lo dischiuse, baldanzoso ed inesperto,
che pensò dell’Ellesponto come un servo il sacro fiume
porre in vincoli, e del Bosforo le fluenti sacre al Nume;
e stringendo ferrei ceppi sopra il tramite marino,
lo mutò, sí che all’esercito grande aprisse ampio cammino.
Ei mortale, soverchiare s’avvisò — stolto consiglio! —
tutti i Numi, e fin Posídone. Di’ se stolto fu mio figlio!
Deh!, la pena ond’io raccolsi tanti beni, non profitti
ad estranie genti, al primo che le mani su vi gitti!
atossa
A far ciò l’ardente Serse spinto avean gli amici tristi.
Gli diceano che col ferro pei tuoi figli grandi acquisti
tu facesti: e ch’egli, invece, per negghienza, entro le mura
fa sua guerra, e il ben paterno d’impinguare non si cura.
Tal rampogna udendo spesso dai malvagi, divisò
tale impresa: le sue schiere contro l’Ellade scagliò.
dario
E un’impresa compiuta egli ha grandissima,
memorabil mai sempre, e che, piombando
su la città di Susa, la vuotò
come niuna altra mai, da quando Giove
concesse a un uomo questo onor, ch’ei solo
con lo scettro regal tutta guidasse
l’Asia di greggi attrice. Il primo duce
delle genti fu Medo. Il figliuol suo
compie’ secondo questo ufficio: e senno
reggea la baria del suo cuore. Terzo
Ciro beato, che agli amici tutti
largí pace, regnando, e il popol Frigio
e il Lidio conquistò, la Ionia tutta
con la forza cacciò: ché senno aveva,
né l’odïava il Nume. Quarto Ciro
diresse poi le genti; e Mardo, quinto,
onta alla patria ed agli aviti seggi.
Con un inganno lui nella sua reggia
spense Artaferne il buono e i suoi compagni
nella congiura. Fu Marafi sesto.
e settimo Artaferne. Io poi, la sorte
a cui miravo ottenni, e molte gesta
compiei con grandi schiere. Oh! ma non mai
in tal rovina la città disfeci.
Ma Serse, il figlio mio giovane, pensa
giovanilmente, ed i consigli miei
non ricorda. Poiché voi ben sapete,
vecchi compagni miei: di quanti avemmo
questo regio poter, nessuno reo
potrà sembrare mai di simil danno!
corifeo
Dario, a qual fine il tuo discorso volgi?
Come potrà, dopo tante sciagure,
esser felice il popolo dei Persi?
dario
Piú non movendo ad oste contro l’Ellade,
fosse pure piú fitto il nostro esercito:
la terra stessa al fianco lor combatte.
corifeo
Come l’intendi? In che modo combatte?
dario
I temerarî con la fame stermina.
corifeo
Schiere bene ordinate aduneremo!
dario
Neppur le schiere in Ellade rimaste
troveranno il ritorno e la salvezza.
corifeo
Che? Dell’Europa non varcò già tutto
dei barbari lo stuolo il passo d’Elle?
dario
Pochi fra molti, se, badando ai fatti
compiuti già, prestar fede conviene
ai responsi dei Numi, che s’avverano
tutti, non già qual piú qual meno. Eppure,
Serse, pasciuto di speranze vane,
una parte lasciata ha dell’esercito
scelta. Rimasti sono ove coi rivi
l’Àsopo bagna la pianura, e abbevera
col dolce umor la terra dei Beoti.
Patire i mali estremi ancor qui debbono,
e riscattar la tracotanza e gli empî
divisamenti: essi che, giunti in Ellade,
riverenza non ebbero, che gl’idoli
non furasser dei Numi, e non ardessero
i loro templi. Son l’are scomparse,
i monumenti ai Dèmoni, divelti
dalle radici, dalle basi, giacciono
spesso confusi. Tanto mal commisero;
e non minore è quello ch’ora soffrono,
ed altro ancor ne soffriranno; e tutto
non han calzato il sandalo dei guai2:
in parte han fuori il pie’: tanta poltiglia
sanguinolenta, di Platea la terra
cospargerà sotto la lancia dorica.
E visibili a ognun, sino alla terza
progenie, i muti acervi dei cadaveri
insegneranno che sconviene troppa
presonzione ai mortali. E tracotanza,
poiché fiorí, fruttifica una spiga
di sciagura, e una messe indi raccoglie
d’amaro pianto. Or voi, veduti i frutti
di queste opere vostre, ricordatevi
dell’Ellade e d’Atene; e alcuno piú,
la sorte sua tenendo a vil, non voglia
bramare il bene altrui, perdere il proprio.
A castigar l’eccesso di superbia,
Giove, sereno giudice, presiede.
Con i buoni consigli or lui, ch’à d’uopo
di far senno, ammonite, ond’ei desista
dalle troppo superbe offese ai Numi.
E tu, cara di Serse antica madre,
nella casa rientra, e, veste assunta
quale conviene, ad incontrare muovi
il tuo figliuolo: ché d’intorno a tutto
il corpo suo, van’lacerati i brani.
pel tormento dei guai, delle sue vesti
versicolori. Or tu benignamente
con le parole mitiga il suo duolo:
ch’egli te solo udir sopporterà.
Or della terra scendo io fra le tenebre.
Voi salvete, o vegliardi; e pur tra i crucci,
sin che il dí per voi brilla, in cor gioite.
Ché le ricchezze ai morti nulla giovano.
L’ombra di Dario sparisce.
corifeo
Cruccio mi diè, dei Persïani udire
i cordogli presenti ed i futuri.
atossa
Ahi!, quante doglie sciagurate, o Dèmone,
piombâr su me! Ma piú questa mi morde.
udir da quale disonesta foggia
di vesti è cinto il mio figliuolo. Or vado,
e, ornati panni presi entro la reggia,
tenterò farmi incontro a lui. Ché mai
non abbandonerò nella sciagura
la creatura a me piú cara. E voi,
di fidi ammonimenti in tal frangente
date soccorso ai fidi, e il figlio mio,
se pria di me qui giunge, confortatelo
con i consigli, e alla reggia spingetelo,
ché non s’aggiunga ai mali un nuovo male.
Atossa esce.