I Mille/Capitolo LIII
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CAPITOLO LIII.
I TRECENTO.
L’han giurato! li ho visti in Pontida |
Noi lasciammo i protagonisti del nostro racconto, scampati dalle ugne pontificie ed incamminandosi verso l’Apennino coll’intenzione di seguitarne le vette, per discender poi nelle pianure Campane, a dividere coi prodi fratelli dell’esercito meridionale le gloriose battaglie che dovean decidere la caduta d’uno dei puntelli del dispotismo — e la rigenerazione sulle sue rovine di tanta parte di popolo italiano.
Il comando della valorosa brigata dei trecento fu all’unanimità affidato all’intrepido colonnello Nullo, e questi scelse a suo capo di stato maggiore Muzio — e Muzio con quell’abnegazione che distingue il vero merito — fu lui primo a proporre il bellicoso eroe della Polonia per capo, e volonteroso per il primo a chieder gli ordini con una modestia ed una subordinazione ammirabili.
Elia, il padre di Marzia, era stato raccolto in Roma, e faceva parte della comitiva. — Povero vecchio! — Le membra slogate dalla tortura dell’Inquisizione pretina, ed il volto scarnato, e livido dai patimenti — faceva compassione il vederlo! L’amore immenso per la figlia del suo cuore solo lo teneva in vita — ed inteneriva chiunque lo contemplasse, infelice! quando rivolto alla sua cara, egli beavasi nel di lei sguardo. Fu necessaria una cavalcatura per lui, e per la bella contessa Virginia — anch’essa poco assuefatta a marciare a piedi — ciocchè non fu difficile trovare nella ricca campagna di Roma.
Le nostre due giovani eroine sdegnarono di marciare a cavallo — e vollero dividere i disagi dei semplici militi, chiedendo però a Nullo di condurle presto in sito, ove poter acquistare un moschetto, arnese molto più confacente d’un ombrellino a codeste amazzoni della schiera dei Mille.
Noi sappiamo già esservi nella colonna trecento armati di sole daghe, eccetto una ventina di carabine tolte alle guardie del Comandante Pantantrac, ed agli sgherri. La richiesta delle fanciulle mise in pensiero il Capo. — E veramente che avrebbero potuto fare i prodi da lui guidati se si dovea combattere contro gente armata di fucili?
Un individuo che seguiva Lina, come la propria ombra, aveva inteso il desiderio delle donne, ed osservava l’aria mesta e distratta del Duce — con certo piglio significativo.
Questi era Talarico, il brigante redento, che attratto dalla bellezza della fanciulla, e forse dal dovere che ha ogni uomo che non sia un prete, di servir la causa del suo paese, s’era convertito alla parte della giustizia e dell’onor nazionale.
Talarico amava Lina come il leone la sua femmina, colla differenza, che conscio dell’affetto di lei per Nullo, piegava il capo alla fatalità della sua posizione, e conformavasi come il naufrago, che non potendo dominar le onde, da esse si lascia travolgere nei gorghi, dopo la lotta terribile della disperazione.
Lina non l’amava, essendo il vergine suo cuore tutto rivolto all’incomparabile amante di cui tanto andava superba; comunque, la fiera, maschia ed ingenua devozione di quel rozzo ma superbo principe della montagna la solleticava, e nell’anima sua bellicosa, ma gentilissima, essa non poteva albergare un senso che non fosse di propensione e d’interesse per quel servo sempre pronto al minimo di lei desiderio.
Guai a chi avesse tolto un capello alla dea del suo culto! Il ferro del figlio d’Aspromonte avrebbe solcato il petto dell’insolente come una lama di fuoco.
Egli, dacchè reso alla schiera dei forti campioni della libertà italiana, avea trovato nell’anima sua redenta tanta generosità ed abnegazione, da non esser nemmeno geloso del suo capo, sicchè, innamoratissimo, senz’altra speranza che quella di una meritata simpatia dal suo idolo, l’amore di Talarico era diventato di natura celeste, come quello che ispira tanta ammirazione nella vita squisitamente gentile del gran cantore di Laura, e che sì maestrevolmente narra il Foscolo:
»Amore in Grecia nudo, e nudo in Roma |
L’anima ardente dell’antico principe dell’Apennino, di più, era salda come l’acciaio, e la coorte dei liberi potea fare assegnamento su di lui, come sulle proprie daghe.
— «Comandante, disse Talarico a Nullo, che già lo aveva scelto come guida nelle montagne; Comandante, davanti a noi abbiamo Tivoli, distante poche miglia, se vogliamo giungervi di notte — ciocchè mi sembra conveniente — io vi condurrò nella città, per vie a pochi note, e giungeremo nel centro della stessa, sorprendendo qualunque forza papalina vi possa essere, e potremo quindi armarci di alcuni fucili».
«Bravo!» fu la risposta di Nullo a Talarico; ed immediatamente il colonnello ordinò di obliquare a sinistra ed imboscarsi nella selva sacra del Teverone, per aspettarvi la notte. Fra i militi della brigata, pochi eran quelli che avean pensato a provvedersi per la campagna, ma per fortuna in settembre, poche son le provincie d’Italia, ove non si trovino abbondantemente delle frutta, e con queste, per uomini giovani e disposti a tutto, poco o niente sentivasi la carestia.
Erano le 7 pom. quando la brigata cominciò a muoversi dal bosco sacro con Talarico alla testa; essa traversò il Teverone, e ne seguì silenziosamente la sponda destra, sino ad oltrepassare la famosa cascata, poi torcendo a destra verso il fiume — che in quel punto sembrava d’argento per la calma dell’aria, per il poco declivio, — la testa della colonna inoltrossi sopra un ponte di legno, e sfilando al di là della sponda sinistra, trovossi proprio a levante della città, cioè verso i monti.
La città di Tivoli trovasi in posizione fortissima per chi l’assale da ponente, verso Roma, ma da levante essa è completamente dominata dai monti che le stanno a tergo. I Tivolesi non s’aspettavano tale visita; e siccome in questi tempi di rivoluzione e di congiure clericali, non mancava il timore; lumi, se ne vedeano alcuni a quell’ora, circa le 9 pom., ma la gente per le contrade era pochissima.
Al primo individuo che capitò nelle mani di Talarico, questi con poche cerimonie mise la mano al colletto — impose silenzio — e sommessamente chiese ove trovavasi la truppa. «Ahi!» — fu il primo grido dell’innocente paesano — quando sentì le graffe del tigre nel collo — poi: «Signor Piemontese!.....» quando s’avvide esservi molta forza, e secondo pare, sapevasi esser non lontano l’esercito settentrionale — «Signor Piemontese!, io sono amico vostro» Ed il poveretto era giustamente uno di quelli che intendevano per Piemontesi i liberatori, e non s’ingannava, toltone che i bravi figli del Piemonte, essi stessi credenti nella liberazione dei fratelli, non sapevano esser guidati dalla magagna Sabauda-Napoleonica.
«Amico, o non amico, tu hai da condurci ove si trovano i papalini — e subito!» era la risposta del fiero calabrese. E non v’era tempo da riflettere, ma ubbidire.
Due compagnie di zuavi pontifichaux formavano la guarnigione di Tivoli, e siccome a questa bordaglia piace l’Italia per i suoi vini, per le sue belle donne, particolarmente, a quell’ora ebbri per la maggior parte, erano anche quasi tutti presso le loro conquiste da trivio.
Una guardia qualunque trovavasi sul magnifico piazzale che a ponente fronteggia la vecchia capitale del mondo, ed i nostri Romani, sorpresa la guardia, ne legarono sino all’ultimo individuo, s’impadronirono di tutte le armi, e disperdendosi poi in tutte le direzioni, armati delle armi papaline, fecero una razzìa generale di quanti innamorati soldati del papa trovarono.
I pontifichaux gridarono, urlarono: «à la trahison!» secondo il solito, e l’alba d’una bella mattinata settembrina li trovava legati come tanti polli, due per due, alla mercede di gente ch’essi erano assuefatti a disprezzare, perchè sempre discordi, e che ben potevano sgozzarli senza tema d’infrangere le leggi della giustizia. Perchè, a che questi vampiri del sanfedismo, che come i preti hanno la loro divinità nel ventre, vengono a saziare i loro indecenti appetiti a danno d’un popolo infelice che li trasse dalle foreste, ove marciavano a quattro gambe come i gatti, e li pose sui piedi di dietro dicendo loro: «Siate uomini!?»
I trecento passeggiarono padroni per le vie di Tivoli provvedendosi d’armi e d’ogni cosa bisognevole per il loro viaggio, mentre che la popolazione in odio al papato li acclamava con ogni segno di simpatica benevolenza.
Nullo, a cui non fuggiva la falsa posizione in cui s’ingolfava quel buon popolo, credente nell’apparizione dell’avanguardia del grande esercito italiano — ciocchè altro non erano che i pochi esuli dalla città eterna, così ammonì quella parte della popolazione che s’era affollata intorno ai nostri militi:
«Fratelli! io vi ringrazio per la manifestazione vostra d’affetto che ricorderò co’ miei compagni tutta la vita. Devo però prevenirvi che noi non apparteniamo all’esercito italiano, oggi diretto verso il mezzogiorno, ma bensì a quella schiera dei Mille che, favorita dalla giustizia della sacrosanta causa d’Italia, oggi milita vittoriosamente contro i Borboni, alleati dei vostri tiranni; — quindi io vi consiglio di terminar le vostre acclamazioni per non esporvi alla rabbia pretina, oggi nel massimo del suo orgasmo».
Il resto della giornata si passò in preparativi di partenza, e verso le 6 pomeridiane incamminossi la brigata verso Subiaco. Una testa di colonna di cavalleria, formata di dragoni romani, spuntava dalla via di Roma in quell’ora, ma la cavalleria non si teme, massime nelle montagne e da gente che non ha paura. Poi, i dragoni romani eran uomini disposti a non bruttarsi di sangue italiano, anche malgrado gli ordini feroci dei chercuti. Ciò sapevano i capi, e si contentavano quindi di seguire i figli della libertà senza raggiungerli e venir con loro a conflitto.
I dragoni romani sapevano per tradizione aver il corpo a cui appartenevano contribuito gloriosamente alla difesa di Roma contro i soldati di Bonaparte nel 49 — e perciò eran sempre d’animo propenso a far causa comune coi liberi che consideravan fratelli.