I Marmi/Parte prima/Ragionamento secondo/Il Ghioro e Borgo
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Il Ghioro e Borgo.
Ghioro. Vedete a quel che è condotto il mondo, poi che non si può lèggere piú cosa nessuna piena di dottrina o di bontá, che ciascuno alle tre parole la scaglia lá! Egli ci bisogna oggi piú arte a scrivere un libro che pazienza, piú strolagare il cervello a mettergli un titolo bizzarro, acciò che tu lo pigli in mano e ne legga due parole, che a compor l’opera. Va, di’ che le persone tocchino uno scartafaccio che dica Dottrina del ben vivere o Vita spirituale; Dio te ne guardi! Fa pur che la soprascritta dica Invettiva contro a un uomo da bene, Pasquinata nuova, Ruffianesimi vecchi o Puttana perduta, che ciascuno correrá a dargli di piglio. Se il nostro Gello, volendo insegnare mille belle cose di filosofia utile al cristiano, non diceva Capricci del Bottaio, non sarebbe stato uomo che gli avessi presi in mano; e’ poteva ben mettergli nome Amaestramenti civili, o Discorsi divini, che il libro aveva fatto il pane; pur quel dir Bottaio e Capricci, ogni uno dice: io vo’ veder che anfanamenti son questi. Ancóra il Doni, se non diceva La zucca, madesi, che l’avrebbon letta! Pur tócco un libro maladetto! Se non si diceva Mondi, la carta era gettata via; ma la gente, come la si sente grattare con qualche sofistico titolo l’orecchia, la s’impania la borsa súbito. Questo dir Marmi, fará che le brigate urteranno tutte. Se alla Filosofia morale, e Trattati, era lasciato, dall’academia, dargli le soprascritte a lui, diceva Girelle delle bestie antiche, appropriate alle girandole degli animali moderni.
Borgo. Io sono un di quegli che compro e leggo piú volentieri Buovo d’Antona che la Poetica d‘Aristotile, le Pistole di Seneca o il Trattato del ben morire, perché la mia professione è armeggiare e non esser guardiano di compagnie come voi. A voi sta bene le Prediche sopra Amos in mano e a me il Furioso, perché voi fate le dicerie per amor di Dio e io armeggio il primo di di maggio per piacere agli uomini.
Ghioro. E’ verrá tempo che voi porrete giú l’armeggerie e attenderete ad altro.
Borgo. Ghioro, e’ bisogna che ci sia d’ogni fatta persone in ogni professione; ancóra de’ guardiani di compagnie ce ne bisogna de’ mezzi buoni e de’ tutti cattivi.
Ghioro. Troppi ce n’è egli de’ cattivi. Dio voglia che le non vadino un dí a terra queste nostre compagnie!
Borgo. Forse piú tosto che gli armeggiamenti.
Ghioro. Che libro è cotesto che tu hai in mano, che dice su la coperta Legge sante?
Borgo. E ben che dice «sante»! Legge furfante mi pare a me che sono, parte da vero e tutte da beffe.
Ghioro. Di grazia, se questo lume della luna ti serve, lèggine due righe. Son elleno delle nostre o di quelle d’altri?
Borgo. Voi l’udirete. «Noi non vogliamo per conto alcuno che i nostri figliuoli abbino troppe legge da osservare, ma solamente quelle de’ loro antichi sien mandate a esecuzione; delle nuove leggi non se ne osservi alcuna, non per altro se non perché le nuove ordinazioni bene spesso scacciano i buon costumi antichi».
Ghioro. Insino a qui la cosa non mi dispiace, pur l’ha un certo che... Séguita.
Borgo. «Coloro che verranno non possino avere, e tanto comandiamo, altro che duoi dei; uno servi loro alla vita e l’altro alla morte; perché egli è meglio servirne pochi bene che molti male».
Ghioro. Potrebbe passare questa; ma in altri paesi coteste mi paion legge de’ barbari.
Borgo. Cosí sono. Odi questo resto: «Ciascuno, per espresso editto, si vesta di panno e si calzi e non d’altro; e tutti i vestimenti sieno equali, tanto all’uno quanto all’altro, perché il variare, il tagliare, i color diversi e il frapparsi i panni a torno ha qualche cosa del buffone».
Ghioro. Questa ancóra non monda nespole.
Borgo. «Noi non ci contentiamo che alcuna donna stia con uomo alcuno se non tanto che la facci tre figliuoli, perché tanti e tanti che nascono metton carestia nel mondo, rovinano le famiglie e distruggano le case; e se la donna ne partorisse piú, gli sieno dinanzi a’ suoi occhi sacrificati súbito agli dei».
Ghioro. Oh questa sí che sa di buono! ma di cattivo la puzza piú assai. Oh che bestialitá!
Borgo. «Per legge inviolabile noi ordiniamo che se alcuno, sia di che sesso si voglia, dirá bugia e mentirá, che senza altro sia fatto morire; perché è manco male uccidere un uom bugiardo che lasciar ridurre dalla falsitá tutto un popolo».
Ghioro. Certo, se cotesta legge fosse per la cristianitá, che noi ci rimarremmo pochi. Dinne un’altra, e poi andremo a sentir cianciar qualche capannello di brigate.
Borgo. «Nessuna donna viva piú di quaranta anni e l’uomo cinquanta; e se non muoiono in tanto tempo, sien sacrificati agli dei».
Ghioro. Io son chiaro: so che si doveva trovare in cotesto paese gli uomini radi e ricchi; tanta povertá non ci debbe regnare. Ma odi tu: le brigate diventan cattive come elleno invecchiano, e si fanno pessimi come coloro che si pensano di non morir mai o di viver lungo tempo, e aggruzzolano, acciò non manchi loro; e di qua viene che pochi godano e molti stentano. Ma lasciami scorrer il libro a me alquanto, poi che sí bel lume di luna ci serve; la lettera è grossa, onde senz’occhiali la si leggerebbe al barlume.
Borgo. Leggete forte, ché io n’abbi qualche consolazione ancóra, e participi di qualche bella cosa che vi sia scritta, perché Berto gobbo, che m’ha venduto il libro, m’ha detto che egli v’è su non so che storia d’un certo gobbo che è molto bella. Di grazia, guardate se la vi venisse alle mani e leggetemela.
Ghioro. «Nelle case de’ signori e nelle corti non debbino abitare superbi uomini, perché son nel comandare solleciti e nell’ubidir infingardi; non voglion servire, sí bene esser serviti. Non vi si fermi ancóra persona invidiosa, perché in quelle case dove l’invidia regna v’è sempre dissensione. Sieno scacciati poi gli stizzosi che d’ogni cosa s’adirano, conciosia che non si potrá mai aver servizio da’ fatti loro. Gli avari e i carnali sien licenziati, perché una sorte piglia da tutti e non dá, l’altra cade in gravi errori per non aver temperanza in sé. I ghiotti, i biastematori, gli infami si scaccino».
Borgo. Passate inanzi, lasciate le leggi, perché le son cose che non s’osservano; anzi tutta cotesta pèste d’uomini abita nella maggior parte delle corti, e par che i signori non vi sappino tener altri. Oh che tempo gettato via a scriver sí buoni ricordi!
Ghioro. «Nell’anno della creazion del mondo quattromila trecento cinquantacinque (questo abaco è minuto; non so se l’è cosí come io dico) nella terza etá, essendo re degli assiri Sardanapallo, degli ebrei Ozia, vivendo Rea madre di Romulo, nel secondo anno della prima olimpiade, ebbe principio il gran re de’ lidi, quella Lidia, dico, che è nell’Asia minore, giá chiamata Meonia e ora detta Morea: il primo re fu chiamato Ardisio».
Borgo. Passate piú inanzi, ché voi siate adietro parecchi usanze — secondo che dice il Plinio vulgare che io ho in casa — ad arrivare a Creso.
Ghioro. «Il nono re fu Creso, secondo che scrive Senofonte, che fu piú potente in vincer la guerra che in adestrar la sua persona: egli era storpiato d’un piè, guercio d’un occhio, senza capegli, nano e un poco gobbo».
Borgo. Costí, costí leggete via, ché Berto disse bene. Infine ogni simile appetisce il suo simile; perché costui era gobbo, però gli piace le cose de’ gobbi. Poi che dice che io intenderò di belle cose, leggete via difilato.
Ghioro. «Fu Creso uomo giusto, pien di veritá, magnanimo, piatoso e sopra tutto nimico degli ignoranti e molto amico de’ sapienti».
Borgo. Alla barba d’una gran parte de’ signori, che sono il rovescio della sua medaglia: egli era brutto di corpo e bellissimo d’animo; oggi i nostri son begli in banca col fusto e con lo spirito sozzissimi e lordi.
Ghioro. «Dice Seneca, nel libro della Clemenzia, che fu tanto amico de’ sapienti che i greci lo chiamavano «amante della virtú», e che mai amante s’afaticò tanto in volere avere l’amata quanto si travagliava egli per avere un litterato. Egli, come eccellente principe, per suo diletto particolare e per utile universale, cercava di avere tutti i litterati di Grecia».
Borgo. Oh che grand’uomo da bene era costui!
Ghioro. «Al suo tempo fioriva il mirabil filosofo Anatarso che faceva sua dimora in Atene nell’Academia, la quale non ricusava di accettare d’ogni nazione, pur che l’uomo fosse virtuoso. Il re Creso, udita la fama della sapienza sua, gli mandò imbasciadori con autoritá di condurlo a lui e di donarli infinite ricchezze; e gli scrisse in questa forma: Creso, re dei popoli di Lidia, a te, Anatarso, gran filosofo nella Academia d’Atene, ti manda salute e desidera bene alla tua persona. In questa lettera tu vedrai quanto ti amo assai, ancor che poco ti scriva; e son certo che tu vedrai piú con l’intelletto il mio cuore che con l’occhio le male scritte parole. Accetta primamente i doni che io ti mando; e, perché son piccoli, so che ti basta, essendo l’uomo che tu sei, la volontá grande. Io desidero di corregger questa nazione che io soggiogo ed esercitar la mia persona e il mio intelletto in opere virtuose. Io sono de’ contrafatti uomini che sieno al mondo e sono un mostro; ma non mi dispiace tanto l’esser brutto di corpo quanto non esser dell’intelletto bello, come vorrei, e savio: questo è quello che mi accora e mi tormenta; onde per questo desidero ottima compagnia e conversazione perfetta. Cosí mi tengo in questo mio palazzo per morto, non avendo altra compagnia che d’ignoranti, sí come mi terrò vivo quando avrò de’ tuoi pari sapienti; perché questi vivono, e non altra generazione, al mio giudizio. Io ti prego, adunque, per amor di tanto bene che ne succederá, e ti scongiuro per gli dei che tu non recusi di venire; e se tu non lo vuoi fare per quel che tu sei pregato, fállo almeno per quello che tu sei obligato, che è il tuo proprio contento d’insegnare a chi non sa. I miei imbasciadori ti diranno a bocca in parole, e la mia lettera te lo confermerá in fatti che, venendo, tu sarai dispensatore de’ miei tesori, unico consiglieri nelle mie faccende, conoscitor de’ miei secreti, padre de’ miei figliuoli, riformator del mio regno, governator della mia persona, capo della mia republica e sigillo delle mie volontá; brevemente, tu sarai in potere e autoritá me medesimo, pur che gli dei faccino che io in una minima parte della sapienza sia te.
Gli Dei ti guardino e disponghiti a sodisfarmi e farmi contento; ché fia tutta la mia contentezza in vederti e udire i tuoi amaestramenti».
Borgo. Se non va da questo uomo reale, io gne ne voglio male a questo filosofo. Seguitate, se per sorte vi fosse il resto dell’istoria.
Ghioro. «Partironsi gl’imbasciadori per Atene con la lettera e con molto oro, argento e pietre preziose di gran valore. E, arrivati, lo trovarono nell’Academia che egli leggeva: onde alla presenza di tutti gli udienti fecero l’imbasciata e presentarono la lettera di pugno del re; la quale, leggendola forte, fece stupire tutto quel collegio di sapienti, tanto piú sapendo che i principi barbari non tenevano mai filosofi per imparare, ma per amazzargli. Udito che ebbe Anatarso l’intenzione del re, non si mutò nulla in faccia, non fece atto alcuno con la persona, non gli uscí parola di bocca che pendesse né se gli annodò la lingua o sciolse per tal novitá e manco riguardò sí gran ricchezza con occhio che dir si potesse avido o curioso; anzi saldo, come sempre era il solito suo, e dinanzi a tutti i filosofi gli fece una mirabil risposta di suo mano».
Borgo. Questa avrò caro d’udire, massimamente per veder come egli sta a quella tòca dell’oro. Io per me avrei posto piú tosto le mani sopra il tesoro che presa la penna per rispondere. Orsú, chi è avventurato e chi no: io l’ho per pazzo, se non si mette quelle gioie in casa.
Ghioro. Perché voi sète tutto di questo mondo e dato ai piaceri: non se ne cava giá altro che vitto e vestito; e quanto piú tesoro ha uno, manco ne gode; e cosí è l’ordine di sopra.
Borgo. Io non sono ancóra abbattutomi mai a simil disgrazie; se io vi caggio una volta, saprò poi come mi debbo governare anch’io. Or leggete la risposta.
Ghioro. «Anatarso, minor di tutti i filosofi, a te Creso, il maggior di tutti i re, manda salute, e ti desidera accrescimento di virtú, come tu lo chiedi per la tua lettera. Molte cose del tuo regno e di te si dicon di qua, come costá si dice di noi e della nostra Academia; e questo viene per il desiderio che hanno gli uomini di saper tutte le cose che si fanno per il mondo. Volessero gli dei che il voler sapere la vita de’ buoni e de’ cattivi fosse per emendare i vizii e imparare le virtú, fuggendo il proceder de’ ribaldi e seguitando i vestigii de’ buoni! Ma altrimenti credo che sia l’intenzione, perciò che si desidera saper le cose buone, da’ cattivi, per riprendere i cattivi ed esser soli loro a far male, e udire le male vite perché la lor pessima sola paia minore di tutte unite insieme. Io ti fo assapere che noi duriamo in questo mondo piú fatica a difenderci da’ cattivi e dai maligni che imparar la virtú e insegnarla. Credo poi che la tua tirannia non sia si grande come la fanno costoro qua; però tu ancóra non debbi prestar fede che io sia tanto virtuoso come t’informano coloro che ragionano di costá: perché chi conta cose nuove da un paese a un altro fa come quel povero che mette le pezze dove è rotta la sua gonnella e la rattoppa, che in poco spazio di tempo è piú il panno posticcio che ’l principale. Guardati, o re Creso, di non imitare i cattivi principi barbari, che hanno buone parole e cattivi fatti, come coloro che desiderano ricoprire con le paroline dolci l’amare opere. Non ti maravigliar poi che noi filosofi fuggiamo di vivere in compagnia de’ principi e che molti letterati si ritirino in solitarii luoghi fuggendo le corti; perché i signor cattivi cercano di tenére in casa alcuni savi e dotti per coperta delle lor triste opere, e noi non vogliamo che, quando un signor fa una cosa, di suo testa, mal fatta, che ’l popolo c’incolpi di-cattivo consiglio, perché suol esser lor costume, facendo male una cosa, dar la colpa a qualche altro di corte e, se le faccende vengan lor mal fatte, tassare gli uomini da bene di casa sua. Cosí la plebe, che è cieca e ignorante, la crede come la si dice e approva ogni giudizio per diritto ancóra che sia storto piú che arco.
Parrebbe che tu non sapessi che ’l signore che desidera regger bene un gran popolo abbi bisogno d’un savio solamente: tu sai pur che ’l giusto vuole che a governar molti non sta bene un solo. Tu m’hai scorto in parole per savio per regger il tuo regno e per pazzo con i fatti a mandarmi tesoro. La principal cosa che debbe fare un filosofo è sprezzar le cose mondane ed esser sollecito nelle cose celesti: quelle che tu mi doni son fango e quelle che io cerco sono oro. Non è savio colui che sa piú dei giri delle sfere celesti, ma quel che sa manco degli andari del mondo. Sappi adunque che, in settantasette anni che io ho, che mai mi messi ira in cuore, se non quando mi son veduto ai piedi tanta ricchezza; perché ho veduto che tu m’hai per molto ignorante e tu ti sei mostrato poco savio. Io te lo rimando, adunque, e ti fo intendere che tutta la Grecia è scandalizzata, perché mai fu fatto un tanto carico alla loro Academia, come coloro che mai hanno tenutoci ricchezza mondana alcuna; anzi chi l’ha desiderata l’hanno avuto per infame. Il fine di noi altri filosofi, acciò che tu sappi le nostre leggi, è esser comandati e non comandare, tacere e non parlare, obedire e non far resistenza, non acquistar molto ma contentarci di poco, non vendicare offese ma perdonare l’ingiurie, non tôr nulla di quel d’altri ma dare il nostro proprio, non affaticarci per gli onori ma sudar per esser virtuosi; finalmente noi odiamo tutto quello che gli uomini mondani amano, perché tutti desiderano ricchezze e ciascun di noi vuol la povertá. O tu pensavi che io dovessi ricevere il tuo oro o no: se lo credevi, tu dovevi ancor pensare che io non era degno d’esser accettato nel tuo palazzo, perché il principe, a dir la tua ragione, non ha da tener per suo amico chi desidera tesoro; ma se pur tu credevi che io non lo dovesse accettare, tu non dovevi affaticarti in mandarmelo e altri in portarmelo, perché chi accetta senza merito rimane svergognato. Io dubito che tu non facci, o Creso, come l’amalato testericcio, che usa gran diligenza in cercare un medico eccellente che lo guarisca, poi, quando sente le medicine amare, non vuol cosa che gli sia ordinata. Quando tu sentissi ordinarti una republica, non credo che ti piacesse la dieta; e, dove non è republica, o v’è rovina o vi regnan poche cose buone, perché la republica è il sostentamento della virtú. L’animo che tu hai ora è un muover che fanno gli sciloppi; ma, senza la medicina che purghi, non si può sanar tanta malattia. Ora, per finire il mio scrivere e farti conoscere il mio animo, ti vengo con un esempio a dire: il lavoratore non getta il seme se prima non ha lavorato il campo e stagionata la terra. Disponerai l’animo tuo a metter a effetto queste ordinazioni che io ti scrivo e poi t’avviserò del resto».
Borgo. Io son per spiritare di questa bella cosa. Oh questo libro vale i soldi solamente per questa risposta. Scorrete via le sue ordinazioni, e poi faremo pausa per istasera.
Ghioro. «Lieva, signore, via della corte tua primamente tutti gli adulatori, perché chi ama l’adulazione è nimico della veritá. Scaccia i buffoni, bandisci i cerretani e i maestri di bagatella, conciosia che son tutti gente da beffe e un signore che sta sempre involto nelle cose leggieri, mal volentieri spedisce gravi negozii.
Tutti i vagabondi e gli instabili sien sempre lontani da te; perché questi son nimici della virtú.
Non pigliar mai guerra ingiusta, ché chi s’accomoda all’ingiustizia mal volentieri ritorna a esser giusto.
Fuggi la guerra, perché è nimica della pace ed è destruggimento della republica.
Dispensa i tesori dove è il merito e non esser liberale a pompa del mondo, perché una è sapienza e l’altra è pazzia.
Non pigliar dono o presente alcuno dove s’abbi da intermettere il tuo giudizio.
Fa che tu non ponga mai tanta fede in un tuo servitore che egli possi rovinare alcuno dentro o fuori della tua corte persuadendosi di maneggiarti a modo suo.
Non credere alle parole d’uno che voglia far male a un altro se non odi l’intenzione di quell’altro ancóra.
E per ora non vo’ dirti altro se non che tu sia tardo a mandare in esecuzione cosa che sia danno del prossimo e che camini ne’ fatti della giustizia giustificatamente. Se tu non principii a metter a effetto quello che io t’ho scritto, credo che sará tanto possibile che stiamo insieme quanto io sia re e tu filosofo».
Borgo. Io per questa notte n’ho avuto assai: questa lezion mi basta. Rendetemi il mio libro e ritiriamoci a casa.
Ghioro. Cosí sia fatto.
Borgo. A Dio.
Ghioro. A Dio.