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XXXIV Epitaphium Poliae

[p. 455 modifica]tormento del infirmo core, ritrovantime senza alcuna speranza, considerando ella immanissima perdurando, dappò expressi molti cruciabili lamenti, et fleto et pianto, et sencia credere assai amaricatome. Et ella persistendo rigidamente frigorata, più che Styge in Archadia, et totalmente priva et exuta di omni benignitate, immo sencia alcuno indicio di propitiatione. Diqué cum celere exitio sentivi il mio genio delle illate iniurie arbitro fugire. Et quivi nel tempio praesente ella, cum l’animo pertinace imperterrita et immota vedendo la immatura et celerata morte, lugendo asmatico, sopra le copule, overo vertebre proclinato misericordia renissamente precando, et in terra prosternatome, morto restai. Per la quale cosa essa forsa instigata dagli Dii, et praemonita della sua malignitate, et rigida et inhumana perversitate, perché niuno intra in cose nove si delle praeterite non se pentisce, ritornoe antelucio domatina sequente a rrispectare nel violato Tempio, il pridiano almicidio. Et cum molte virginale attrectatione, et dulcicule anxietate, et suppressi gemituli, et infiniti osculi et ferali submurmuri, penitente amplexantime, et piatosamente illachrymabonda, et de lachryme abundante rosulantime, revocava dolcemente l’alma mia. La quale non tanto praesto fora oblata del corpo mio fue subvecta et demissa nel divino conspecto et all’alto throno della divina Domina matre. Diqué nel suo habito et habitudine reiterando, et nel suo inane corpusculo, gaudiosa et cum lepida iocunditate, et cum obtenta gratia victrice cusì alacremente disse.


SEQUITA IL SUO NARRATO POLIPHILO COMO GLI APPARVE IL SPIRITO IN ESSO REITERANDO PARLARE FESTIVAMENTE DICENDOGLI, ESSERE STATO NEL CONSPECTO DELLA DIVINA PAPHIA PLACATA ET BENIGNA, PER LA CUI IMPETRATA GRATIA, RITORNA LAETISSIMAMENTE AD VIVIFICARLO.

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MOROSAMENTE LAETABONDO A PIAceri et extrema laetitia, et gaudio et tranquillo oblectamento gestiendo exulta cum summa iocunditate, o corpusculo mio, gratiosa mansione, et amantissimo domicilio, postponendo omni grave perturbio, et infesto dolore, et affligente disio, l’animo tuo festivamente accomodando convertissi et revoca. Et alle consequite dulcitudine, et agli obtenti amori, et alla potita victoria, et al adepto Trophaeale triumpho, probamente attendi, che mai di tali Manubii et spolie, et promiscui trophaei, et superbi insignii [p. 456 modifica]fue ornato triumpho, quale il glorioso nostro. Et peroe le flebile angustie, et ingrato moerore reseca, et totalmente amputa defecto. Et di tanto fasce et angaria tyrannica ritorna in pretiosissima libertate, diloricato, soluto, et expedito, et in festigianti dilecti mutate. Perché hogi mai ne li curriculi saeculi più beato et foelice serà comperto alcuno. Quale per le obtente gratie sei tu devenuto. Per la quale cosa non dubito uno punctulo, che gli benigni et superni Dii, alla mia amorosa cagione miserati favorigiavano patrocinando. Et io vidi quello, che longo protracto voria il disertare, et a pena il saperei exprimere. Venere dunque Domina era alhora, sencia dubitare seiugata et lontana da la freda, et torpida, et defructa Virgine Astrea. Et semota dal vindice del nymboso Orione, et seiuncta dal hirsuto Ariete, quando che io ad quello excelso et divino throno, al conspecto della grave, Sancta, et severa maiestate lancinata, et ingemiscente me praesentai. Quivi como meglio io poteva contra il suo malefico et legirupa figlio incusando lamentantime, promeva che cusì insonte, inculpabile et sencia offensa, cum sue vulnifice et celere sagitte, mi hae tirato nel già cribrato core più punctiture, che innel paniceo Labo grani si trova, cum simulato bene, et fincto dilecto, anticipato lo ordinato termine, dalla mia gratissima et sublime Arce surrepta et disiuncta amaramente io fusse, et erumnosa, per amore di crudelissima damigiella erronea et vaga, profuga, externata, pallente, et ignara di quiete.
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Audite benignamente le mie lamentabile querimonie, ad sé immediate la gloriosa Dea et sublime domina, chiamoe il volante genito domandando ello, quale era stata la causa di tanta iniuria. Ello allhora surridendo et alubescendo, cusì prese a dire. Matre amorosa non sarae protracto di tempo, che concinne et coaptate sarano le praesente lite et discordi animi, cum reciproche vicissitudine di aequabilitate. Né non prima hebbe prolate lepidamente queste parolette, che il melliloquo se rivoltoe ad me dicendo. Mira diligentemente questa spectanda imagine. Quanti sarebbono quelli, gli quali quantunque magni, contentissimi se reputarebono, extimantise beati, beatifici, et optimi, solamente specularla, non che da ella essere amati. Che tale virgine Thalasio non hebbe per sorte nello rapto delle Sabine (monstrantime quella vera et diva effigie di Polia) et attendi, et cum miro affecto appretia questi particulari muneri, dagli Dii pretiosissimi dati, non se debono aspernare, perché quantunque nui siamo assueti agli terrigeni concedere, nientedimeno, molti gli vorebbono, et non gli possono consequire. Quale gratiosamente pretiosissimo hora ti dono. Et le primitie de sì gloriosa congerie di virtute et corporarie bellece, che io gratioso ti offerisco.

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Et poscia alla genitrice etiam cusì gli dice. Domina Matre degli caldi amori gloriosa alumna, questa è la causa del male et cordolio, et del pernicioso exulare, et molesta Hyperoria, di questa pauperula et misella, exula, et cruciosa anima. Ma breviculo instante sconsolata alma faroti efficacissimamente del tuo cupiditato satisfacta et contenta, et remigrare illaesa ove dislocata sei. Et vogliote unire et acconciamente copulare cum il tuo crudele adversario, et dimovere et confringere tutti gli obici repugnanti al mio volante ingresso. Obserati dunque gli divini labri di subito reassumpse le sue candente, penetrabile, et aculeate armature praependente dal sanctissimo fianco, dalla promptuaria Pharetra, manifestamente vedendo io cum il curvo, et cum rigore incordato arco. Nel delicato pecto della ostensa imagine plectebondo, sagittoe di sagitta d’oro impinnulata de morsicanti spini, et decora de multiplice coloramine. Né più praesto vulnerando se infixe quella fulgurante sagitta, cum fermentosa propagatione d’amore, che lla virgine puella, ducibile, facile, mite, benigna letamente se acclivoe flectentise, et victa et prosternata cum Nymphali morigeramini accusantise como quelli che infirmi et inermi contrastare non valeno dilla usata crudelitate et ferina saevitia.

Hora quivi essendo i’ nel conspecto beatissimo de tre praesentie. Due divine [p. 459 modifica]la tertia pauculo meno che coeleste, como sencia fallo iudicai, mirava in propatulo et palesemente mysterii et arcane visione, raro agli mortali, et materiali sensi permesso cernere. Ma io che per speciale gratia, et singulare indulto, et gratioso privilegio, il tutto era explorante, et diligente et accuratissimo contemplava il divino munere largito che vulnerato a mi gratiosamente offeriva lo ignigeno Cupidine. Il quale cum certa et secura coniectura sperava teco conquistare et adepto amorosamente fruire. Et quivi scrupulosamente allucinata et attonita, che in uno corpusculo Nymphale praecipuamente fusseron cumulate tutte le elegantie et venusto filamento de bellece, et perfectamente omni agregaria formositate remirando, ancora gli praesenti Numini in admiratione provocati. Vedeva tra le altre cose spectatissime et coelite, dui corruscanti et splendidi ochii, più chiari che stelle matutine, che diresti Phoebo geminato sotto quegli cilii splendescente, scintillanti sagittule d’oro sencia intercalato, nel mio cusì lubentissimo obiecto, communicando il splendore de omni insigne virtute praenitente. Gli quali non meno unoquantulo che radii del lucentissimo Sole il mio intento risguardo vacillare facevano. Molto più sencia istima salutari et gratiosi, che agli naufraganti il propinquo littore. Et più che la ricuperata salute al aegrotante. Et più che non fureno le anxie divitie a Dario. Le victorie ad Alexandro. Et più che il cremento dell’imbrifico Nilo agli campi Aegyptii. Et più che a Baccho la glebulenta terra. Et più che la rara alla bionda Cerere. Et quivi la bellissima Nympha decoramento etherio a tutte le altre conspicue bellitudine sola praestante decorissima amabile se offeriva, cum lacteo pecto, nel quale amore havea facto il suo delitioso Pomerio, et amoenissimo hortulo, manifesto seminario et vestigio di Iove, cum aurea intrilicatura delle sue conglobate trece, cum Nympheo exquisito, la Geniale cervice circundante, et eximie praestringente, et sencia arte Ciniflonea crispante instabillule. Et parte effuse undiculose sopra le candidissime spalle. Le quale candicavano nivale Candore, adulterate di liquamine roseo. Più desiderabile offerentise che lo sacro oro alla iniqua Atalanta. Et più che a Myrmice servo. Et più che alla traditrice Tarpeia lo brachiale ornato. Né ancora cusì opportuna se praestava la strophiola Laurea al calvitio di Caesaro, né tanto salubre et efficace fue alla inamorata Faustina il cruore del misero Gladiatore. Quale opportuna saluberrima et efficacissima et praesentanea medella essa al mio fornaceo fervore molto più peracceptissima che il conceptabulo della lutulenta aqua a Lucio cum lo ignito tomento stupeo appareva. Tanto dunque è la sua bellecia che io non credo de tale et tanta esser stata Deioipea promessa ad Eulo. Essendo dunque per tale modo rapta et sublimata, et di mirare le coeleste [p. 460 modifica]opere stupefacta, et resucato il fluxo delle solicite lachryme, et auscultati benignamente gli mei miserandi lamenti. La Divina Domina Matre, cum una ineffabile maiestate, et sanctimonia, et cum una inaudita et veneranda voce demulcente, da reserenare gli anebulati coeli, da tuore la nocevola armatura al Enyalio Marte, et gli fulmini di mane dil iaculante Iove, da iniuvenire il vetere Saturno, da Aethiopicare il bellissimo Phoebo, da inbalbutire il facondo Cyllenio. Et da stuprare la casta Diana. Dagli terrestri unquam audita tale, proferitte divine parole, cum divino afflato et cum tale Harmonia afabilmente, quale mai alla vacua Syringa coniuncti gli divi labri del talaricato Mercurio allo oculato Argo non perflarono per la cui suavitate, qualunque Cotico saxo di Libya, immo qualunque indico Adamante contaminato et immutato se sarebbe ad omni teneritudine molliculo et freso. Et per questo modo parlando fecime secura della mia salute, et del mio prospero amore, et de questo mio quamiocundissimo postliminio, et ad te redire. Et cum lepidissimo risulo disse al suo genito. Et tu per la vulnerata Virgine puella, si forsa tergaversare da questo amoroso officio, et relinquere praetemptasse questa praesente alma, sarai vadimonio tu. Dunque corpusculo mio, diversorio mio, removi da te tutti gli asperrimi dolori, et omni passione, et acceptame cusì integra in te, como unque teco coiuncta fui. Cum quello celeberrimo nome, in me impresso, per il quale da te recessi, il quale altramente è excalpto et impresso, et sigillato intra me vegetabile et foecondo, non fue quello di Oenone et di Paride sculpto nelle ramose arbore et rugose scorce, né d’indi mai sarae abraso, né delendo, ma eternalmente obsignato conservabile. Hora hospite amantissimo ricevi me indigena tua, la quale per remediare alle tue grave et insupportabile tribulatione, ho penetrato et passato per tante aque di pianti, et per tanto foco d’amore, et per tante supreme fatiche. Et finalmente suvhecta dove non possono essere gli tui simiglianti, et ho adepta tanta benignitate divina, che io d’indi tempestivamente sequestra, porto la tua valentissima et integerrima salute. Et io al mio reverso et adunato Genio risposi. Veni indigena incola et Domina della suprema arce della mente mia, optima portione rationale. Veni cor mio, domicilio di excandescentia irritabile. Veni extrema parte ove fae residentia il mio adhortatore Cupidine, et faciamo dunque le festegiante Soterie, per la tua retrogressa reformatione.