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Modo sperancia mia non denegare a mi, tutto tuo, che cusì pietosamente supplico pietate et al mio urgente foco temperamine, che io senza quello vivere non so, né posso. Et si io potessi non voglio. Perché securamente io spero in quel angelico sembiante, in quegli modestissimi et ornati costumi, in quel ligiadro et illustre aspecto adiuvamento alcuna fiata. Il quale sencia dubio, è praecipuo et praeclaro indicio, che il superno Iupiter, cum exquisita et summa diligentia, te hae adfabrefacta, miraculosa ostentatione, di tute excellente bellece depolita. Le quale sencia dubio di tutte le belle damicelle del mondo transcendono praestante, et in te sola complectivamente perfecte. Per la quale cosa unoquantulo non dubito, che ancora quel medesimo Opifice, sì tanto bene, et coelesti doni in te hae fincto, et coelato benignamente della sua similitudine. Et però certo opinamento io tengo, che similmente qualche fragmento di clementia nel tuo humano core habi per omni modo collocato. Et non te hae creata tra gli Griphi Hyperborei, né di matre Niobe, né del silvatico et ruvido patre Apulo, né generato del crudele Diomede Thraceo, né del furioso Horeste, né della Maligna Phedra. Ma di humanissimi parenti, et forsa ultra mondani. Et questo è quello che praecipuamente me conserva et sostene in tanto fervore rosulento et fluvido. Altramente il core carbunculato, et l’alma indignabonda si sarebbe hogi mai fugita. Soccorri dunque auxiliabonda et salutigera, imperoché io non supplico lo insolente desiderio di Mida, né quello di Pigmaleone, ma che propiciata praesto praesti favore, subveni al bisogno, monstrate pia, placa l’ira tua, seda l’animo, tranquilla la mente, mollifica il tuo core, amplexa l’amoroso affecto. Domina a chi vole tuo servo fidissimo eternalmente famulando servirti. Vale.


SEQUITA LA SUA DOLOROSA HISTORIA POLIPHILO, ET COMO NON SE COMMOVENDO POLIA PER LE DUE EPISTOLE, ELLO LI MANDOE LA TERTIA, ET QUIVI ANCORA ESSA PERDURANDO PIÙ IN LA SUA CRUDELITATE, A CASO POLIPHILO LA RITROVOE NEL TEMPIO DI DIANA SOLA ORANTE, OVE ELLO MORITE. DAPOSCIA NEGLI SUI DOLCI AMPLEXAMENTI RESUSCITOE.

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ADONNA INTEGERRIMA NELI SACRI, et Diva Antista. Daposcia che del mio doloroso impolito et incompto narrare al tuo sancto et benigno conspecto fino ad hora non l’increbbe. Hogi mai tirando al fine il mio prolisso concionare seguiroe brevemente. Auso [p. 449 modifica]complacendoti, quello che amando impremeditatamente achade il più delle fiate, cui intensamente ama. Nel praesente volendo suadere in quelli essere opportuna et utile la perseverantia, intenderai che questa alle mie praedicte epistole, non altramente se movette, né flexe, che il monte Olympo, dagli soluti et effrenati venti se quassa. Ma per tutto ciò, non lassando che io non poteva il cominciato Agone, io li mandai ancora et la tertia epistola, facendo diligente scrutinio, che ella nell’animo suo teniva, overo si il suo core fusse petra cotica, overo di humana materie congesto, tutta via il pervigile Amore assiduamente stimolando, et solo illito et inuncto lo insolente appetito di blandiente speranza. Tale tenore li scripsi.

Più praesto la lingua mia io consumerei ingenua et Nobilissima adolescentula, che unque valesse alquantulo sopra il candido papyro exprimere, quanto faticosa, quanto grave, quanto acerba sia la mia amara poena, che dì et nocte nel languescente core congeminata accresce sencia intermissione, vedendote cusì sorda et displicibile. Et solo perché cognosco etiam te non essere contenta, et saturata ancora degli mei gravi tormenti, non minori unoquantulo, immo excessivamente maiori, di quelli, che io non molto di tempo dui fiate hoti dolcemente scripto. Ma poscia che il fallace, lo inforciato, il saevo, et dolorifico Amore, cum l’impia fortuna et la mia adversatrice stella, necessariamente me constringono ad te ultroneo ancillare et servire, Nympha sopra lo humano capto di miranda bellecia, et di conspicuo et elegante filamento spectatissima. Ma sopra tutto et qualunque altra auso dire, excessivamente spietata et crudele, quale una silvatica et indomita fera, più che lo immanissimo et famelico Leone di Androdo, rigida et displicibile. Le quale cose, il seminio humano mentiscono, et quel tuo mansueto et divo simulachro del tuo venusto aspecto praenitente, et di quella coelica et rara factura denigrante. Di humanitate nuda, et ribellante ad gli amorosi foculi di Cytherea, et al divino Imperio della Solerte natura spretora. Diciò iuridica cagione, et odiosa experientia me prolectante asportano, di dovere dire di tanto tempo appretiabile vanamente consumpto, et cum summa celeritudine volatico fugito, senza modo affectandote, et dì et nocte a quello colloricato, detento, et occupato, et inutile habi deperdito, inflammato et arefacto, amandote, sola electa ad destrugere la mia vita, per quello che io manifesto vedo. Che quanto più te amo, tanto più mi pare che io te indurando lapidisco. Ah Polia pole essere che in te non si trovarebbe uno atomo di pietoso spirito, che tantula gratiosa auditione, cum internuntie epistolette possi trovare in te, né cum praestrepenti sospiri, né cum affluente et sepiculate lachrymule, dagli madidi ochii mei vaporabile, solicite, irrorante, gli quali omni hora piangono E iii [p. 450 modifica]la sua rea conditione et doloroso caso. Che cusì facilmente credetteno, et cum mera fede arbitravano, che la tua incomparabile bellecia havesse sortito et associato sé, cum il congesto inenodabile di qualche dulcitudine di animo. Gli quali ochii cum propera appetentia et flagrante petulantia sono stati causa et primario initio dilla ruina et captivitate dilla vita mia. Né per questo ancora non gli posso cum alcuno temperamine obfrenare, che extremamente non optano quelle remirare. Et quel fulgentissimo Sole che gli hae facti obscurare, et di ricidivare praecipitante nel pernitioso damno. Diqué o spirito coeleste et venerando Idolo mio. Si propitiata al mio scrivere hora non gli concedi adito et audito, forsa è per la mia absentia. Ma amabile Signora mia si in conspecto et praesentialmente me vedesti strugere et languire, et tutto liquabile in lachryme, inseme cum crebescenti sospiri, et me dolcemente dare opera di flectere l’animo tuo, et supplicabondo a misericordia te et a placamento deprecare. Et similmente cum omni riverente et ancillata mansuetudine narrare lo incredibile amore che io ti porto. Et la amaritudine di core che io sustengo et il fastidio dilla già odiosa vita mia. Et quello che per te continuabile miseramente io patisco. Heu me Polia Inclyta, delle Nymphe pulchritudine, son certo che a pietate te commoveresti, et liquidamente cognosceresti che io merito di impetrare favore et praesto adiuto da te. Il quale quando che persistendo pertinace et impia il denegasti renitente, et sì fervido et protervo amore respuente tanto coniectare posso, che tu mi dici che io crepi et mori per te. Modo che conveniente cagione senti di consentire ad tanto male? che laude? che praemio? che victoria? che contento ne potrai unque diciò consequire? Immo vulgatissimo infame notato di vituperabile crudelitate. Et forsa inexorabile vindicta. Dagli vindicatori Dii la quale mai cespitando non lassa fugire il praevio et fugaculo scoelesto. Non volere dunque assentire ad tanto, vituperabile male, ma più praesto cum tua summa corona rendite pia, mite, et placevola. Della quale cosa, et ornamento della tua commendabile bellecia, et longanimitate della nostra caduca vita, et contento, et quiescentia, et suavissimo fructo pullulare et concrescere in breve punctulo, non ingrato sentirai. Perché altro thesoro al mondo tanto pretioso si potria extimare, che dui uniformi amanti. Né più maledicta maligna et improbabile cosa, che tu essere amata, et non amare. Per la quale cosa si al praesente sospitatrice dil mio amore et salutigera ad gli mali mei non te praesti, che voi tu ch’io faci più di questa tristibile vita hogi mai per te tanto nociva et dolorosa? Essendo certo che si obdurata obstinatamente inmitigabile persevererai, immane et stupida, da insopportabile passione, me convignerae fora di essa vita commeare, et per questa via finalmente la tua [p. 451 modifica]iniqua voluntate cessarà, et la granditate del mio dolore. Vale. Per questa via dunque dava opera sedulo di ridure et humanare et essa dolcemente blandire, et di mitigare, solicitando la asperitudine ricevuta dalla iniciata opera ardua et periculosa, ma né essa, né il perfido amore, non consentivano alle mie suasive parole cum alte et iurate sponsione palesemente monstrandoli nuto et sembiante delle mie di omni dolcecia dulcissime fiamme, ella al incontro cum requisita reciprocatione amantime. Et cum omni industriosa arte, et solerte cogitato me sforciava, di accenderla di quel verace, nudo, simplice, et optimo affecto, et amoroso foco, nel quale sencia alcuno rimedio continuamente, quale Pyraulo, me nutriva misello. Et oltra di questo, cum essa infinite fiate, cum la mente fingeva di havere lepido colloquio, et ratiocinandogli audaculo immixti saepicule gli cruciabili eiulati diceva. O Nymphatula mia di core inhumano et ferino, di natura mollicula puella, più che solido Chalybe, et più che Murice saxo durissimo, più tenace che retinente Harpagone, più obstinata che cardinato Tigno. Più mordace di rapiente Gampso, et molto più delle crudele et foedante Harpyie del mio core rapace. Como poli perseverare in tanta duritudine? et impietate? più impia di Mitridate, più saeva di Alchameo, più ingrata di tanta dilectione, che Paride verso Oenone, agli mei precamini, removi dunque questi iniqui abiectamini dal tuo core Nympheo, et questa nota vulgare, et assentissi propitiata alle mie supplice petitione, concedi Signora mia, che io consequiti la desiderata quiete, permetti penetrare l’auditorio tuo, gli mei cruciabili suspiritti, consenti agli mei ardenti amori, et molte et a queste simigliante querimonie et instantie perfuncto, unoquantulo non valeva di movere tale agitamento dal mio continuo dolore. Il quale in me presso, tanto era nelle viscere tutte occupante, et hae tanto alte germinate nel core, le sue amarissime radice, che per altra arte, né via, né modo, si non per la sua speranza praecipua extirpare giamai non so, né posso, né valeo. Et meno proficue erano ancora le gemebonde voce, d’intorno al superbo suo palatio vanamente disperse, più sorda di Icaro, agli moniti paterni, et più displicibile che Cauno alla disperata Biblide. Abominatrice del dolce amore, supersedendo alle false, et consuefacte opinione, nella tenera et virginea aetade solite di indurarse. Et ardua cosa è lassare quello che alcuna fiata nel animo è impresso, enervare non facilmente si pole. D’indi dunque fue lo exordio et origine, che io simplicemente irretito, et complicato, in queste vilupante rete, et fallace decipulo, et in questi subdoli, caduci, incerti, fugaci, et momentanei laquei, et argutie d’amore mancipato. Che sotto questa molesta Tyrannide, et conditione, et misera servitudine subiugato et candidato, trovai uno solo piacere et oblectamento adlubente di amare extremamente essa, né non repugnai alle volante E iii [p. 452 modifica]sagittule del bindato Cupidine. Al quale illece sencia indugio disponentime humilmente acceptai, et tutto me indefesso dedicai observatore delle sue turbulentissime, argute, indagatrice, discole, et effrenate legule, freto della fiducia del angelico aspecto suo, et che tale fusse ancora il suo core, et che la parte cum il tutto convenisse, et il tutto emusicato accedesse alla parte, et non cum disperata harmonia tanto bello, tanto elegante, tanto venusto et mirabile, et divo composito. Sperando ragionevolmente che il sagittario Cupidine, che cusì cruciabilmente vulnerato il tristo core intimamente mi havea, fusse iuridicamente, et al mio inverso amore et pernitioso, tutissimo praesidio, et agli caechi errori incursanti affabile et remediabile propulsore, et in soccorso propero et pio, et al superfluo uredine et ardore congruo temperamento, non d’aliunde però expectando salutare adiuto che da lui. Che ello parilemente trahesse in ella il duro et crudele arco, cum il quale in me diramente hae tracto. Et nel core mio tanto noxio strale sencia rigresso iniecto, vulnerato havea. Et tractando la patora piaga, più la exacerbava in asperitudine, et più congeminava il vulnifico et mortale dolore, ma la sperancia di risarcire l’ampliato vulnere, sempre havendo in ello non haesitante fiducia, che essendo io suo votissimo subiecto et servulo, et sua opulenta praeda, mancipio, captivo, manubio, et spolio, et suo copioso Trophaeo, quel medesimo medicabulo che la pientissima sua Matre et mia Domina, fece al Vulnerato Aenea, ancora et mi sequente la materna pietate adiuterà. Et ancora essendo suo deditissimo, quel medesimo patrocinio praestasse, che la Sancta Vesta alla sua ancilla, et subdita Tucia porrexe benignamente, per il miraculo del cribro, occultata la perpetrata culpa, liberoe dal publico probro, et infame supplicio. Onde cusì como agli amanti sole multipharia advenire, cusì disperato in grave litigio, sencia iudice et parte adversa, io condemnava ambidui al mio exitiale damno coniurati, cum queruli lamenti piangendo incusantili per rei, et exquisiti inimici di omni pia humanitate, hora laetabondo et festivo, rivocava in me la sententia. Alcuna fiata excitato, quale rabido et impatiente cane, mordico della sua retinente cathena, voleva vitare et fugire il duro nodulo del amoroso, ma molesto, laqueo, et disloricarme. Poscia vanamente imaginando fingeva molti et delectevoli solatii et piaceri, false vindicte, temerarii insulti, turbativi periculi, et impavida morte, me ritrovava poscia più strictamente innodato, et solidamente loricato. Per tale altercatione et abortivi appetiti, consumando la mia tribulosa vita, et tra suspiri et amari singulti semiconsumpta, non restato loco che da me cum solicitudine, cura perenne et scrutaria vigilantia non fusse indagato, et perlustrato, rimato, et repetito. Niuna via et angiporto, et quasi ancora per le androne intentata obmissa, [p. 453 modifica]solo explorabondo vigilantissimo et frequentario, et minutamente et angulatamente pervestigando, si essa ritrovare potesse. Advene postremamente, che Amore et la Fortuna in benigno ascenso ritrovantise benignamente pacatissimi. Improvisamente me condusseron nel Sacramentario Tempio, ella inanimadvertente, nel quale essa saepiculate andava, ma occulta. Et quivi ritrovatola sola, celeremente il core excusso omni altra appetentia, quale frameo Leone la praeda insultante, cusì né per altro modo propero ad essa ferocissimo invadente, et cum le extreme virtute derivato et iuncto, et accostatome, di subito liquato, quale cera per foco adhaerente et propinquo, exanimo deveni et consternato. Et ignaro che fare né dire, tandem cusì incominciai cum indolato et incompto parlare humilmente dire. Solo di tutte le force restata a pena la tremula voce, et pauculo di spirito, quasi nelle afflicte fauce interdicta, et l’animo moerente obstupefacta la lingua dicace, et cum tutto il corpo contremiscente gli torpenti membri, lamentabondo. Heu me Polia Aurea et pretiosa Columna del vivere mio, sola consolabile sperancia delle afflictione mie già plusculi dì sono transacti, che te sola fervidissimamente, non tanto ho amato, ma quale una Dea venerabondo honorificata, et cum periniurio degli Dei adorata, cum urente fiamma d’amore, il mio holocausto core immolato, quale facevano gli Sacerdoti sacrificando ad Bellona, et consignatoti il vivere mio, ultroneamente al tuo arbitrio et volere. Et facta sei Omè infoelice indebitamente contra me crudele, et più irritabile expultrice di omni mio bene, quale se fosti da me nocivamente laesa, come Iunone agli Troiani cum magna irascentia persequente. Più noxiamente a mi infesta, che gli Britannici lapilli alle mellificante Ape. Et più pugnace contraria et più differente dal mio volere che la infesta Thetis a Vulcano. Et più molesta che la instabile cauda a Lutio. Più nociva che la scandulace alle frugie, et più che la sonora grandine alle tenerrime frondule. Et più che il urente Phoebo agli vernanti fiori et herbidi prati. Finalmente volendo io cum omni dulcitudine di core, cum allubente et mansueto parlare delinire, placare, propitiare allubescendo essa, et dimoverla dal immite et obstinato proposito, et divertire et retrogradare la dira et truculenta voluntate, et di tranquillare tante sue turbelle, et l’animo suo inconsentaneo et indecente, et reflectere a pietate et misericordia, et la ferocitate sua moderare, et il suo morbido core di saevitia cum lachryme et suspiri medicare, et alla charitate et penuria di dilectione, cum foetoso amore opitulare, blandiendo lepida et dolcemente, cum profuse lachrymule et [p. 454 modifica]penosi fleti, et soluti suspiri, sedulo di ridure il rigido pecto, et aptamente amollire et allentarlo, quale tenera virgula et vinco, la quale unque tanto fragile et arefacta se praesta, che ancora per latice, et cum foculo, et modulo, non se contorqui, et fia strophia all’altre. Ma questa, quantunque che il fragile et molliculo sexo suo sia flexile, et di amore uribile, niente dimanco, né cum il mio succenso amore, né cum abondante lachryme, che tanto anxiosamente non pianse per il caro Osiri, la afflicta Iside, né cum blandiente modo, né infocare, né mollificare, né provocare valeva al dolce amplexo del mio cordialissimo amore. Non si poteva pervertire né non si mutava per niuno modo, offerendogli puramente il più sincero et di omni altro amore examurcato core, et praenitido affecto, non fue quello il quale dimonstroe Tiberio Graccho alla sua dilectissima coniuge Cornelia, credulo al prodigio degli dui serpi. Et magiore di quello di Alceste regina, per il carissimo marito, volse subire all’ultronea morte. Et più sencia comparatione, non fue lo amore, che dimonstroe quella, che per il marito fleto et declamato al ardente rogo, deglutire volse gli carboni accensi et cum magiore dill’amantissima Panthia al suo consorte. Et cum più amicabile dilectione di Pylade verso il suo Oreste. Hora all’ultimo tractabile volendo disponere, et conducere, perseverava il suo silvestrico et ferino core et mansuefare, et domesticarlo a qualche humanitate et dulcitudine. Il quale se induritava persistente incontaminato indomito, immoto, et crudamente lapidescente. Non altramente ignaro di mansuetudine, et exempto di pietate, si essa nata fusse in Hyrcania, overo nella silva de Ida di tenebre obstrusa, tra le ruvide et torose querce, et validi roburi. Overo nel monte Ismaro, overo tra li Anthropophagi oriunda. Et tra le horrende furie di Cyclope, et nella intercavata spelunca di Caco alumna, et tra le Sirte. Per la quale immanitate constantemente io perseverabondo nelle cruciose exasperatione, et non simulata doglia et moerore, novamente et più noxii principiorono gli rauci suspiri nel mio flammido pecto, più che ’l mugire d’uno famescente, overo febrescente Leone, in sonoro et latebroso Antro, overo speco. Ricogitando invano omni mia fatica perfuncta, per la pertinacia sua probamente pensiculando, che imperforato dolio exhaurire non si pole, quasi diffiso et desperato di tanto arduo incepto, et negli piangenti ochii cum frequente scaturigine, infinite lachryme cumulando, più dolorosamente che la cruciata Myrrha nel duro cortice praestillante. Onde più del iusto improbamente sencia modo, oltra il principio et vegetamento di questa mia affectuosa et invalentia aegritudine, me ritrovava nel stato, cum multiplicato incremento, et congeminato augmento del mio indesinente