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ad gli derosi littori el doloroso et ingrato decessio del natante Leandro caldamente sospirava. Io Poliphilo sopra el lectulo mio iacendo, opportuno amico del corpo lasso, niuno nella conscia camera familiare essendo, se non la mia chara lucubratrice Agrypnia, la quale poscia che meco hebbe facto vario colloquio consolanteme, palese havendoli facta la causa et l’origine degli mei profundi sospiri, pietosamente suadevami al temperamento de tale perturbatione. Et avidutase de l’ora che io già dovesse dormire, dimandò licentia. Diqué negli alti cogitamenti d’amore solo relicto, la longa et taediosa nocte insomne consumando, per la mia sterile fortuna et adversatrice et iniqua stella tutto sconsolato, et sospiroso, per importuno et non prospero amore illachrymando, di puncto in puncto ricogitava, che cosa è inaequale amore. Et come aptamente amare si pole, chi non ama, et cum quale protectione da inusitati et crebri congressi assediata, et circumvenuta da hostile pugna, la fluctuante anima possi tanto inerme resistere, essendo praecipue intestina la seditiosa pugna, et assiduamente irretita di soliciti, instabili et novi pensieri. De cusì facto et tale misero stato, havendome per longo tracto amaramente doluto, et già fessi gli vaghi spiriti de pensare inutilmente, et pabulato d’uno fallace et fincto piacere ma dritamente et sencia fallo d’uno non mortale, ma più praesto divo obiecto di Polia, la cui veneranda Idea in me profundamente impressa, et più intimamente insculpta occupatrice vive. Et già le tremule et micante stelle incohavano de impallidire el suo splendore, che tacendo la lingua, quel nemico desiderato, dal quale procede questo tanto et indesinente certame, impatiente solicitando el core sauciato, et per proficuo et efficace remedio el chiamava indefesso. Il quale altro non era che innovatione del mio tormento, sencia intercalatione, crudele. Cogitabondo et la qualitate degli miselli amatori, per quale conditione per piacere ad altri dolcemente morire optano, et piacendo ad sé malamente vivere. Et el frameo disio pascere, et non altramente, de laboriose et sospirabile imaginatione. Dunque quale homo, che dapò le diuturne fatiche lasso, cusì né più né meno, sedato apena el doloroso pianto exteriore alquanto, et inclaustrato el corso delle irrorante lachryme le guance d’amoroso languore lacunate, desiderava hogimai la naturale et opportuna quiete. Hora li madidi ochii uno pocho tra le rubente palpebre rachiusi, sencia dimorare tra vita acerba, et suave morte. Fue invasa et quella parte occupata et da uno dolce somno oppressa, la quale cum la mente et cum gli amanti et pervigili spiriti non sta unita né participe ad sì alte operatione. O Iupiter altitonante, foelice o mirabile o terrifica, dirò io questa inusitata visione, che in me non sa trova atomo che non tremi et ardi excogitandola. Ad me