Guerino detto il Meschino/Capitolo XXI

Capitolo XXI

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CAPITOLO XXI.


Il Meschino s’incontra in messer Dionino, e segue suo viaggio con lui.


P
assati molti deserti, cavalcando il Meschino verso la Libia, su per il lago meridiano, in sull’ora di mezzo giorno, udì levarsi per il paese gran rumore, e temè di non essere assalito, come fu venendo in Egitto, da’ pastori o da’ cani. Essi corsero per vedere, e videro fuggire gli uomini da’ leoni, e le femmine cacciar i leoni, essendogli stato detto ch’eran leoni ch’andavano in amore, e però gli uomini fuggivano innanzi, e le femmine dietro a loro. Di questo dimandò la sera, dov’ei albergò con que’ pastori, che gli fecero onore di latte, di grano, alesso con sale e carne. Rispose un di loro: — Il leone fugge per vergogna di combattere con sì vil cosa com’è la femmina, per questo si può comprendere la franchezza del leone e il suo senno». Ancora disse che certi lioncelli giovinetti si erano alcuna volta veduti volgere alle donne, e come i leoni grandi li avevano morsicati e fatti fuggire per questo folto e oscuro bosco, acciò non si volgessero a sì fragile cosa, com’è la femmina nell’umana natura. La mattina tolto commiato, il Guerino partì verso la [p. 197 modifica]Morea cavalcando, e lasciò questo luogo a man sinistra, e passarono per il deserto dove passò Catone capitano romano. Passarono molto selve, valloni, acque morte e puzzolenti, finchè il settimo giorno giunsero ad una città detta Avena, ch’ha un bellissimo porto sul mare, chiamato Maleso. Ed a questo porto trovò sua ventura, come piacque a Dio; e ogni mattina diceva le sue orazioni pregando Dio che gli desse grazia di ritrovare il padre suo e la sua generazione, e andando cominciò a predicare a’ suoi interpreti per farli battezzare. Dimandò che mare era quello dove eran giunti. Gli dissero che quello era il mare Libico, e che quelle parti di là dal mar Cailes in verso ponente erano la terza parte del mondo chiamata Affrica, e dissergli ancora che dirimpetto a loro, passando questo mare, era la Grecia, e verso tramontana era Italia e l’isola di Sicilia, e poco più in là la Sardegna, la Corsica, e poi la Provenza, la Francia, l’Arragona, il golfo di Spagna, Granata, in fine lo stretto di Gibilterra; e questa parte era chiamata Europa.

Il Meschino sentendo tante provincie quante gli venner raccontate, cominciò a combattere e parlare della fede cristiana. Poi dimandò a loro che cosa era Maometto, ed essi congiurati risposero che era lor grande Dio, appresso Dio grande. Guerino disse come Maometto tradì tutta la lor legge, e come Ippolito fece perder tutta la lor regione saracena per signoreggiare, e come Apolline fu il primo medico, e però fu chiamato Dio della sapienza, e come Belzebù fu Bel Binivo, che viene a dire il Dio delle mosche, e che non si doveva adorare niun corpo corruttibile e mortale, se non il vero Dio in Trinità; però niun corpo corruttibile e mortale per forza non poteva essere Dio; ma solo il corpo di Cristo è senza macchie e corruzione, per molti miracoli fatti, cioè risuscitar i morti, illuminar i ciechi, sanare gli infermi, e dar dottrina al mondo, e patir pena per noi ricomprare, e ch’egli morto sulla croce, diede testimonio della risurrezione per l’Evangelio. Poi ragionò delle cose che egli aveva veduto in Grecia e in levante, e come Gesù Cristo l’aveva sempre aiutato. Per tutte quelle parole non si tolsero della loro falsa opinione. Così per molti giorni camminò, e venne a una città chiamata Mescia Amara, la quale fu la prima terra [p. 198 modifica]che trovasse passato il deserto di Libia. E partiti di qui passarono per due villaggi, ove era molto bestiame, e dove ebbe buona ventura.

Quando si partirono dalla città di Mescia, dopo due giorni, su l’ora del mezzo dì, sentirono gran rumore dei paesani. Il Guerino dimandò che voleva dire quel gran rumore, gli si rispose: — È una nave di cristiani che ha percosso per fortuna in ispiaggia». Ed essi corsero subito con loro per veder la nave, e nissuno n’era campato, ed era tre giorni durata la burrasca con gran tempesta di mare, e di vento, e tre navi di gentiluomini inglesi che andavano al S. Sepolcro di Gerusalemme sforzate dal vento percossero a terra. Quando giunsero essi erano tutti morti, salvo un cavaliere che si teneva in mare, attaccato ad un pezzo della rotta nave, ed era nell’acqua sino alla cintura, con la spada in mano, ed aveva uccisi quattro di costoro ch’avevano voluto accostarsi a lui. Quando il Meschino vide costui in tanto pericolo, e che s’ingegnavano di saettarlo e lanciargli dardi, tanta pietà gli venne di lui, ch’egli lagrimò pensando di sè medesimo, e pensò che il Santo Evangelio dice: Ama il tuo prossimo come te medesimo; e disse tra sè: se io non aiuto il prossimo, come aiuterà Dio me? e cominciò gridar a quella canaglia: — Fatevi indietro, egli si renderà, e donategli la vita». Quella gente cominciò a minacciar lui. Per questo s’adirò il Meschino, dicendo: «O gente villana, superba, e senza legge», e trasse la spada urtando tra loro con il cavallo, e gettonne dieci per terra come il leone nella turba delle pecore, e così ruinò questa canaglia cacciandoli dal campo. Poi tornò alla rotta nave, e chiamò quel cavaliero che venne verso di lui; dissegli allora l’altra guida: — O Meschino, tu hai fatto male ad uccidere gli uomini. — Male hanno fatto eglino prima uccidendo uno dei nostri!» rispose il Meschino. Poi andando verso quel cavaliero, ei si gettò in ginocchioni, ed a lui si raccomandò, dicendo: «Lodato sia Dio ch’io non sarò prigione di villani, ma di un cavaliero». Guerino gli dimandò come aveva nome, e donde egli era; l’altro rispose:

— Io ho nome Dionino, e sono inglese di un’isola che è in ponente, ed è chiamata per antica Bretagna, ed ora si [p. 199 modifica]chiama Inghilterra, e son gentiluomo». Gli dimandò se egli era cristiano; rispose di sì, ch’era cristiano, e che cristiano voleva morire. Quando ciò intese il Meschino, lagrimò e disse: — O gentiluomo, non dubitare, imperocchè son cristiano come tu, e saremo insieme fratelli». Allora smontò da cavallo, e tolse delle arme del suo compagno, e di tutto lo aiutò ad armare, tolse quindi il cavallo dell’interprete morto, e lo fece montar da lui con la lancia in mano, e partiti dalla riva, andarono verso l’Affrica. Allora messer Dionino disse al Meschino com’egli andava al Santo Sepolcro di Cristo, e come la fortuna lo aveva condotto. E cavalcando molto confortati, sentivano gran rumore per il paese, ed essendo a piedi di una gran montagna, gli vennero addosso molti di quella canaglia e alcuno a cavallo. Il Meschino si volse a messer Dionino, e dimandogli che gli diceva il cuore di fare. Rispose: — S’io avessi buon cavallo, in tutto questo giorno non mi piglierebbe questa canaglia». Il Meschino lo intese perchè sapeva latino e un po’ di greco, e per questo si confortò. La gente era già appresso con gran grida, il Meschino e il compagno impugnarono la lancia, raccomandaronsi uno e l’altro a Dio, e andarono contra i nemici. Disse il Meschino esservi quattro generazioni di gente che non hanno regola in sè, e prima i Tiranni, secondo i Barattieri, la terza i censuari e corrieri, la quarta i marinari. Nella maggior parte di costoro non è amore, nè carità, nè timor di Dio, e sempre la vita loro vanno stentando. Così è questa canaglia. Essa tuttavia gli veniva addosso, e Guerino spronò il cavallo e venne a combattere, lasciando addietro Dionino. Si voltò poscia temendo di lui, e videlo francamente con la spada in mano ferir i nemici. Intanto combattendo, e tuttavia passando per mezzo questa canaglia, che facevano molti più gridi e più voci che fatti esistevano, vide nella montagna due castelli, e gente che discendeva meglio in punto che questi con cui erano alle mani. Disse messer Dionino: — Questa gente che viene è meglio ordinata che questa canaglia». Rispose il Meschino: — A me pare che questa gente sia più potente di noi, e ci potrebbe offendere, però fuggiamo verso la marina, chè per forza dei cavalli ci conviene scampare»: e mentre che il Meschino parlava udì levare gran rumore da [p. 200 modifica]questa canaglia, che in più parti cominciarono a fuggire, e lasciarono il Guerino ed il compagno. Il Meschino di questo si maravigliò, e levò alta la visiera, e pose mente a quelli che discendevano da questa montagna, i quali assaltavano questa canaglia, uccidevano e ferivano con gran furore. Eglino di questo si maravigliarono, e disse il Meschino: — Andiamo per i fatti nostri, questo è miracolo di Dio», e Dionino come gentil cavaliero disse: — La nostra sarebbe ingratitudine a non sapere chi sono costoro che in nostro aiuto sono venuti». Per queste parole conobbe il Meschino che era nobile cavaliero, e voltossi verso quella gente, i quali quando videro il Meschino andare verso loro si ritirarono all’alto dubitando di qualche inganno. Pur uno di loro molto adirato e ben armato se gli fece incontro, dimandogli fidanza, e il Meschino a lui, e fidati, s’approssimarono, e quello gli disse: — O gentil cavaliero, non vi maravigliate della mia domanda, perchè questi nostri amici sono più miei nemici che vostri; non so io che questione con voi avessero, ma il veder tanti villani addosso due cavalieri ci fece ridere. E il Meschino rispose, e disse, come la sua questione cominciasse; e come veniva d’Egitto, ed era stato capitano del Soldano contro gli Arabi. Il cavaliero disse a sua volta: — Nobili signori, la cagione della nostra questione è che in sul lago, che è al lato di questa montagna, sono due città molto belle e bene popolate. Mille anni è che i miei antecessori le hanno signoreggiate, e sempre siamo stati gentiluomini. Ora sono di due fratelli signori della Morea, l’uno ha nome Artilaro, e l’altro Almonido, che senz’alcuna ragione, già dieci anni mi uccisero mio padre in casa loro, in una città detta Parlofida. Il minore, cioè Almonido, con quanta gente poteva fare, venne a mettere campo addosso a quelle due città con le bandiere di mio padre, e ambedue le prese, ed io che era di età di dodici anni, fui campato in questi due castelli, e mi è fatica il vivere, nè mai potei aver accordo con lui; ma perchè le castella sono forti, mi ha lasciato stare, ed egli si tiene queste due città, la prima detta Tarasos, l’altra Amasia, e più di venticinque altri castelli, sicchè se noi abbiamo fatto questo, non vi maravigliate, e pregovi per il danno che avete [p. 201 modifica]fatto a’ miei nemici che voi in cortesia veniate a riposarvi in quel castello, e in questo mezzo passata questa furia de’ villani, potrete andare più sicuri, e avrete qualche buona guida». Il Meschino dubitò d’andare, e dubitando per il cammino, disse: — Noi siamo cristiani. — Di questo sono io più allegro, rispose, perchè di voi mi potrò fidare contra il mio nemico», e per il suo sacramento si fidarono di andare in sua compagnia verso il primo castello chiamalo Caltos.

Benchè Artilafo li avesse affidati per sacramento, messer Dionino pure dubitava; ma il Meschino lo confortò tanto, che si assicurò. Entrarono nel castello dove stettero tre giorni, e dovevano partirsi la quarta mattina. Ma la notte vegnente si levò il rumore per il castello, perchè i nemici vi si erano accampati di fuora, e quando fu giorno videro le loro bandiere, e già erano accampati d’intorno più di ventimila Saraceni, ed era il loro signore Almonido, il quale mandò un trombetta dimandando qual era il Meschino. Il Meschino si volse, e rispose: «Io sono quello»; egli disse: — Il mio signore ti manda a dire che per il salvocondotto del Soldano ti vuol lasciar andare, che tu certo sarai sicuro, e che tu venga con me: da oggi in là non ti fidare se non della morte». Disse il Meschino: — Come sa il tuo signore che io abbia nome Guerino?» Rispose colui: — Per l’interprete che era teco». Allora messer Dionino rispose, e disse: — Nobil cavaliere, domanda che vuol fare di me», ei rispose a messer Dionino: — Credete ch’io voglia campar senza voi, credete voi che Artilafo il qual ci diede soccorso, voglia senza merito lasciarmi?» E voltosi, disse: — Torna al tuo signore, e digli da mia parte che il Meschino non si vuol partire di questo paese se prima non rende le terre ad Artilafo, che gli ha tolte Almonido». Il messo rispose: — Io tornerò da lui, ma voi avete preso mal consiglio». Artilafo tremava di paura che il Meschino non si partisse, e parlando con il Meschino e con messer Dionino, disse: — Ad ogni modo io son disfatto». Disse il Meschino: — Non dubitate, e tenete qual fede che vi piace», ed andò con lui vedendo le mura, e com’era forte il castello. E benchè tutte le terre di Affrica e di Libia sieno di terra, nondimeno il castello era forte. Ordinate le guardie da ogni [p. 202 modifica]lato una mattina entrò Artilafo in camera del Meschino, e trovollo in ginocchioni alla spada, e pregollo, che gli dicesse perchè adorava la spada, se per amore di Marte dio delle battaglie. Guerino gli predicò l’avvenimento di Cristo, come, e perchè prese corpo umano, per il peccato di Adamo nostro parente, come fu, per emendar questo peccato, posto in sul legno della Croce, e perchè la spada aveva la croce, si voltava alla spada per rammemorare la Passione di Cristo. Per queste parole ispirato da Dio, pregò Guerino che lo battezzasse, e secretamente lo battezzò, poi giurato fratellanza sino che questa guerra fosse finita, mai non si partì l’uno dall’altro, se per morte non fosse stato. Artilafo gli disse: — Io vorrei anche, se fossi vendicato contra coloro che m’hanno ucciso il mio padre e i miei fratelli, di presente morire». Guerino lo confortò, che non dubitasse, che la sua spada aveva raffrenata altra superbia che quella di due morti, e ch’egli avesse buona speranza in Dio, nel cui nome era battezzato. Per cinque giorni attesero poi a fortificare la terra di ciò che si potè, e a buona guardia.