Atto IV Commedie del Cinquecento, Vol. I - Nota

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ATTO V

SCENA I

Virginio, Stragualcia, Scatizza, Gherardo e Pedante.

Virginio. Venite con me quanti voi séte. Stragualcia, vien tu ancora.

Stragualcia. Con l’arme o senza? Io non ho arme.

Virginio. Tolle costi, in casa dell’oste, qualche arme.

Scatizza. Padrone, con targone bisognarebbe una lancia.

Virginio. Non mi curo piú di lancia. Mi basta questo. .

Scatizza. Questa rotella sarebbe piú galante per voi, essendo in giubbone.

Virginio. No; questa copre meglio. Oh! Par che questo montone m’abbia trovato a furare. Ho paura che ’l non abbia amazzata quella povera figliuola.

Stragualcia. Questa è buona arme, padrone. Io lo voglio infilzare con questo spedone come un beccafico.

Scatizza. Oh! Che vuoi tu far dell’arrosto?

Stragualcia. Son pratico in campo; e so che, la prima cosa, bisogna far prò vision di vettovaglia.

Scatizza. Oh! Cotesto fiasco perché?

Stragualcia. Per rinfrescare i soldati, se alla prima battaglia fusser ributtati indrieto.

Scatizza. Questo mi piace; che ei avverrá.

Stragualcia. Volete che, insieme insieme, infilzi il vecchio e la figliuola, i famegli, la casa e tutti come fegatelli? Al vecchio cacciarò lo spedone in culo e faroglielo uscir per gli occhi; gli altri tutti a traverso come tordi.

Virginio. La casa è aperta. Costoro aran fatto qualche imboscata. [p. 388 modifica]

Stragualcia. Imboscata? Mal va. Io ho piú paura del legname che delle spade. Ma ecco il maestro che esce fuora.

Pedante. Lasciate fare a me, ch’io vi do la cosa per acconcia, messer Gherardo.

Stragualcia. Guardatevi, padrone: che questo maestro si potrebbe essere ribellato e accordato coi nimici; che pochi si I trovan de’ suo’ pari che tenghino il fermo. Volete ch’io cominci a infilzarlo e ch’io dica «e uno»?

Pedante. Messer Virginio, padrone, perché queste arme?

Stragualcia. Ah! ah! Non tei dissi io?

Virginio. Che è della mia figliuola? Diemela, ch’io lavo’ (menare a casa mia. E voi avete trovato Fabrizio?

Pedante. Si, ho.

Virginio. Dov’è?

Pedante. Qui dentro, che ha tolto una bellissima moglie, I se ne séte contento.

Virginio. Moglie, ch? e chi?

Stragualcia. Molto presto! Ricco, ricco!

Pedante. Questa bella e gentil figliuola di Gherardo.

Virginio. Oh! Gherardo, testé, mi voleva amazzare.

Pedante. Rem omnem a principio audies. Entriamo in casa, che saprete il tutto. Messer Gherardo, venite fuora.

I Gherardo. O Virginio, il piú strano caso che fusse mai al mondo! Entra.

Stragualcia. Infílzolo? Ma gli è carne da tinello.

Gherardo. Fa’ metter giú queste arme, che gli è cosa da ridere.

Virginio. Follo sicuramente?

Pedante. Sicuramente, sopra di me.

Virginio. Orsú! Andate a casa, voi altri, e ponete giú l’armi e portatemi la mia veste.

Pedante. Fabrizio, viene a conoscer tuo padre.

Virginio. Oh! Questa non è Lelia?

Pedante. No; questo è Fabrizio.

Virginio. O figliuol mio!

Fabrizio. O padre, tanto da me desiderato! [p. 389 modifica]

Virginio. Figliuol mio, quanto t’ho pianto!

Gherardo. In casa, in casa, che tu sappia il tutto. E piú ti dico, che tua figliuola è in casa di Clemenzia sua balia.

Virginio. O Dio, quante grazie ti rendo!

SCENA II

Crivello, Flamminio e Clemenzia balia.


Crivello. Io l’ho veduto in casa di Clemenzia balia con questi occhi e udito con questi orecchi.

Flamminio. Guarda che fusse Fabio.

Crivello. Credete ch’io noi conoscesse?

Flamminio. Andiam lá. S’io ’l truovo...

Crivello. Voi guastarete ogni cosa. Abbiate pazienzia fino ch’egli esca fuore.

Flamminio. E’ noi farebbe Iddio ch’io avessi piú pazienzia.

Crivello. Voi guastarete la torta.

Flamminio. Io mi guasti. Tic, toc, toc.

Clemenzia. Chi è?

Flamminio. Un tuo amico. Viene un poco giú.

Clemenzia. Oh! Che volete, messer Flamminio?

Flamminio. Apre, che tei dirò.

Clemenzia. Aspettate, ch’io scendo.

Flamminio. Com’ell’ha aperto l’uscio, entra dentro; e mira se vi è; e chiamami.

Crivello. Lasciate fare a me.

Clemenzia. Che dite, signor Flamminio?

Flamminio. Che fai, in casa, del mio ragazzo?

Clemenzia. Che ragazzo? E tu dove entri, prosuntuoso?

vuoi intrare in casa mia per forza?

Flamminio. Clemenzia, al corpo della sagrata, intemerata, pura, se tu non mei rendi...

Clemenzia. Che volete ch’io vi renda?

Flamminio. Il mio ragazzo che s’è fuggito in casa tua. [p. 390 modifica]

Clemenzia. In casa mia non vi è servidor nissun vostro; ma si bene una serva.

Flamminio. Clemenzia, e’ non è tempo da muine. Tu mi sei stata sempre amica, ed io a te; tu m’hai fatti de’ piaceri, ed io a te. Or questa è cosa che troppo importa.

Clemenzia. Qualche furia d’amor sará questa. Orsú, Flamminio! Lasciatevi un poco passar la collera.

Flamminio. Io dico, rendemi Fabio.

Clemenzia. Vel renderò.

Flamminio. Basta. Fallo venir giú.

Clemenzia. Oh! Non tanta furia, per mia fé! che, s’io fussi giovane e ch’io vi piacessi, non m’impacciarci mai con voi. E che è di Isabella?

Flamminio. Io vorrei che la fosse squartata.

Clemenzia. Eh! Voi non dite da vero.

Flamminio. S’io non dico da vero? Ti so dir che la m’ha chiarito!

Clemenzia. E si! A voi giovinacci sta bene ogni male, che séte piú ingrati del mondo.

Flamminio. Questo non dir per me: ch’ogni altro vizio mi ^ si potrebbe forse provare; ma questo dell’essere ingrato, no, che piú mi dispiace che ad uom che viva.

Clemenzia. Io non lo dico per voi. Ma è stata in questa terra una giovane che, accorgendosi d’esser mirata da un cavaliere par vostro modanese, s’invaghi tanto di lui che la non vedeva piú qua né piú lá che quanto era longo.

Flamminio. Beato lui! felice lui! Questo non potrò giá dir io.

Clemenzia. Accadde che ’l padre mandò questa povera giovane innamorata fuor di Modena. E pianse, nel partir, tanto che fu maraviglia, temendo ch’egli non si scordasse di lei.

Il qual, subito, ne riprese un’altra, come se la prima mai non avesse veduta.

Flamminio. Io dico che costui non può esser cavaliere; anzi, è un traditore.

Clemenzia. Ascolta: c’è peggio. Tornando, ivi a pochi mesi, la giovane e trovando che ’l suo amante amava altri e [p. 391 modifica]da quella tale egli era poco amato, per fargli servizio, abban-) donò la casa, suo padre e pose in pericolo l’onore; e, vestita da famiglio, s’acconciò con quel suo amante per servitore.) Flamminio. È accaduto in Modena questo caso?

Clemenzia. E voi conoscete l’uno e l’altro.

Flamminio. Io vorrei piú presto esser questo aventurato amante che esser signor di Milano.

Clemenzia. E che piú? Questo suo amante, non la conoscendo, l’adoperò per mezzana tra quella sua innamorata e lui; e questa poveretta, per fargli piacere, s’arrecò a fare ogni cosa.

Flamminio. Oh virtuosa donna! oh fermo amore! cosa veramente da porre in esempio a’ secoli che verranno! Perché non è avvenuto a me un tal caso?

Clemenzia. Eh! In ogni modo, voi non lasciareste Isabella.

Flamminio. Io lasciarci, quasi che non t’ho detto Cristo, per una tale. E pregoti, Clemenzia, che tu mi facci conoscer chi è costei.

Clemenzia. Son contenta. Ma io voglio che voi mi diciate prima, sopra alla fede vostra e da gentiluomo, se tal caso fusse avvenuto a voi, quello che voi fareste a quella povera giovane e se voi la cacciareste, quando voi sapesse quello che la v’ha fatto, se l’uccidereste o se la giudicareste degna di qualche premio.

Flamminio. Io ti giuro, per la virtú di quel sole che tu vedi in cielo, e ch’io non possa mai comparire dove sien gentiluomini e cavalieri par miei, s’io non togliesse prima per moglie questa tale, ancor che fusse brutta, ancor che la fusse povera, ancor che la non fusse nobile, che la figliuola del duca di Ferrara.

Clemenzia. Questa è una gran cosa. E cosí mi giurate?

Flamminio. Cosí ti giuro; e cosí farei.

Clemenzia. Tu sia testimonio.

Crivello. Io ho inteso; e so ch’egli il farebbe.

Clemenzia. Ora io ti vo’ far conoscer chi è questa donna e chi è quel cavaliere. Fabio! o Fabio! Vien giú al signor tuo che ti domanda. [p. 392 modifica]

Flamminio. Che ti par, Crivello? Parti ch’io amazzi questo traditore o no? Egli è pure un buon servitore.

Crivello. Oh! Io mi maravigliavo ben, io! Sará pur vero quello ch’io mi pensavo. Orsú! Perdonategli: che volete fare? In ogni modo, questa chiappola d’Isabella non vi volse mai bene.

Flamminio. Tu dici il vero.

SCENA III

Pasquella, Clemenzia, Flamminio, Lelia da femina e Crivello.


Pasquella. Lasciate fare a me: che gli dirò quanto me avete detto, che ho inteso.

Clemenzia. Questo è, messer Flamminio, il vostro Fabio. Miratei bene: conoscetelo? Voi vi maravigliate? E questa medesima è quella si fedele e si costante innamorata giovane di chi v’ho detto. Guardatela bene, se la riconoscete o no. Voi séte ammutito, Flamminio? Oh! Che vuol dire? E voi séte quel che si poco apprezza l’amor della donna sua. E questo è la veritá. Non pensate, d’essere ingannalo. Conoscete se io vi dico il vero. Ora attenetemi la promessa o ch’io vi chiamarò in steccato per mancatore.

Flamminio. Io non credo che fusse mai al mondo il piú bello inganno di questo. È possibile ch’io sia stato si cieco ch’io non l’abbi mai conosciuta?

Crivello. Chi è stato piú cieco di me che ho voluto mille volte chiarirmene? Che maladetto sia! Oh! ch’io son stato il bel da poco!

Pasquella. Clemenzia, dice Virginio che tu venga adesso adesso a casa nostra perché gli ha dato moglie a Fabrizio suo figliuolo che è tornato oggi; e bisogna che tu vada a casa per metterla in ordine, che tu sai che non vi sono altre donne.

Clemenzia. Come moglie? E chi gli ha data?

Pasquella. Isabella, figliuola di Gherardo mio padrone.

Flamminio. Chi? Isabella di Gherardo Foiani tuo padrone o pure un’altra? [p. 393 modifica]Pasquella. Un’altra? Dico lei. Flamminio, sapete bene che porco pigro non mangia mai pera marce.

Flamminio. È certo?

Pasquella. Certissimo. Io son stata presente a ogni cosa; io gli ho veduto dare l’anello, abbracciarsi, baciarsi insieme e farsi una gran festa. E, prima che gli desse l’anello, la padrona gli aveva dato... so ben io.

Flamminio. Quanto ha che questo fu?

Pasquella. Adesso, adesso, adesso. Poi mi mandorno, correndo, a dirlo a Clemenzia e a chiamarla.

Clemenzia. Digli, Pasquella, ch’io starò poco poco a venire. Va’.

Lelia. O Dio, quanto bene insieme mi dai! Io muoio d’allegrezza.

Pasquella. Sta’ poco, che io ancora ho tanto da fare che guai a me! Voglio ire adesso a comprare certi lisci. Oh! Io m’ero scordata di domandarti se Lelia è qui in casa tua; che Gherardo gli ha detto di si.

Clemenzia. Ben sai che la v’è. Vuol forse maritarla a quel vecchio messer Fantasima di tuo padrone? che si doverebbe vergognare.

Pasquella. Tu non conosci bene il mio padrone: che, se tu sapesse come gli è fiero, non diresti cosi, eh!

Clemenzia. Si, si; credotelo: tu ’l debbi aver provato.

Pasquella. Come tu hai fatto il tuo. Orsú! Io vo.

Flamminio. A Gherardo la vuol maritare?

Clemenzia. Si, trista a me! Vedi se questa povera giovane è sventurata.

Flamminio. Tanto avesse egli vita quanto Pavera mai. In fine, Clemenzia, io credo che questa sia certamente volontá di Dio che abbia avuto pietá di questa virtuosa giovane e dell’anima mia; ch’ella non vada in perdizione. E però, madonna Lelia, quando voi ve ne contentiate, io non voglio altra moglie che voi; e promettovi, a fé di cavaliere, che, non avendo voi, non son mai per pigliar altra.

Lelia. Flamminio, voi mi séte signore e ben sapete, quel [p. 394 modifica]ch’io ho fatto, per quel ch’io l’ho fatto; ch’io non ho avuto mai altro desiderio che questo.

Flamminio. Ben l’avete mostrato. E perdonatemi, se qualche dispiacere v’ho io fatto, non conoscendovi, perch’io ne son pentitissimo e accorgomi dell’error mio.

Lelia. Non potreste voi, signor Flamminio, aver fatta mai cosa che a me non fusse contento.

Flamminio. Clemenzia, io non voglio aspettare altro tempo, che qualche disgrazia non m’intorbidasse questa ventura. Io la vo’ sposare adesso, se gli è contenta.

Lelia. Contentissima.

Crivello. Oh ringraziato sia Dio! E voi, padrone, signor Flamminio, séte contento? E avertite ch’io son notaio; e, se noi credete, eccovi il privilegio.

Flamminio. Tanto contento quanto di cosa ch’io facesse giá mai.

Crivello. Sposatevi e poi colcateyi a vostra posta. Oh! Io non v’ho detto che voi la baciate, io.

Clemenzia. Or sapete che mi par che ci sia da fare? Che ve ne intriate in casa mia, in tanto ch’io andarò a fare intendere il tutto a Virginio e darò la mala notte a Gherardo.

Flamminio. Va’, di grazia; e contalo ancora a Isabella.

SCENA IV

Pasquella e Giglio spagnuolo.


Giglio. Por vida del rey, que está es la vellacca di Pasquella que se burlò de mi y urtommi mis quentas per enganno. Oh corno me huelgo de topalla!

Pasquella. Maladetto sia questo appoioso! Ben mi s’è dato testé tra’ piei, che possi egli rompere il collo con quanti ne venne mai di Spagna! Che scusa trovarò ora?

Giglio. Signora Pasquella!

Pasquella. La cosa va bene. Io son giá fatta signora. [p. 395 modifica]

Giglio. Vos me haveis burlado y mi tolleste mio rosario e non fazieste lo que me teniades promettido.

Pasquella. Zi! zi! zi! Sta’ queto, sta’ queto.

Giglio. Por que? es ninguno a qui que nos oda?

Pasquella. Zi! zi! zi!

Giglio. Io non veo a qui ninguno. Non m’engagnarete otra volta. Que dezite voi?

Pasquella. Tu mi vói rovinare.

Giglio. Tu mi vói ingagnare.

Pasquella. Va’ via, lasciami stare adesso; che ti parlarò otra volta.

Giglio. Renditeme mio rosario y despues parlate lo que volite, que non quiero que podiate dezir que m’engagnaste.

Pasquella. Tel darò. Credi ch’io l’abbi qui? Tu credi forse ch’io ne facci una grande stima? Mi mancare delle corone, s’io ne vorrò!

Giglio. Por que m’enseraste de fuore y despues aziades musigas y dizieste non so que «Fantasmas, fantasmas» y non so que orazion y non so que traplas?

Pasquella. Di’ piano. Tu mi vuoi rovinare. Ti dirò ogni cosa.

Giglio. Que cosa? Que noi dezite?

Pasquella. Tirate piú in qua in questo canto, che la padrona non vegga.

Giglio. Burlatime otra volta o no?

Pasquella. Ben sai ch’io ti burlo. Son forse avvezza a burlare, ch? Vero, ch?

Giglio. Hor dezite presto: que es esto?

Pasquella. Sai? Quando noi parlavamo insieme, Isabella, la mia padrona, era venuta giú pian piano e stava nascosta accanto a me e sentiva ogni cosa. Quando io volsi cacciare i polli, ella se n’andò in camera e da un buco stava a vedere quel che noi facevamo. Io, che me ne accorsi, feci vista di non l’aver veduta e d’averti voluto ingannare; tanto ch’io gli mostrai que’ paternostri. Ella me gli tolse e, credendo che io t’avessi giontato, se ne ríse e se gli messe al braccio. Ma io glie li torrò stasera e renderottegli, se tu non me gli vuoi aver dati. [p. 396 modifica]

Giglio. Y es verdade todo esto? Cata che non m’enganni.

Pasquella. Giglio mio, se non è vero, ch’io non ti possa piú mai vedere. Credi ch’io non abbi cara la tua amicizia? Ma voi spagnuoli non credete in Cristo, non che in altro.

Giglio. Hora, que non fazite quello que era concertado entra nos?

Pasquella. La mia padrona è maritata; e questa sera faciam le nozze; e ho da far tanto ch’io non posso attendere. Aspetta a un’altra volta. Uh come son rincrescevoli!

Giglio. Alla magnana, ah? Domattina, digo. Non es a si?

Pasquella. Lascia fare a me; che mi ricordarò di te, quando sará tempo; non dubitare. Uh! uh! uh! uhimene!

Giglio. Voto a Dios que te dare escuccilladas per la cara, se otra veze m’engannes.

SCENA V

Cittina figliuola di Clemenzia balia, sola.


Io non so che stripiccio sia drento a questa camara terrena. Io sento la lettiera fare un rimenio, un tentennare che pare che qualche spirito la dimeni. Uhimene! Io ho paura, io. Oh! Io sento uno che par si lamenti; e dice piano: — Aimè! non cosí forte. — Oh! Io sento un che dice: — Vita mia, ben mio, speranza mia, moglie mia cara. — Oh! Non posso intendere il resto: mi vien voglia di bussare. Oh! Dice uno: — Aspettami. — Si debbono voler partire. Odi l’altro che dice: — Fa’ presto tu ancora. — Che si che rompon quel letto? Uh! uh! uh! Come si rimena a fretta a fretta! In buona fica, ch’io lo voglio ire a dire alla mamma.

SCENA VI

Isabella, Fabrizio e Clemenzia balia

.

Isabella. Io credevo del certo che voi fusse un servitor di un cavalier di questa terra che tanto vi s’assomiglia che non può esser che non sia vostro fratello. [p. 397 modifica]

Fabrizio. Altri sono stati oggi che m’hanno còlto in iscambio:

tanto ch’io dubitavo quasi che l’oste non m’avesse scambiato.

Isabella. Ecco Clemenzia, la vostra balia, che vi debbe venire a far motto.

Clemenzia. Non può esser che non sia questo, che par tutto Lelia. O Fabrizio, figliuol mio, che tu sia il ben tornato: che è di te?

Fabrizio. Bene, balia mia cara. Che è di Lelia?

Clemenzia. Bene, bene. Ma entriamo in casa, che ho da parlare a longo con tutti voi.

SCENA VII

Virginio e Clemenzia.

Virginio. Io ho tanta allegrezza d’aver trovato mio figliuolo ch’io son contento d’ogni cosa.

Clemenzia. Tutta è stata volontá di Dio. È stato pur meglio cosi che averla maritata a quel canna-vana di Gherardo. Ma lasciatemi intrar drento, ch’io vegga come la cosa sta: ch’io lasciai gli sposi molto stretti; e son soli. Venite, venite. Ogni cosa va bene.

SCENA VIII

Stragualcia a li spettatori.

Spettatori, non aspettate che costoro eschin piú fuore perché, di longa, faremmo la favola longhissima. Se volete venire a cena con esso noi, v’aspetto al «Matto». E portate denari, perché non v’è chi espedisca gratis. Ma, se non volete venire (che mi par di no), restativi e godete. E voi, Intronati, fate segno d’allegrezza.

fine del volume primo.