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390 gl’ingannati


Clemenzia. In casa mia non vi è servidor nissun vostro; ma si bene una serva.

Flamminio. Clemenzia, e’ non è tempo da muine. Tu mi sei stata sempre amica, ed io a te; tu m’hai fatti de’ piaceri, ed io a te. Or questa è cosa che troppo importa.

Clemenzia. Qualche furia d’amor sará questa. Orsú, Flamminio! Lasciatevi un poco passar la collera.

Flamminio. Io dico, rendemi Fabio.

Clemenzia. Vel renderò.

Flamminio. Basta. Fallo venir giú.

Clemenzia. Oh! Non tanta furia, per mia fé! che, s’io fussi giovane e ch’io vi piacessi, non m’impacciarci mai con voi. E che è di Isabella?

Flamminio. Io vorrei che la fosse squartata.

Clemenzia. Eh! Voi non dite da vero.

Flamminio. S’io non dico da vero? Ti so dir che la m’ha chiarito!

Clemenzia. E si! A voi giovinacci sta bene ogni male, che séte piú ingrati del mondo.

Flamminio. Questo non dir per me: ch’ogni altro vizio mi ^ si potrebbe forse provare; ma questo dell’essere ingrato, no, che piú mi dispiace che ad uom che viva.

Clemenzia. Io non lo dico per voi. Ma è stata in questa terra una giovane che, accorgendosi d’esser mirata da un cavaliere par vostro modanese, s’invaghi tanto di lui che la non vedeva piú qua né piú lá che quanto era longo.

Flamminio. Beato lui! felice lui! Questo non potrò giá dir io.

Clemenzia. Accadde che ’l padre mandò questa povera giovane innamorata fuor di Modena. E pianse, nel partir, tanto che fu maraviglia, temendo ch’egli non si scordasse di lei.

Il qual, subito, ne riprese un’altra, come se la prima mai non avesse veduta.

Flamminio. Io dico che costui non può esser cavaliere; anzi, è un traditore.

Clemenzia. Ascolta: c’è peggio. Tornando, ivi a pochi mesi, la giovane e trovando che ’l suo amante amava altri e