Giovani/Marito e moglie
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Marito e moglie.
È una giornata d’inverno, umida ma calda; come capitano a Roma, quando deve piovere. I vetri sono bagnati e annebbiati, i muri, in casa e fuori, gemono acqua, i manifesti si staccano.
Vittorino Landi non ha da andare in ufficio oggi, perchè è il natalizio della regina Elena. Non è ancora mezzogiorno, ed egli si è già rasato, con l’acqua calda che si vede fumare spandendo l’odore della saponata. Poi, non sa quel che fare. Forse, nel pomeriggio, andrà a un teatro o a un cinematografo. Fuor di porta no, benchè ne abbia sempre voglia.
La sua moglie, Enrica, è andata a fare la spesa in Via del Lavatore, dov’è il mercato più vicino per lei.
Ad un tratto, senza nessuna ragione, egli si sente impazzire: la testa gli gira, è stordito, ha paura di cadere. Non è un mese che aspetta il ritorno della moglie? Forse le è avenuta qualche disgrazia: s’è stroncata le gambe: è morta. Non può più tornare a casa. Egli cerca di raccapezzarsi, si sfrega la faccia. Ma la sua apprensione gli scava nell’anima una specie di vuoto che va sempre più in dentro; vertiginosamente. Egli non ha nè meno voce per chiamare. Si mette a piangere.
Quando, dopo dieci minuti, Enrica torna ed entra in camera egli non la riconosce più: è come se la vedesse per la prima volta. La moglie gli parla, gli sorride; poi s’accorge che il marito è sbiancato e che non apre bocca.
— Dio mio! Vittorino! Che ti senti? Sei per svenire?
No: egli si ricompone e il malessere passa; come se non avesse avuto niente. Però non gli è più possibile di amare la moglie come credeva di amarla mezz’ora prima quando è uscita.
La moglie piange, perchè vede tutto nei suoi occhi. Il cappello le si piega da una parte, ed ella non pensa nè pieno a toglierselo. La veletta è tutta molle e rincincignata: nè meno lei ha più fiato per dire una parola. Com’egli all’improvviso si è attaccato a lei, così ora s’è staccato; e pare che soltanto pochi minuti siano bastati a cambiare i loro anni di matrimonio; perchè essi non sanno che tutto quello che è passato nel loro animo, giorno per giorno, di buono e di cattivo, doveva avere una volta i suoi effetti. Nessuno dei due ne ha colpa; e siccome essi son buoni e leali cercheranno di sopportarsi a vicenda, aspettando che torni il tempo forse di volersi bene come prima. Tutte queste cose, nell’animo di ambedue, passano rapidamente come quando si sogna.
Ma Enrica, la più debole e la meno preparata, singhiozza con il fazzoletto alla bocca. Fa di tutto per non piangere più; e quando ci riesce, chiede:
— Vuoi mangiare alla trattoria oggi? Io mangio in casa. Torna quando vuoi.
Il Laudi si meraviglia che ella debba dirgli così; e risponde, benchè non avesse affatto pensato a stare fuori di casa:
— Sì: oggi, mangerò alla trattoria.
Prende i guanti, l’ombrello; ed esce senza salutarla.
Enrica si butta stesa sui canapè, bocconi, e piange per due ore; finchè la cameriera non le parla. Ella soffre molto e i suoi occhi restano cerchiati di un rosso che pare battitura. Soltanto a guardarle la bocca, si vede che ha pianto tanto. Tutto il suo corpo è scosso da singhiozzi, chi sono più strazianti delle sue grida e delle sue lagrime.
Il Laudi non sa nè meno che strada prendere. Fa qualche passo e poi si ferma. La moticcia gli attacca le scarpe. Dove vuol andare? Non, lo sa. Perchè tra lui e la moglie si son detti quelle parole? Non lo sa. Non è meglio che egli torni subito in casa, e stringa la moglie tra le braccia? Non è meglio che gli si faccia dire da quella bocca tutte le parole della sua tenerezza dolce?
La nebbia è quasi giallognola; c’è una luce, per le strade, che pare sporca. Le voci delle persone s’attaccano come la moticcia. I cavalli delle vetture sono tutti magri e sfiniti; alcuni zoppicano. Una donna, che pare sfatta con le rughe entro i suoi cenci, vende i cartoccetti pieni di nocciole per i ragazzi. Una bambina s’è avvoltolata in uno scialle di lana rossa e vende i giornali: le sue mani sono gonfie di geloni. La Via della Pilotta è deserta; con i quattro archi attaccati al giardino alto di Villa Colonna, dove le statue, sotto i cipressi, macchiate di nero, fanno vedere di quanti pezzi sono fatte. Sotto uno degli archi, una mendicante è seduta per terra e mangia. Ma egli va in Via Nazionale. Due ragazze entrano, tenendosi a braccetto, dentro un caffè; dove si vedono le lampadine accese. Su gli scaloni del teatro Nazionale, c’è qualche persona ferma.
Poi la via, finita la salita alla Torre delle Milizie, s’apre diritta, fino alle mura rosse delle Terme. Su l’angolo di Via Panisperna, sotto la Villa Aldobrandini, due ciechi suonano.
Il Landi entra a mangiare in una trattoria, dove crede di spender poco. Non ha fame, ma mangia. Quando esce comincia a piovere. Va in Piazza del Quirinale dove ci sono soltanto le sentinelle dentro i loro casotti, e due coppie di carabinieri che stanno rasente al muro della Consulta, per bagnarsi meno che è possibile.
Lo zampillo rettilineo della fontana sembra immobile come i due cavalli; benchè, ricadendo, scrosci e sciaguatti: soltanto perchè è più bianca si discerne dalla pioggia, che vela tutte le file piatte delle case; di cui si vedono soltanto gli ultimi piani; con le chiese sparse da per tutto. E la cupola di San Pietro pare fatta di nebbia.
Il Landi, allora, scende in fretta la scalinata e rientra in casa. La moglie s’è buttata sul letto e non ha mangiato.
Quando la sera si riparlano, pare che ella non abbia sofferto di nulla; e la loro vita ricomincia eguale.
Ma mentre egli seguita ad avere un rammarico melanconico di quel suo passato che non vive più senza dimenticarlo, ella diventa gaia e gioconda. Ha sofferto tanto quel giorno che è ormai un’altra. Piccola e bruna con le ciglia lunghe, troppo lunghe per lei e per il suo viso magrolino, sorride sempre.
E quando a primavera l’aria si schiara, non c’è raggio di sole in Piazza della Pilotta che non entri anche dentro i suoi occhi. Non ha più bisogno nè d’amare nè d’essere amata. Ella vive e basta.
Vittorino invece vorrebbe amarla, ed è geloso della sua giocondità.
Una volta egli compra, in Piazza di Spagna, un fascio di rose e le porta a casa. Ma, guardandole, si domanda perchè le ha comprate.
La moglie gliele prende in mano, le mette in un vaso pieno d’acqua, su la tavola dove mangiano. Ella non lo ha ringraziato e nè meno gli ha fatto capire che le fanno piacere. Egli ne compra un altro fascio, e questa volta proprio per lei. Ora sono tutti e due tranquilli.
Una domenica vanno a Porta San Giovanni. La basilica regge la fila delle sue statue come fossero enormi fiori chiari.
Nella piazza polverosa tre caroselli girano con gli specchi e le lampadine elettriche, con la gente sopra i cavalli e dentro le barchette, con le pitture fantastiche e mitologiche. Anche la loro musica gira. E l’aria è stata scaldata dal sole.
La Via Appia si allunga sotto il suo selciato che luccica, specie lontano, dove si vede un pino in vece dell’osterie e delle case. Parecchi operai, in maniche di camicia, lavorano con i picconi attorno a un binario. La campagna è piatta e solitaria, quantunque ci sia tanta gente e tanti carretti con le sonagliere. Ma l’erba è così fitta che la campagna pare debba essere verde anche sotto terra. L’aria vi trema sopra come una fiamma senza colore.
E una nuvola enorme, rotta nel mezzo e infilata ai raggi del sole, non si può più muovere.
Enrica e Vittorino si parlano poco, e sembrano distratti. Ma non si lasciano. Passando, guardano le osterie. Egli allora pensa che non è più possibile vivere a quel modo. Tocca la moglie sul braccio; e le dice:
— Fa quasi caldo, oggi.
— È vero: e io sono stanca. Quest’aria di primavera fiacca i nervi.
— Vuoi che stasera mangiamo insieme a una di queste trattorie? Noi abbiamo da parlare di molte cose.
Enrica si allontana quasi due passi da lui, e china la testa. E non vede il dispiacere che è nel viso del marito. Ma, dopo un tratto di strada, dice:
— Noi non abbiamo da parlare di niente.
— Io credo che tu sbagli. Ma, se non vuoi, non insisto.
Ella sorride: i suoi occhi luccicano sbattendo le ciglia; perchè il sole, tramontando, l’abbarbaglia.
Le cime degli eucalipti sono luminose, e i raggi della luce vi si impigliano come fossero chiome più larghe. Anche il selciato specchia. I Colli Albani sono di un turchino asciutto e eguale. Ella riprende:
— Noi dobbiamo parlare della nostra vita passata come se fosse di due persone che abbiamo conosciute molto tempo fa.
— Enrica, sbagli.
— Per me, non sbaglio. Io ti dico come sento.
— Enrica! Enrica!
— È molto meglio tacere.
E sorride un’altra volta. Anche egli, ora, s’accorge che il suo desiderio è inquieto e non profondo; e non gli basta. Il suo desiderio gli dà soltanto una specie d’irritazione nervosa. Anche nel suo animo non c’è più nulla, ed è inutile costringere la moglie a credere quel che egli vorrebbe. Bisognerebbe, forse, che passassero parecchi anni; ma senza invecchiare. Invece anche lui non ha più nulla da chiedere. È evidente! Allora, quasi si vergogna d’averla voluta ingannare. Egli ha perso tutto!
Enrica gli dice:
— Da quella volta non mi sarebbe più possibile credere.
Sente attorno a sè, da per tutto, la grande primavera; e anderebbe a toccare anche un selce, che deve essere un poco caldo; un selce, che deve essere dolce come l’aria. Ma il suo animo si chiude sempre di più, si rifiuta, è freddo.
Anche la primavera la rasenta come una cosa, che non sarà mai sua. E le pare che la giovinezza s’attenui, perda ogni consistenza; come un sogno che si dimentica proprio nel momento che vorremmo ricordarlo tutto e meglio. Il suo cuore ha una trafitta, ch’ella non vorrebbe. E perchè Vittorino, dianzi, l’ha chiamata a nome due volte, gli prende una mano e gliela stringe. Ed egli si sente meno solo.
Gli eucalipti si spengono, le campane di San Giovanni suonano; e il giorno sparisce come quel suono. Essi sono tristi e dispersi; si sentono morire. Ma una donna che allatta il suo bambino si affaccia da un uscio: placida e dolce; e allora sentono il raccapricciò di sè stessi!