Giacomo Leopardi/XX. 1824: Le «Annotazioni»
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XX
1824
LE «ANNOTAZIONI»
Il volume delle Canzoni leopardiane, edito in Bologna il 1824, comprende pure le note «dedicatorie», una Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto vicini a morte, e le Annotazioni.
Il Bruto minore fu per Leopardi non solo una canzone, ma un atto, o, come egli dice a Sinner, una professione di fede. Lì, dopo lungo flutto di sentimenti contraddittorii, tra entusiasmo e scetticismo, saltò il fosso e prese posto. La base di tutto il suo edificio, che ora possiamo chiamare un sistema filosofico, è la vanità di tutti i fini che si assegnano alla vita, principalmente della virtù e della gloria, i due più nobili fattori delle azioni umane. E questo è il concetto nella canzone di Bruto e nella Comparazione tra Bruto e Teofrasto. Se i letterati italiani fossero stati avvezzi a porre nelle idee quella importanza che ponevano nelle parole, quella canzone sarebbe stata un avvenimento, ed avrebbe suscitate feconde lotte. Ma la formola era allora questa: dato un argomento, come esprimerlo. L’importante non era il che, ma il come. Indi l’indifferenza verso la sincerità e l’importanza delle convinzioni. Si ammirava Monti, papista, napoleonico, austriaco. Nel poeta non si guardava l’uomo. E quando apparvero le nuove canzoni, l’attenzione si volse all’espressione nel suo più basso grado, e nessuno diede importanza alle opinioni, salvo i teologi revisori, che trovavano nel Bruto una glorificazione della repubblica e nella Comparazione un’offesa alla virtù. Ma Leopardi ci teneva a far sapere che le opinioni espresse nella canzone non erano licenze poetiche, ma frutto della sua intima persuasione. E a rincalzarle e dare a quelle un aspetto di serietà e di verità, ai versi aggiunse la prosa; e non ottenne già il suo scopo, confermò solo nei letterati la sua fama di uomo erudito.
Se tutti lo stimavano però uomo erudito, non tutti gli riconoscevano competenza nel fatto della lingua, e i signori puristi si erano dilettati a fargli la lezione, notando qua e là nelle canzoni patriottiche errori di lingua. Il giovine poeta sentì la puntura, e prende nelle Annotazioni la sua rivincita, e fa con loro alle pugna, e mena a tondo la clava. Vuol dire che il poeta non era poi così apata, e non così indifferente alla fama, come vorrebbe far credere. Non ci è stizza, ma c’è l’ironia di un uomo superiore, che guarda dall’alto i suoi «pedagoghi», gente «che, non sapendo niente, vogliono che la favella non si possa stendere più là di quel niente».
Come Foscolo, così Leopardi è costretto a dimostrare che aveva fatto i suoi studi, e che qualche buono scrittore lo aveva letto. La mediocrità formicola e annoia gli uomini superiori, che talora se ne sbrigano con una pedata. Fecero perdere la pazienza anche a Leopardi.
Con uno spirito, che talora direste quasi brio, il nostro Giacomo sfodera la sua infinita erudizione. Pure, ciò che ha più importanza non è la sua dottrina, ma il suo giudizio intorno alle questioni di lingua, che per un curioso privilegio d’Italia ritornano sempre e non si risolvono mai. Il Vocabolario della Crusca non è per lui il Vangelo; anzi talora dice con una certa soddisfazione: — E questo non lo troverai nella Crusca — , e talora dice: «Tra le altre facezie del nostro Vocabolario». E neppure gli pare un Vangelo l’uso di Firenze, di cui osa parlare con poco rispetto. Maggiore autorità ha per lui l’uso degli scrittori, e in un tempo che nessuna parola passava senza almeno un esempio, cita esempi in buon dato, con una certa aria di scherno, come volesse dire: — Vi basta? — .Chiunque stima che nel punto medesimo che si pubblica il Vocabolario d’una lingua, si debbano intendere annullate senz’altro tutte le facoltà che tutti gli scrittori fino a quel punto avevano avute verso la medesima; e che quella pubblicazione, per sola e propria sua virtù, chiuda e stoppi a dirittura in perpetuo le fonti della favella; costui non sa che diamine si sia né vocabolario né lingua né altra cosa di questo mondo.
Nota macchie di parecchi francesismi nella Coltivazione dell’Alamanni e sregolatissime costruzioni e forme di ogni genere: ma questi difetti «arricchirono straordinariamente il predetto poema di voci, metafore, locuzioni, che quanto hanno d’ardire, tanto sono espressive e belle; e potrebbero giovare, non solamente agli usi poetici, ma gran parte di loro alla prosa».
Leopardi non ha avuta altra occasione di esprimere il suo pensiero sopra questa materia. Ne parla poco e a sprazzi, quasi per riempire l’aridità delle citazioni, senza intenzione di farci sopra un discorso filato. Pure, da quel poco che siamo andati raccogliendo, si può argomentare nettamente il suo concetto.
Per lui la lingua è un organismo vivo, e che per vivere ha bisogno di nutrizione e di assimilazione. Una lingua, che vive sempre della sua sostanza, è poco meno che morta. Il fenomeno della continua formazione e assimilazione lo attribuisce meno alla ragione che alla natura, e vuol dire a una forza spontanea e inconsciente, che opera con certe leggi e in certi confini: cosa da lui intuita e accennata e non esplorata. Ma lasciando fuor d’esame questo punto, insiste in questo, che agli scrittori non si può negare la facoltà di derivare e inventare vocaboli e forme di favellare, e non c’è vocabolario che tenga. Biasima gl’italiani, più disposti a imitare che a trovare, ricercando negli scrittori «la facoltà della memoria massimamente; e chi più n’ha e più n’adopera, beato lui».
Ma la facoltà di derivare e inventare non è però licenza e vuol essere adoperata con misura e con gusto. Lo scrittore può fare, quando sappia fare. E allora può dire con Voltaire: «Tant pis pour la grammaire». Il modo di farlo è il segreto dell’ingegno.
Voglio che sappiano i pedagoghi ch’io poteva dire disusato per dissueto, colla stessissima significazione; ed era parola accettata nel Vocabolario, oltre che in questo senso riusciva elegante, e di più si veniva a riporre nel verso come da sé stessa. A ogni modo volli piuttosto quell’altra. E perché? Questo non tocca a’ pedanti di saperlo.
Ed è appunto questo segreto, che ha spinto a sostituire a parole dimostrate per buone altre parole, come «intralciare» a «ingombrare», «alleggiare» a «far sollazzo», ancorché lungamente si sia affannato a difendere «ingombrare» e «sollazzo».
Ma ci è una cosa che Leopardi con tutto il suo ingegno straordinario non potea fare, coniar parole vive nel suo sepolcro di Recanati. Il commercio dei vivi è necessario allo scrittore che voglia esser vivo e popolare. I libri e la dottrina ci possono poco. Si può fare cosa corretta, con gusto anche, ma non cosa viva, che s’immedesimi subito nella lingua naturalmente. Vale più a produrre il miracolo la spontaneità popolare, che sforzo solitario di dottrina e di gusto. Oggi a un giornalista riesce facile quello che a Leopardi era difficilissimo. I suoi latinismi si possono giustificare, non approvare, e non fanno lega, non s’incorporano nella lingua.
Leopardi avea comune con tutti i letterati di quel tempo, massime i classici e i puristi, il disprezzo della moltitudine, l’orrore del volgare e del luogo comune. La poesia dovea essere togata e solenne, sopra alla realtà, e, come dicevasi, ideale.
Perciò non guardava con molta simpatia alla scuola manzoniana, che si accostava al reale e cercava il naturale e il semplice. Ma d’altra parte al suo fine gusto non poteva piacere quella solennità teatrale e convenzionale, degenerata in maniera, che dicevasi classica, e ch’egli notava sino nelle prose del suo Giordani. Monti gli doveva parere in que’ suoi rimbombi un pallone di vento. Migliore impressione doveva fargli Foscolo, la cui influenza sul suo spirito è visibile. Il poeta andava cercando una forma nuova, che fosse lontana e dalla negligenza degli uni e dall’affettazione degli altri. Aveva anche lui il pregiudizio di quei pittori che sdegnano i quadretti di genere, e aspirano al gran genere, alla pittura storica, come se la grandezza e importanza dell’arte fosse nel valore della stoffa. Anche lui cercava il gran genere e, conservando nei cartoni quei suoi cari idillii, rumoreggiava nelle canzoni, che sono in verità il genere più alto e solenne. Volle dare alle sue canzoni una forma severa e augusta, quasi epica, e più va innanzi, e più ci s’intesta. Cercò il modello nella nobiltà petrarchesca e nella romana maestà. Semplificò l’uso delle rime, sciolse da ogni artificio d’intreccio le stanze, cercando una andatura libera insieme e grave; aguzzò e condensò i concetti, latinizzò vocaboli e costrutti, irrigidì e oscurò le tinte, e impresse a tutto un carattere, tutto scolpì e rilevò. Non ci è una sillaba, e non un’armonia a caso; tutto è previsto, a tutto è un senso.
Disegno di composizione, distribuzione di parti, scelta di colori e di armonie, uso di figure, di epiteti, di trapassi, in tutto c’è una intenzione: miracolo di perfezione tecnica. Materia nuova, profondamente sentita, esce fuori in una struttura originale. Vai faticosamente avanti, ma pur vai, come ti fosse innanzi un monumento degno del tuo studio.
Leopardi provò col suo esempio che le nuove forme non si fanno con nessuno artificio e con nessuna fatica, quando si vive in un ambiente morto, e ti manca l’alito del tempo e della patria. Le forme nascono, non si fanno. E questa forma, entro cui apparisce un contenuto così interessante, non è ancora uguale al suo contenuto, e non ha freschezza di vita comune. Sembra l’obelisco egiziano in piazza Montecitorio. Nessuna meraviglia dunque ch’egli sia stato dai più poco inteso e poco apprezzato. Se lo aspettava lui medesimo, o almeno se lo spiegava, scrivendo al Missirini:
Oggi chiunque in Italia vuol bene, profondamente e filosoficamente scrivere e poetare, dee porsi costantemente nell’animo di non dovere né potere in nessun modo essere commendato né gustato né anche inteso dagli italiani presenti.
Mirava a un’Italia avvenire, come Alfieri. Ma l’avvenire non si trova quando si smarrisce il presente.