Giacomo Leopardi/I. 1808-1814
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I
1808-1814
Al conte Pepoli, che gli chiedeva i particolari della sua vita, Leopardi rispose cominciando dal suo decimo anno, cioè dal 1808.
Di molti uomini celebri si narra la puerizia maravigliosa, e Prospero Viani ricorda il Tasso e Pico della Mirandola e Poliziano, famosi per gli studi della eroica adolescenza. Vita presto cominciata e presto finita. Poliziano morì a quaranta anni, Pico a trentasei e Leopardi a trentanove.
Cosa era Leopardi a dieci anni? Lo chiamavano Sor Contino. Aveva, com’era costume de’ nobili signori, il maestro in casa, un certo prete, Don Sebastiano Sanchini, tenuto come parte della famiglia e talora trastullo de’ suoi gioviali scolaretti, come spesso accade a questi precettori di famiglia. Il buon maestro gl’insegnò poco italiano, molto latino, e anche un po’ di francese, come voleva la moda. A dieci anni il fanciullo rimase maestro di sé, tenuto un portento. Ho visto io fanciulli anche di otto anni, che con molta volubilità e sicumera ti parlano di generi, numeri, casi e avverbii, e coniugano e declinano, e citano a mente «squarci» di poesia e dicono ai genitori incantati: «Comment vous portez-vous?». Sono macchinette ben montate, e paiono miracoli. Il padre suo, conte Monaldo, si teneva glorioso di questo piccino, che a dieci anni traduceva già Orazio, ed era già entrato in rettorica, e faceva componimenti in latino e versi in italiano. Il professore Cugnoni ha pubblicato una lista di scritti leopardiani dal 1808 in poi, e ha fatto benissimo, perché da que’ titoli si può vedere l’indirizzo de’ suoi studi. Io ho letto quell’indice con infinito gusto, e mi è parso di rivivere col mio De Colonia e Falconieri. Ci trovi tutte le figure rettoriche, amplificazioni in gran numero, descrizioni oratorie, epigrammi, prosopopee, ironie, ecc. Non mancano versioni di sonetti in latino, prose italiane e prose latine, quartine, sestine, canzoni, sonetti pastorali, anacreontiche, madrigali. Sono esercizi rettorici, sopra temi di storia sacra e di storia greca e romana. Il fanciullo trattava argomenti e maneggiava affetti poco proporzionati al suo candore e alla sua piccola esperienza, e non poteva scrivere con semplicità e verità, e si avvezzava al falso e all’esagerato. Altro profitto non traeva da quelli esercizii scolastici, che raccogliere nella memoria parole, frasi e modi di dire, che lo aiutavano a scrivere prose e versi. In fin d’anno recitava i suoi componimenti in pubblici «saggi», tra i battimano degli uditori, con molta gioia del papà, il direttore di quegli studi. Questi «saggi» erano annunziati al pubblico in manifesti stampati, e manifesti e componimenti erano conservati nella biblioteca di casa, dove è andato a scavarli il diligente Cugnoni. A dodici anni, 1810, l’adolescente era già, come si direbbe oggi, uno studente liceale per ciò che s’appartiene alle lettere. E già sentiva la sua forza, e alzava il volo a lavori di maggior mole. In quell’età abbiamo di lui un poemetto di tre canti, in sestine, intitolato Il Balaamo. Dove andò a scavare questo grazioso argomento? Poi ci abbiamo le Notti puniche, tre canti in versi sciolti. Troviamo un altro poema, il Catone in Africa, con diversità di metri. Descrive il campo di Farsaglia in sestine, il viaggio di Cesare in quartine. Catone e Giuba sono materia di anacreontiche. La descrizione di una tempesta notturna è una canzone. La vittoria di Cesare è in versi sciolti. Catone muore in terzina, e Cesare vince in sonetto. Dovette parere una maraviglia questo gran pasticcio poetico.
In quell’età, oltre un Diluvio universale in versi sciolti, ci sono anche, sotto nome di dissertazioni accademiche, certi esercizii di logica e di filosofia in forma rettorica, sopra quesiti che paiono ingegnosi e sono frivoli, come si costumava in quei beati tempi dell’Arcadia. I quali poemetti e le quali dissertazioni continuano sino ai sedici anni, 1814. Abbiamo un suo ragionamento sulla condanna del Redentore, recitato nella Congregazione dei nobili il 24 marzo 1814; e il 10 marzo dello stesso anno aveva già recitato un discorso sulla flagellazione di Cristo, oltre molti discorsi e versi sulla Passione e Morte. C’è anche un poemetto sopra i Re Magi, una tragedia sopra Pompeo, un elogio di San Francesco di Sales, una versione in «metro petrarchesco» della elegia settima del libro primo de’ Tristi di Ovidio, certi endecasillabi sopra Sansone, dissertazioni logiche, metafisiche, fisiche e morali, soliti esercizii e soliti temi nelle scuole di filosofia. Sembra che studiasse anche un pochino la storia naturale, della quale abbiamo un suo compendio in dodici trattati.
Questi e altri scritti simili non hanno nulla che debba maravigliare chi ha un po’ di pratica delle vecchie scuole. Ci si vede uno spirito religioso che gli veniva dalla storia sacra, con certe idee di gloria e di libertà latina che gli venivano dalla storia romana, in modo incosciente, come di chi pensa più alle forme che alle cose. Ci si nota pure molto moto d’immaginazione e molta attività di lavoro. Il giovinetto dormiva dietro un’alcova in un salottino della biblioteca. Nella stessa cameretta dormivano due fratelli più piccoli, Carlo e Luigi. Carlo racconta, che, svegliandosi a tarda notte, lo vedeva con gli occhi su’ libri, all’ultimo barlume della lucerna che si spegneva. Poveri occhi! E crebbe a immagine della biblioteca, suo secondo maestro. Cosa potesse essere allora una biblioteca, si può congetturare facilmente. Era a base classica e biblica, con aggiunta di libri varii di valore e di materia, de’ tempi posteriori sino al secolo decimo ottavo. E questa fu la base della sua cultura. I suoi primi studi furono di lingue. Studiò latino, greco, ebraico, francese, spagnolo, inglese, tedesco, per far suo tutto quell’immenso sapere raccolto nella biblioteca. Lesse classici greci e latini e autori biblici e alessandrini sino ai Santi Padri, e, spronato dalle due forze di quell’età, la memoria e la curiosità, studiò autori di ogni tempo e di ogni valore, come portava il caso e il desiderio. E non solo studiava, ma faceva sunti e postille, e trascriveva que’ luoghi che gli parevano più importanti. Questa febbre di lettura, questa pazienza e diligenza di studio sono segni non dubbii d’ingegno straordinario.
Si narra che nel mattino, aspettando che la madre venisse a vestirli, Giacomo rallegrava i suoi fratellini, compagni a lui di stanza, inventando avventure strane, fantastiche. Era di umore scherzoso, inventava nomi, caratteri, scene. Il conte Monaldo era il tiranno Amostante, al quale egli dava forme e modi spaventosi; lui era l’eroe Filzero, il focoso, il bel parlatore, che aveva risposta a tutto e picchiava tutti: «Giacomo il prepotente» lo chiamavano i fratelli; Carlo era Lelio, la testa dura, l’imbecille ostinato, il motteggiatore spietato, che buscava gli scappellotti da Filzero. La contessa Teresa, moglie di Carlo, dalla quale tolgo questi e altri particolari, racconta che tre quarti di secolo dopo, Carlo, sentendo qualche motto spiritoso, esclamava: — Oh questa è filzerica! — La sera nel giardino Giacomo talora s’ergeva su di una bassa carriola, e faceva il «trionfatore». Carlo e Luigi erano i littori, e gli schiavi erano i contadinelli, che s’insinuavano in giardino appresso a’ padri e a’ fratelli. Carlo lanciava al trionfatore sarcasmi e contumelie, e l’eroe di sul carro rispondeva con solenne disprezzo: — Olà, vile buffone!— La sala di studio era un gran camerone, arioso, pieno di luce; c’erano quattro tavolini da studio, l’uno dietro l’altro, quello della sorella Paolina l’ultimo. Finita la lezione, venivano gli spassi e i chiassi.
Giocondo di spirito, sano di corpo. Se non che aveva una soverchia sensibilità degli occhi, che soleva tirarlo lungi dalle lampade e da’ candelabri in un cantuccio oscuro.
In quei tempi felici Giacomo era gioviale, espansivo, inventivo, discorsevole, immaginoso e ingegnoso ne’ suoi giochi e scherzi, e si tirava appresso i fratelli e la sorella Paolina, ch’egli chiamava Don Paolo, patendogli in quel suo vestitino assettato e nero un abatino. Faceva le sue letture furtive in compagnia di Carlo, e sceglievano una certa ora che il tiranno Amostante non li potesse cogliere.
Che giorni deliziosi, quando venne alle loro mani un Telemaco, un Robinson Crusoé! Caratteristica è la dipintura di una loro scampagnata, di cui fece le spese il loro pedagogo «vermiglio», «grasso», «florido», amico del buon vino e de’ buoni bocconi, messo in burla dal «capriccioso umore» di Cleone l’«astuto», ch’era proprio il nostro Giacomo. È una poesia intitolata La dimenticanza, e si dice composta da Giacomo nell’età di tredici in quattordici anni.
Così passava, allegra e rumorosa, quella prima età, che spesso ci torna in mente nelle dure prove della vita.