Pagina:De Sanctis, Francesco – Giacomo Leopardi, 1961 – BEIC 1800379.djvu/12

6 giacomo leopardi

E non solo studiava, ma faceva sunti e postille, e trascriveva que’ luoghi che gli parevano più importanti. Questa febbre di lettura, questa pazienza e diligenza di studio sono segni non dubbii d’ingegno straordinario.

Si narra che nel mattino, aspettando che la madre venisse a vestirli, Giacomo rallegrava i suoi fratellini, compagni a lui di stanza, inventando avventure strane, fantastiche. Era di umore scherzoso, inventava nomi, caratteri, scene. Il conte Monaldo era il tiranno Amostante, al quale egli dava forme e modi spaventosi; lui era l’eroe Filzero, il focoso, il bel parlatore, che aveva risposta a tutto e picchiava tutti: «Giacomo il prepotente» lo chiamavano i fratelli; Carlo era Lelio, la testa dura, l’imbecille ostinato, il motteggiatore spietato, che buscava gli scappellotti da Filzero. La contessa Teresa, moglie di Carlo, dalla quale tolgo questi e altri particolari, racconta che tre quarti di secolo dopo, Carlo, sentendo qualche motto spiritoso, esclamava: — Oh questa è filzerica! — La sera nel giardino Giacomo talora s’ergeva su di una bassa carriola, e faceva il «trionfatore». Carlo e Luigi erano i littori, e gli schiavi erano i contadinelli, che s’insinuavano in giardino appresso a’ padri e a’ fratelli. Carlo lanciava al trionfatore sarcasmi e contumelie, e l’eroe di sul carro rispondeva con solenne disprezzo: — Olà, vile buffone!— La sala di studio era un gran camerone, arioso, pieno di luce; c’erano quattro tavolini da studio, l’uno dietro l’altro, quello della sorella Paolina l’ultimo. Finita la lezione, venivano gli spassi e i chiassi.

Giocondo di spirito, sano di corpo. Se non che aveva una soverchia sensibilità degli occhi, che soleva tirarlo lungi dalle lampade e da’ candelabri in un cantuccio oscuro.

In quei tempi felici Giacomo era gioviale, espansivo, inventivo, discorsevole, immaginoso e ingegnoso ne’ suoi giochi e scherzi, e si tirava appresso i fratelli e la sorella Paolina, ch’egli chiamava Don Paolo, patendogli in quel suo vestitino assettato e nero un abatino. Faceva le sue letture furtive in compagnia di Carlo, e sceglievano una certa ora che il tiranno Amostante non li potesse cogliere.