Giacinta/Parte prima/V
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V.
La prima cosa che le diè nell’occhio, al ritorno in famiglia, fu la grande insegna nera con su Banca agricola provinciale, attaccata al terrazzino di mezzo del primo piano, i cui grossi caratteri dorati brillavano sulla facciata chiara, rintonacata di fresco.
Vedendo quell’omaccione dalla livrea turchina filettata di rosso, che, cavandosi il berretto gallonato, prendeva gli ordini del signor Marulli pel bagaglio, Giacinta domandò al babbo:
— Chi è costui?
— Il portinaio della Banca.
La vecchia scala di travertino, con le pareti di stucco bianco e lo zoccolo scuro di finto marmo, con le belle vetrate dai vetri puliti ad ogni pianerottolo, non era più riconoscibile.
— Gran novità, babbo!
— Sì; vedrai anche dentro.
Ma dal tono della risposta capì che il povero babbo non doveva esserne molto contento.
Infatti, in tutte le stanze, tappezzerie rinnovate, pavimenti alla veneziana lustri come specchi, usci riverniciati in bianco, doppie tende di trina e di stoffa che scendevano con larghi panneggiamenti fino a terra; davanti a ogni finestra o terrazzino, bussole dai grandi cristalli, il salotto tutto addobbato di nuovo... In somma, da non raccapezzarvisi.
— E quest’uscio? — domandò Giacinta al padre che le mostrava ogni cosa.
— Dà nelle stanze del commendatore Savani, il direttore della Banca agricola. Egli è solo, scapolo, e desina in famiglia con noi.
— Babbo, e questa mia camera non era prima la sala da pranzo?
— Tua madre!... — rispose il signor Paolo stringendosi nelle spalle.
— Ma... come?
Si sentiva proprio scombussolare:
— Dov’erano andati tutti i cari testimoni della sua fanciullezza?
Quei ricordi così vivi, così netti pochi giorni addietro ora, sotto l’impressione di quella inattesa realtà, se li vedeva sbiadire rapidamente davanti con un senso di pena e d’indefinito terrore.
— Anche il giardino!
Le aiuole, circondate da eleganti ripari di ferro fuso, parevano, sì, ceste fiorite, ma...
— E quelle statue di terra cotta?... Come stridevano, con la loro tinta rossastra, fra il verde degli alberi!
E poi... che vita in casa!... Col via vai di tanta gente dalla mattina fino a notte inoltrata, il salotto sembra una succursale della Banca del primo piano.
— Quella mamma, Signore! Azioni, dividendi, cartelle, bilanci, fedi di credito, operazioni..., non ragionava più d’altro! Come trovare un tantino di tempo per badare alla figliuola?
Il povero babbo restava in disparte. Il commendatore invece pareva il padrone di casa. Questo la irritava. E il Savani le divenne presto antipatico.
— Povero babbo! Era molto invecchiato!
Egli andava spesso a scaldarsi — come soleva dire — nel bel nido della figliuola. Con la barba e i capelli brizzolati di bianco, con la faccia piena di rughe e gli occhi un po’ stupidi, improntati di una rassegnazione animale, si sedeva in un canto del canapè e parlava a monosillabi, o non parlava affatto.
— Babbo, a che pensi? — gli domandava Giacinta.
— A nulla!
Si meravigliava di quella domanda: non ne indovinava la ragione. E un giorno che sua figlia, parlando della mamma con amarezza, aveva alla fine esclamato:
— Che vita! Che vita!
— Va! — egli rispose — Quella donna è fatta così!
Giacinta lo abbracciò tra intenerita e stizzita.
Passava in camera quasi l’intiera giornata, leggendo, lavorucchiando qualche cosina, scrivendo delle lunghe lettere di sfoghi a quella sua amica di collegio che non sapeva chi fosse il proprio babbo, ma aveva però una mamma che le voleva tanto bene! In salotto compariva di rado, massime la sera, infastidita da certe occhiate di quei giovanotti, da certi maligni mezzi sorrisi che le era parso di scoprire sulle labbra di alcune amiche di sua madre.
— La signorina vuol dunque farsi monaca? — le diceva la Marietta che ora spadroneggiava sola in casa, dopo che Camilla era andata via.
— Il chiasso mi dà ai nervi.
Tutte le mattine, appena la padroncina suonava, Marietta entrava in camera discretamente, apriva le imposte, levava via il lume dal tavolino da notte, metteva in ordine le vesti e le portava il caffè, fermandosi presso il letto, con le mani nelle tasche del grembiule bianco, domandando:
— La signorina ha dormito bene?
O pure stava ad aspettare, zitta, con un benevolo sorriso sulle labbra, aggiustandosi di tanto in tanto la cuffia civettuola. Poi l’aiutava a vestirsi, muovendosi attorno lesta, leggiera, con un fare da cutrettola, per prendere questo o quell’oggetto.
— La Camilla perchè è andata via? — le domandò una mattina Giacinta.
— Quella chiacchierona!... Oh!... Perchè diede un grosso dispiacere alla signora...
— Che dispiacere?
— Ma, non so... Per l’affare... di Beppe.
Giacinta era diventata un po’ rossa in viso, senza ben capire la reticenza della Marietta.
Così, a poco a poco, fra padroncina e cameriera, era nata una intimità che a Giacinta serviva di sfogo. Quel carattere allegro le piaceva, forse pel contrasto col suo. E nelle giornate in cui la Marietta doveva stirare, Giacinta, preso in mano un lavorino di ago andava a sedersi nella stanza con lei che, sbracciata fino ai gomiti, sbatteva i ferri sul tavolino ciarlando, canticchiando, ridendo...
— Per tenere di buon umore la sua cara padroncina.
Di mano in mano, Marietta s’infiammava; e mentre camicie, sottane, polsini e altri capi di biancheria inamidati friggevano e prendevano il lucido sotto il ferro, la sua parlantina si accresceva. Pareva che recitasse una parte da commedia; specie quando, tralasciato di stirare, mettevasi a far la caricatura della signora Rossi che somigliava a una gru, con quel collo tutto grinze e quel naso, proprio un becco, che voleva ficcarlesi in gola!
Allora seguiva tutta la sfilata.
— E la signora Clerici?
— Alla larga! Uno schizzo di fontana quando tira vento. Bisogna accostarsele coll’ombrello.
— E la signora Maiocchi?
— Quella lì, santa economia! cerca un solo marito per la figliuola e per sè.
— Zitta, linguaccia!
Ma, in verità, quella linguaccia non le dispiaceva, così malamente ella soffriva tutte le amiche di sua madre.
— Però, la signora Villa...
— Gesù! Una rigattiera... Quel vestituccio avana lo portava sin da ragazza. Ora, vi appunta su cogli spilli un po’ di guarnizioni nuove, e festa! Va attorno, con la sua aria di matrona, come se avesse indosso chi sa che cosa...
E si dondolava, col busto in fuori, camminando lentamente. Giacinta moriva dalle risa.
— Pareva proprio quella!
E il ferro tornava a far pan, pon, pan, sul tavolino, quasi battesse la solfa.
— Sa? — riprese Marietta. — Quel babbeo del conte di San Celso si permise, l’altra sera, di darmi un pizzicotto ai fianchi! Ci ebbe poco gusto. Con una gomitata, lo sbatacchiai al muro.
— Poverino!
— Poverino?... E ride? Almeno l’avvocato Ratti...
— Ti pizzicotta anche lui?
— Tutti, quando capita!... Ma è tempo perso. Ora dopo la disgrazia, ho messo giudizio. E la Madonna mi deve aiutare... Uomini? Dio ne scampi!
A quel ricordo s’era fatta tutta seria. Pensava alla sua creatura:
— Chi sa dove penava?... Il suo destino avea voluto così!
E scuoteva il capo... E il ferro, pon, pan, pon sul tavolino con dei colpi arrabbiati.
Ma se veniva interrogata intorno al commendatore, Marietta diventava a un tratto discreta.
— Un bravo signore. Spende, spande...
Non diceva mai altro.
La signora Marulli l’aveva tirata su, a poco a poco, una cameriera perfetta. Astuta, fina, pieghevole, sapeva a tempo e a luogo chiudere un occhio e anche tutti e due, e con la signora andava molto di accordo, benchè il carattere di lei... così difficile...!
— Alla mia padroncina però voglio un gran bene davvero. Mi butterei nel fuoco per farle piacere.
E quando Giacinta, nei momenti più tristi, le apriva tutto il suo cuore, Marietta piangeva.
— Quella benedetta signora!...
Oh! non voleva mettere male tra mamma e figliuola; sarebbe stata un’infamia... Ma, all’ultimo si lasciava andare, e smetteva i riguardi, parlando chiaro e tondo, chiamando pane il pane:
— La signora, con una ragazza da marito in casa, si conduceva male, malissimo... Ecco!