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di calma, un desiderio che mi spingeva ad achetare gli sguardi in una luce più mite, e l’udito in suoni di lodi meno assordanti. Allora perciò m’era dolce far passaggio dalle aule di que’ magnati del regno artistico, a taluna di quelle stanze modeste, entro cui uomini privilegiati si travagliano di lottar colle invidie o colle bizzarrie de’ giudizi contemporanei, o novizii pieni di nobile ardore si apprestano a sostenere, le amarezze del cominciamento per conseguir, quando che sia, la dolcezza del premio. Ivi sovente, né so se io chiami ciò illusioni d’amor proprio o di sentimento, ivi di mezzo all’ingombro di incompiuti sbozzi, o di informi modelli, la mia fantasia si compiaceva di fingersi qua la scintilla del genio, là il marchio d’assoluta impotenza, qui il soffio proprio del nume, lì il ghiaccio della mediocrità. Ed il mio cuore si apriva intanto o alla speranza o alla tristezza secondo che mi parea di indovinare i destini serbati a quei ministri dell’arte. Siam d’accordo, o lettori, che quelle tacite mie profezie non ebber tutte adempimento, perché altro è recar né giudizi il solo lume che vien da caldo sentire, altro è conghietturar per dottrina; ma pur, benché di quest’ultima io fossi men che mediocremente fornito, non è a dire che i miei vaticinii andassero tutti ad un modo falliti. Fra que’ giovani, de’ quali io ardiva inesperto apprezzatore predir le sorti future, molti pur troppo rimasero a’ primi passi, o indietreggiaron, com’io imaginava, altri or son venuti in voce onoratissima, e fra breve occuperanno distintissimo seggio. Un di que’, che a bella prima si attrassero le mie simpatie e pell’amore candido e vivo dell’arte sua, e pel modo di fare, e per l’assiduità degli studii fu Antonio Bisetti, allora allora