Capitolo XIX

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Cap. XIX. Non doversi in conto niuno adoperare scherni: in che gli scherni sieno differenti dalle beffe: da questi ancora generalmente doversi ognuno guardare; quando si adoperino, con che cautele debbano usarsi: di due sorte di motti: niuno dover mai usare molti che mordano.

90. Schernire non si dee mai persona, quantunque inimica; perchè maggior segno di dispregio pare che si faccia schernendo, che ingiuriando; conciossiachè le ingiurie si fanno o per istizza o per alcuna cupidità; e niuno è che si adiri con cosa o per cosa che [p. 57 modifica]egli abbia per niente, e che appetisca quello che egli sprezza del tutto; sicchè dello ingiuriato si fa alcuna stima, e dello schernito niuna o picciolissima. Ed è lo scherno, un prendere la vergogna, che noi facciamo altrui, a diletto, senza pro alcuno di noi. Per la qual cosa si vuole nell’usanza astenersi di schernire nessuno: in che male fanno quelli che rimproverano i difetti della persona a coloro che gli hanno, o con parole, come fece messer Forese da Rabatta delle fattezze di maestro Giotto ridendosi; o con atti, come molti usano, contraffacendo gli scilinguati o zoppi o qualche gobbo: similmente chi si ride d’alcuno sformato o malfatto o sparuto o piccolo; o di sciocchezza che altri dica, fa la festa e le risa grandi e chi si diletta di fare arrossire altrui i quali dispettosi modi sono meritamente odiati.

94. E a questi sono assai somiglianti i beffardi, cioè coloro che si dilettano di far beffe e di uccellare ciascuno, non per ischerno, nè per disprezzo, ma per piacevolezza. E sappi che niuna differenza è da schernire a beffare; se non fosse il proponimento e la intenzione, che l’uno ha diversa dall’altro: conciossiachè le beffe si fanno per sollazzo, e gli scherni per istrazio; comecchè nel comune favellare, e nel dettare, si prenda assai spesso l’un vocabolo per l’altro: ma chi scher[p. 58 modifica]nisce, sente contento della vergogna altrui; e chi beffa, prende dello altrui errore non contento ma sollazzo; laddove della vergogna di colui medesimo per avventura prenderebbe cruccio e dolore. E comechè io nella mia fanciullezza poco innanzi (procedessi nella gramatica, pur mi voglio ricordare, che Mizione, il quale amava cotanto Eschine, che egli istesso avea di ciò maraviglia, nondimeno prendea talora sollazzo di beffarlo, come quando e’ disse seco stesso: — Io vo’ fare una beffa a costui. — Sicchè quella medesima cosa a quella medesima persona fatta secondo la intenzione di colui che la fa, potra essere beffa e scherno.

92. E perciocchè il nostro proponimento male può esser palese altrui, non è util cosa nella usanza il fare arte così dubbiosa e sospettosa; e piuttosto si vuol fuggire, che cercare di essere tenuto beffardo; perchè molte volte interviene in questo, come nel ruzzare o scherzare, che l’uno batte per ciancia, e l’altro riceve la battitura per villania; e di scherzo fanno zuffa; così quegli che è beffato per sollazzo e per dimestichezza, si reca tal volta ciò ad onta e disonore, e prendene sdegno: senza che la beffa è inganno; e a ciascuno naturalmente duole di errare, e di essere ingannato. Sicchè per più cagioni pare che chi procaccia di esser ben voluto e avuto [p. 59 modifica]caro, non debba troppo farsi maestro di beffe.

93. Vera cosa è, che noi non possiamo in alcun modo menare questa faticosa vita mortale del tutto senza sollazzo, nè senza riposo; e perchè le beffe ci sono cagione di festa e di riso, e per conseguente di ricreazione, amiamo coloro che sono piacevoli e beffardi e sollazzevoli. Per la qual cosa pare che sia da dire in contrario; cioè che pur si convenga nella usanza beffare alle volte, e similmente motteggiare. E senza fallo coloro che sanno beffare per amichevol modo e dolce, sono più amabili che coloro che nol sanno, nè possono fare; ma egli è di mestieri avere risguardo in ciò a molte cose.

94. E conciossiachè la intenzion del beffatore è di prender sollazzo dello errore di colui di cui egli fa alcuna stima; bisogna che l’errore, nel quale colui si fa cadere, sia tale, che niuna vergogna notabile, nè alcun grave danno gliene segua; altrimenti mal si potrebbono conoscere le beffe dalle ingiurie. E sono ancora di quelle persone con le quali, per l’asprezza loro, in niuna guisa si dee motteggiare; siccome Biondello potè sapere da messer Filippo Argenti nella loggia dei Cavicciuli.

95. Medesimamente non si dee motteggiare nelle cose gravi; e meno nelle vituperose opere; perciocchè pare che l’uomo, secondo [p. 60 modifica]il proverbio del comun popolo, si rechi la cattività a scherzo: comechè a madonna Filippa da Prato molto giovassero le piacevoli risposte da lei fatte intorno alla sua disonestà.

96. Per la qual cosa non credo io, che Lupo degli Uberti alleggerisse la sua vergogna, anzi la aggravò, scusandosi per motti della cattività e della viltà da lui dimostrata; chè potendosi tenere nel castello di Laterina, vedendosi steccare intorno e chiudersi, incontinente il diede, dicendo, che nullo lupo era uso di star rinchiuso. Perchè dove non ha luogo il ridere, quivi si disdice il motteggiare e il cianciare.