Capitolo XIII

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XII XIV
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Cap. XIII. Delle bugie, delle millanterie, e della umiltà affettata. Quanto spiacciano; e perciò debbon fuggirsi.

52. E quantunque niuna cosa paia che si possa trovare più vana de’ sogni, egli ce n’ha pure una ancora più di loro leggiera; e ciò sono le bugie: perocchè di quello che l’uomo ha veduto nel sogno, pure è stato alcuna ombra e quasi un certo sentimento; ma della bugia nè ombra fu mai, nè immagine alcuna. Per la qual cosa meno ancora si richiede tenere impacciati gli orecchi e la mente di chi ci ascolta, con le bugie che co’ sogni; comechè queste alcuna volta siano ricevute per verità; ma a lungo andare i bugiardi non solamente non sono creduti ma essi non sono ascoltati; siccome quelli le parole de’ quali niuna sostanza hanno in sè; nè più nè meno come s’eglino non favellassero, ma soffiassero.

53. E sappi, che tu troverai di molti che mentono, a niun cattivo fine tirando, nè di proprio loro utile, nè di danno o di vergogna altrui, ma perciocchè la bugia per sè piace loro; come chi bee non per sete, ma per gola del vino. Alcuni altri dicono la bugia per vanagloria di se stessi, millantandosi, e dicen[p. 35 modifica]do di avere le maraviglie e di essere gran baccalari.

54. Puossi ancora mentire tacendo, cioè cogli atti e con l’opera; come tu puoi vedere che alcuni fanno, che essendo essi di mezzana condizione, o di vile, usano tanta solennità ne’ modi loro, e così vanno contegnosi, e con sì fatta prerogativa parlano, auzi parlamentano, ponendosi a sedere pro tribunali e pavoneggiandosi, che gli è una pena mortale pure a vedergli.

55. E alcuni si trovano i quali, non essendo però di roba più agiati degli altri, hanno d’intorno al collo tante collane d’oro, e tante anella in dito, e tanti fermagli in capo, e su per li vestimenti appiccati di qua e di là, che si disdirebbono al cire di Castiglione: le maniere de’ quali sono piene di scede e di vanagloria, la quale viene da superbia, procedente da vanità.

56. Sicchè queste si deono fuggire come spiacevoli e sconvenevoli cose. E sappi che in molte città e delle migliori, non si permette per le leggi, che il ricco possa gran fatto andare più splendidamente vestito che il povero: perciocchè a’ poveri pare di ricevere oltraggio, quando altri, eziandio pure nel sembiante dimostra sopra di loro maggioranza: sicchè diligentemente è da guardarsi di non cadere in queste sciocchezze. [p. 36 modifica]

57. Nè dee l’uomo di sua nobiltà, nè di suoi onori, nè di ricchezza, e molto meno di senno vantarsi; nè i suoi fatti o le prodezze sue o de’ suoi passati molto magnificare, nè ad ogni proposito annoverargli come molti soglion fare: perciocchè pare, che egli in ciò significhi di volere o contendere co’ circostanti, se eglino similmente sono o presumono di essere gentili e agiati uomini e valorosi; o di soperchiarli, se eglino sono di minor condizione, e quasi rimproverar loro la loro viltà e miseria, la qual cosa dispiace indifferentemente a ciascuno. Non dee adunque l’uomo avvilirsi, nè fuori di modo esaltarsi; ma piuttosto è da sottrarre alcuna cosa de’ suoi meriti, che punto arrogervi con parole; perciocchè ancora il bene, quando sia soverchio, spiace. E sappi che coloro che avviliscono se stessi con le parole fuori di misura, e rifiutano gli onori che manifestamente loro s’appartengono, mostrano in ciò maggiore superbia, che coloro che queste cose, non ben bene loro dovute, usurpano. Per la qual cosa si potrebbe per avventura dire, che Giotto non meritasse quelle commendazioni, che alcuno crede, per aver egli rifiutato di essere chiamato maestro; essendo egli non solo maestro, ma senza alcun dubbio singolar maestro, secondo quei tempi. Ora che che egli o biasimo o loda si meritasse, certa cosa è, che [p. 37 modifica]chi schifa quello che ciascun altro appetisce, mostra ch’egli in ciò tutti gli altri o biasimi o disprezzi e lo sprezzar la gloria e l’onore, che cotanto è dagli altri stimato, è un gloriarsi e onorarsi sopra tutti gli altri; conciossiache niuno di sano intelletto rifiuti le care cose, fuori che coloro i quali delle più care di quelle stimano avere abbondanza e dovizia. Per la qual cosa nè vantare ci dobbiamo de’ nostri beni, nè farcene beffe: chè l’uno è rimproverare agli altri i loro difetti, e l’altro schernire le loro virtù; ma dee di sè ciascuno, quanto può, tacere: o se la opportunità ci sforza a pur dir di noi alcuna cosa, piacevol costume è di dirne il vero rimessamente, come io ti dissi di sopra.

58. E perciò coloro, che si dilettano di piacere alla gente, si deono astenere ad ogni poter loro da quello che molti hanno in costume di fare; i quali sì timorosamente mostrano di dire le loro opinioni sopra qual si sia proposta, che egli è un morire a stento il sentirgli; massimamente se eglino sono per altro intendenti uomini e savi: — Signor, V. S. mi perdoni, se io nol saprò così dire: io parlerò da persona materiale, come io sono e, secondo il mio poco sapere, grossamente; e son certo che la V. S. si farà beffe di me, ma pure per ubbidirla. — E tanto penano e tanto stentano, che ogni sottilissima quistione si [p. 38 modifica]sarebbe diffinita con molto manco parole ed in più brieve tempo; perciocchè mai non ne vengono a capo.

59. Tediosi medesimamente sono, e mentono con gli atti nella conversazione e usanza loro alcuni che si mostrano infimi e vili; ed essendo loro manifestamente dovuto il primo luogo ed il più alto, tuttavia si pongono nell’ultimo grado; ed è una fatica incomparabile a sospingerli oltra; perocchè tratto tratto sono rinculati a guisa di ronzino che adombri. Perchè con costoro cattivo partito ha la brigata alle mani, qualora si giunge ad alcuno uscio: perciocchè eglino per cosa del mondo non vogliono passare avanti, anzi si attraversano e tornano indietro; e sì con le mani e con le braccia si schermiscono e difendono, che ogni terzo passo è necessario ingaggiar battaglia con esso loro, e turbarne ogni sollazzo e talora la bisogna che si tratta.