La gara fra Omero ed Esiodo
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LA GARA FRA OMERO ED ESIODO
Aggiungo la versione della gara fra Omero ed Esiodo, composizione d’uno scrittorello del tempo di Adriano. Non ha verun valore, tranne di curiosità. Però alcuni dei versi che i due rivali recitano nella gara appartennero forse a questo o a quello dei poemi del ciclo epico, che andavano sotto il nome di Omero. Del resto, il raccontino, che poi non è neppure troppo noioso, può dimostrare agl’increduli a che cosa si possa ridurre il concetto di poesia nella mente di tapini grammatici.
Omero ed Esiodo, i piú divini fra poeti, tutti quanti gli uomini bramerebbero averli concittadini.
Se non che, Esiodo, nominando a sua patria, tolse di mezzo ogni contesa, dicendo che suo padre
in un borgo meschino, nei pressi abitò d’Elicona,
in Ascra, trista il verno, penosa l’estate, e mai buona.
Omero, invece, tutte le città, e d’ogni città le colonie, affermano che sia loro.
E primi quelli di Smirne dicono che, essendo figlio di Meles, fiume che attraversa la loro terra, e della Ninfa Cretèide, da prima fu chiamato Melesigène, e poi, divenuto cieco, gli fu cambiato il primo nome in quello d’Omero, che presso loro serve a designare chi sia privo della vista.
Quelli di Chio adducono anch’essi argomenti per provare che fu loro concittadino, e affermano che presso loro vivono ancora alcuni della sua famiglia, chiamati Omèridi.
Quelli di Colofóne mostrano anche il luogo in cui dicono che egli, mentre insegnava l’alfabeto ai ragazzi, fece i primi tentativi di poesia, e frutto ne fu il Margíte.
Anche quanto ai suoi genitori, la discordia è grande.
Ellànico e Cleante dicono che fu figlio di Meone; Eugèo, di Meleto; Càllicle di Meàgora: Demòcrito il Trezenio, di Daèmone; e alcuni di Tamira, e gli Egiziani di Menèmaco, e alcuni, perfino, di Telèmaco, figlio d’Ulisse.
E la madre, alcuni dicono che fu Mètide, altri Cretèide, e chi Temiste, e chi Eugnethò, e questi una donna d’Itaca venduta dai Fenici, e quelli la Musa Calliope, e qualcuno Policasta figlia di Nestore.
E il nome sarebbe stato Meles, e alcuni dicono Melesigene, e altri Altes. E poi avrebbe avuto il nome d’Omero, secondo alcuni, perché suo padre sarebbe stato consegnato come ostaggio da quelli di Cipro ai Persiani1, e secondo altri per la sua cecità, perché presso gli Eoli ciechi sono appunto chiamati omeri.
E adesso, riferiremo il responso che la Pizia diede intorno ad Omero durante l’impero del divinissimo Adriano. Questo imperatore chiese di che terra fosse Omero, e di qual padre. E la Pizia diede il seguente responso:
L’ignota stirpe tu mi chiedi, e la terra natale
della Sirena ambrosia. La patria fu Itaca. Il padre
Telèmaco. Epicàsta, la figlia di Nestore, madre
a lui fu, che divenne fra gli uomini tutti il piú saggio.
E a questo responso bisogna prestar fede piú che ad ogni altra testimonianza, per l’autorità cosí di chi interrogò come di chi rispose: tanto piú che, se Ulisse fu nonno di Omero, allora si spiega perché questi lo abbia tanto esaltato.
E alcuni dicono che fu piú antico di Esiodo, ed altri piú giovane, e parente. E stabiliscono la seguente genealogia. Da Apollo e da Aithusa, figlia di Posídone, nasce Lino, da Lino, Piero, da Piero e dalla ninfa Methóne, Eagro, da Eagro e Calliope, Orfeo, da Orfeo, Dreo, da Dreo, Iadmonide, da questo Filoterpe, da questo Eufemò, da questo Epifrade, da questo Melanopo, da questo Dio ed Apollo, da Dio e Pichimede, figlia di Apollo, Esiodo e Perse, da Apelle, Meone, da Meone e dalla figlia del fiume Meleto, Omero.
Ed alcuni dicono che fiorirono nel medesimo tempo, tanto che sarebbero venuti a gara in Aulide di Beozia.
Omero, raccontano, dopo aver composto il Margíte, andava intorno per le città a recitarlo; e, giunto a Delfo, domandò all’oracolo quale fosse la sua patria. E la Pizia gli avrebbe risposto:
Terra natale a tua madre fu l’isola d’Io, che te spento
accoglierà: da l’enimma però di fanciulli ti guarda.
Avuto questo responso, rinunciò a recarsi ad Io, e rimase in quei paraggi. E intorno a quel tempo, Ganíttore, celebrando feste funebri in onore del padre Anfidamante, re dell’Eubea, chiamò a gareggiare tutti gli uomini insigni non solamente per forza e velocità di piedi, bensí anche per sapere: e i premii erano cospicui.
E cosí, per caso, a quanto dicono, Omero ed Esiodo si trovarono insieme in Càlcide. E giudici della gara sederono i notabili di Càlcide, e fra loro Pnèide, fratello del morto. Ed entrambi i poeti gareggiarono meravigliosamente. Ma vinse Esiodo. E la cosa, raccontano, andò cosí.
Fattosi in mezzo alla lizza Esiodo, rivolgeva ad Omero quesiti, uno dopo l’altro. Ed Omero rispondeva.
Esiodo, dunque, chiese:
Figlio di Mèleto, Omero, che avesti dai Numi saggezza,
prima di tutto dimmi qual cosa piú giovi ai mortali.
omero
Primo, per i mortali non nascere è meglio di tutto;
ma nati, quanto prima varcare le soglie dell’Ade.
E la seconda domanda d’Esiodo fu la seguente:
Dimmi anche questo, tu che ai Numi sei simile, Omero:
che cosa pensi tu che piú l’animo allieti ai mortali?
E Omero2:
Quando la pace regna serena sul popolo tutto,
e nel palagio dei re, schierati i signori a banchetto,
porgono orecchio a un divino cantore e son presso le mense
colme di pani e di carni, e attinge il coppier dalla brocca
vino soave, e lo reca d’attorno, ne colma le coppe.
Questo il miglior diletto, per ciò ch’io mi penso, nel mondo.
E a sentir questi versi, gli Elleni rimasero colpiti di tale ammirazione, che li chiamarono versi aurei; ed anche oggi, nei sacrifizi pubblici, prima della libagione e del banchetto, sono recitati per invocare Numi. Ed Esiodo, indispettito pel successo d’Omero, ricorse alle domande difficili, e recitò i seguenti versi:
Musa, le cose che sono, che furono già, che saranno,
non mi cantare: ad altri soggetti rivolgi il tuo cuore3.
E Omero, volendo cavarsela con una risposta degna della proposta, disse:
Per la vittoria in gara, d’intorno alla tomba di Giove
non cozzeranno i pie’ veloci cavalli coi carri.
E avendo anche qui risposto a tòno, Esiodo si rivolse alle sentenze anfibologiche e propose di dir lui tanti versi, uno ad uno, e ad uno ad uno rispondesse Omero, e sempre in modo congruo. Il primo che parla è sempre Esiodo, poi segue Omero. E talvolta la domanda di Esiodo è di due versi.
esiodo
Carni di bovi poi cibavano; e il giogo ai cavalli.....
omero
tolsero, ch’eran sudati. Sazi erano tutti di guerra.
esiodo
E i Frigi, uomini esperti fra tutti a guidare le navi.....
omero
per i pirati sopra la spiaggia preparin la Cena.
esiodo
Ercole sciolse allora dagli omeri l’arco ricurvo.....
omero
ed investí con le frecce la razza di tutti i Giganti.
esiodo
Da valoroso padre quest’uomo ebbe vita, e da madre.....
omero
imbelle: ché la guerra per tutte le femmine è dura.
esiodo
Fu con la madre tua veneranda commisto tuo padre.....
omero
e seminaron, mercè d’Afrodite la bella, il tuo corpo.
esiodo
Quando Artèmide vaga di cuspidi a nozze soggiacque.....
omero
spense Callisto, una freccia vibrando dall’arco d’argento.
esiodo
Da mane a sera, cosí banchettarono; e nulla portato.....
omero
avean da casa: fece le spese Agamènnone sire.
esiodo
Quand’ebbero cenato, vicino alla cenere ardente
l’ossa raccolsero bianche del figlio caduto di Giove.....
omero
del valoroso figlio Sarpèdone, pari ai Celesti.
esiodo
E noi, su la pianura cosí del Simèta approdati,
ce ne andavamo via dai navigli, e avevam su le spalle.....
omero
spade dall’elsa bella, con lance di cuspide lunga.
esiodo
Con le lor mani i primi dei giovani allora dal mare.....
omero
volonterosi e pronti traevano il legno veloce.
esiodo
Poscia alla Còlchide giunsero, e quivi dal principe Eèta.....
omero
fuggirono, poiché lo conobbero inospite e ingiusto.
esiodo
Quand’ebber poi mangiato, bevuto, del ponto i marosi.....
omero
eran lí lí per solcare, sovresse le solide navi.
esiodo
Di cuore a tutti quanti l’Atríde augurava la morte,
ma non però sul mare. Cosí prese allora a parlare:
«O forestieri, mangiate, bevete, né alcuno di voi
possa alla patria sua carissima fare ritorno.....
omero
dai mali afflitto: illesi possiate tornar tutti quanti.
E dopo che Omero ebbe cosí risposto a puntino, di nuovo Esiodo prese la parola.
Ti faccio solo un’altra dimanda, ed a questa rispondi:
a Troia quanti Achei si recarono insiem con gli Atrídi?
E Omero rispose con l’enunciazione d’un problema:
V’eran cinquanta fuochi, sovr’esso ogni fuoco, cinquanta
spiedi, e in ciascuno spiede cinquanta porzioni di carni,
e Achivi, intorno ad ogni porzione, tre volte trecento.
E in tutte queste prove essendo riuscito superiore Omero, Esiodo riprese:
Figlio di Mèleto, Omero, giacché, come dicono tutti,
t’onorano le Muse, le figlie di Giove possente,
compaginando versi, rispondi che cosa migliore
sia pei mortali, e che cosa piú infesto: desidero udirlo.
E Omero:
Esiodo, progenie di Giove, tu chiedi, ed io pronto
sono a parlar di gran cuore. Cosí, volentieri rispondo.
È pei mortali la cosa migliore quand’uno misura
fa di sé stesso. Peggiore fra tutti i malanni
quand’uno adopra verso sé stesso indulgenza soverchia.
Qualunque altra dimanda tu volgimi, or, come ti piace.
esiodo
Come, per quali costumi le città potranno fiorire?
omero
Quando con turpi mezzi lucrar non vorranno, ed onore
avranno i buoni, e pronta giustizia colpisca i malvagi.
esiodo
Qual dono pria d’ogni altro si deve implorare dai Numi?
omero
In ogni caso, sempre, nutrire nel seno giustizia.
esiodo
Sai dirmi in due parole, la cosa migliore fra tutte?
omero
Quand’uno, avendo sane le membra, anche sana ha la mente.
esiodo
E l’efficacia qual’è di giustizia, qual’è del valore?
omero
Se col lavoro privato procacci il vantaggio di tutti.
esiodo
Un uomo, quale prova può dar della propria saggezza?
omero
Se intende il proprio tempo, se sceglie il momento opportuno.
omero
Quando sarà saggezza prestare fiducia alla gente?
esiodo
Quando su l’opera impresa comune pericolo incombe.
esiodo
Che mai felicità si potrebbe chiamar fra i mortali?
omero
Morire dopo molti piaceri e pochissimi affanni.
E recitati anche questi versi, decretarono che si incoronasse Omero. Ma il re Panède ordinò che ciascuno recitasse il brano piú bello dei proprî poemi. Ed Esiodo primo disse4:
Quando le Plèiadi, figlie d’Atlante, si levano in cielo,
tempo è di mietere; quando tramontano, è tempo d’arare.
Esse quaranta giorni rimangono ascose, e quaranta
notti; e di nuovo, poi, volgendosi il giro dell’anno,
quando si arrotan le falci, ritornano, e brillano in cielo.
Questa è la norma, dunque, dei campi, per quelli che al mare
vicino hanno soggiorno, per quelli che lungi dal mare
hanno dimora in valli profonde, su pingui terreni:
di seminare ignudi, di spingere ignudi l’aratro,
e ignudi mieter, quando matura a suo tempo, ogni frutto.
E dopo di lui, Omero5:
E si disposero in due falangi vicino ai Troiani,
salde, che neppur Marte, né Atena che popoli scuote,
se fosser giunti, apporre potevano biasimo; e l’urto
d’Ettore e dei Troiani, qui scelti attendeano i piú forti,
l’asta assiepando all’asta, lo scudo allo scudo proteso,
sicché scudo era a scudo puntello, elmo a elmo, uomo ad uomo.
E si toccavan degli elmi criniti le lucide creste,
ad ogni passo; tanto fitti erano, l’uno su l’altro.
E per le lunghe lancie protese a ferire, la pugna
sterminatrice appariva tutta irta; e abbagliava gli sguardi
lo scintillare del bronzo dagli alti cimieri fulgenti,
dalle corazze di fresco brunite, dai lucidi scudi
che s’avanzavano a masse: chi avesse gioito a tal vista,
chi non si fosse turbato, intrepido stato sarebbe.
E gli Elleni, colpiti anche qui di meraviglia, applaudirono Omero, perché quei versi erano ben degni di lui, e a lui decretarono la corona. Ma il re, invece, incoronò Esiodo, dicendo che la vittoria spettava a chi esortava all’agricoltura, e non già a chi cantava guerre e stragi. Cosí, dunque, raccontano, Esiodo avrebbe conseguita la vittoria. E preso il tripode di bronzo, lo avrebbe offerto alle Muse, dopo avervi fatta incidere la seguente epigrafe:
Consacra questo tripode Esiodo alle Muse Eliconie,
poi che con l’inno vinse in Calcide Omero divino.
E cosí, finita la gara, Esiodo s’imbarcò per andare a Delfo, a consultar l’oracolo, e ad offrire al Nume le primizie della vittoria. E mentre egli entrava nel tempio, la profetessa, a quanto raccontano, ispirata dal Nume, disse:
O fortunato quest’uomo che il piede rivolge al mio tempio,
Esiodo: onor gli fanno le Muse che vivono eterne.
Si spanderà la sua fama dovunque rifulga l’aurora.
Guàrdati bene, però, dal bosco di Giove Nemèo
bellissimo: che lí t’attende il destino di morte.
Ed Esiodo, udito l’oracolo, credendo che il Nume parlasse della Nemea del Peloponneso, si allontanò da quella, e venuto ad Enòe nella Lòcride, si fermò presso Anfífane e Ganíttore, figli di Fegèo. E non aveva inteso il vero senso dell’oracolo perché tutta quella località si chiamava appunto Santuario di Giove Nemeo.
E trattenendosi egli un po’ troppo a lungo ad Enèo, i giovinetti sospettarono che Esiodo fosse amante della sorella: sicché lo uccisero, e lo gittarono in mare fra l’Acaia e la Locride. Ma dopo tre giorni, i delfini riportarono il cadavere alla spiaggia, mentre si celebrava una festa detta Ariadnea. Tutti corsero alla spiaggia, e, riconosciuto il cadavere, lo seppellirono pieni di cordoglio, e cercarono a morte gli uccisori. E questi, temendo l’ira dei loro concittadini, messa in mare una barca da pescatori, navigarono verso Creta. Ma a metà viaggio, Giove scagliò su loro un fulmine, e li fece sprofondare: cosí narra Alcidamante nel Museo.
Ed Eratostene, nel suo Esiodo, dice che Ctimeno ed Antifo, figli di Ganíttore, avendo ucciso Esiodo per la ragione suddetta, furono immolati dall’indovino Euricleo ai Numi protettori degli ospiti; e che la ragazza loro sorella, dopo lo stupro, si appiccò da sé; e che lo stupro fu commesso da un popolano compagno di viaggio d’Esiodo, che si chiamava Troilo; e che anche questi sarebbe stato ucciso dai fratelli.
E poi, quelli di Orcomeno, trasportando, in obbedienza ad un oracolo, il suo corpo nella loro terra, gli diedero sepolcro, e sulla tomba scrissero:
Ascra è mia patria, ferace di biade; ma l’ossa mie copre
dei Minii, di cavalli flagellatori, il suolo.
Esiodo sono; e godo, fra quanti sono uomini eletti
nell’agon di saggezza, su tutti eccelsa fama.
⁂
Questo per Esiodo. E Omero, a sua volta, mancatagli la vittoria, andava attorno a recitare i suoi poemi, e primo la Tebaide, di settemila versi, il cui primo verso era:
Argo assetata, o Dea, tu cantami, donde i Signori.
E poi Gli Epigoni, di settemila versi, che cominciavano:
Or si cominci a cantare d’eroi piú giovani, o Muse.
Perché dicono che anche questo poema fosse d’Omero. E i figli del re Mida, Santo e Gorgo, uditi i suoi poemi, lo invitarono a comporre un epigramma per la tomba del loro padre, sulla quale era una fanciulla di bronzo che piangeva per la morte di Mida. E scrisse il seguente:
Sono fanciulla di bronzo, che sto su la tomba di Mida.
Sinché l’acqua fluisca, fioriscano gli alberi grandi.
brillin, dal mare sorgendo, il sole e la fulgida luna,
sinché scorrano fiumi, rimormori il mare alla spiaggia,
io, sopra questo sepolcro di lagrime molle restando,
a chi passa dirò che questa è la tomba di Mida.
E ottenuta da loro in dono una fiala d’argento, la offrí ad Apollo in Delfi, con la seguente iscrizione:
Questo bel dono, Apollo signore, Omero t’offriva,
per la saggezza tua: possa tu dargli sempre la gloria.
E dopo ciò, compose l’Odissea, di 12500 versi, avendo già prima composta l’Iliade, di 10005. E di lí venuto ad Atene, ebbe ospitalità presso Medone re degli Ateniesi. E in Consiglio, un giorno che faceva assai freddo e avevano acceso un gran fuoco, improvvisò, dicono, i seguenti versi:
I figli sono all’uomo corona, le torri alla rocca,
sono i cavalli ornamento del piano, le navi del mare,
è delle case fregio ricchezza, ed i príncipi degni
seduti in assemblea, visibile fregio alle genti:
piú decorosa è la casa, se il fuoco vi brilla, a vedere,
nei dí d’inverno, quando giú fiocca la neve dal cielo.
Di lí andò a Corinto, recitò i poemi, ne riscosse grande onore. Poi andò in Argo, e recitò i seguenti versi dell’Iliade (II, 560 sg.):
E quei ch’Argo e Tirinto tenevano cinta di mura,
ed Ermïone ed Asíne, costrutte sul golfo profondo,
ed Epidàuro, ricca di vigne, ed Eióne e Trezène,
e quei figli d’Acaia che avevano Egina e Maseta:
guidati eran costoro dal pro’ Dïomede, e dal caro
figlio di Capanèo famoso, da Stènelo; e terzo
Euríalo iva con essi, l’eroe che sembrava un Celeste,
figlio di Mecistèo sovrano, figliuol di Telone.
Ma tutti quanti poi li guidava il guerrier Dïomede;
e ottanta negre navi seguiti li avevano a Troia.
Ed uomini eran qui schierati maestri di guerra,
gli Argivi dai corsali di lin, pungiglioni di guerra6.
E i primati degli Argivi, oltremodo lieti dell’elogio che il piú celebre dei poeti tributava alla loro stirpe, lo onorarono con doni preziosi, ed erettagli una statua di bronzo, decretarono che si celebrasse un sacrifizio in onore d’Omero ciascun anno, in un mese e in un giorno stabilito, e che ogni anno si mandasse un altro sacrificio a Chio. E sulla sua statua scrissero il seguente epigramma:
fregiò con la saggezza de la parola ornata,
scalzarono, a vendetta d’Elena chioma bella.
Perciò questa città popolosa una effigie gli eresse,
E rimasto qualche tempo in questa città, si recò a Delo, alla festa solenne. E qui, salito su l’altare di corno, recitò l’inno ad Apollo che comincia col verso:
No, non oblio, mi ricordo d’Apollo che lungi saetta.
E dopo che ebbe recitato quell’inno, gli Ionî gli conferirono la cittadinanza, e i Delfi, incisine versi in una lastra bianca, li affissero nel tempio di Artèmide.
E finita la festa, il poeta navigò ad Io, presso Creòfilo, e rimase lì un certo tempo. Ed era già vecchio. E raccontano che, sedendo un giorno sulla spiaggia del mare, rivolse a certi ragazzi che tornavano dalla pesca la seguente domanda:
O pescatori d’Arcadia, che abbiamo pigliato di bello?
E quelli risposero:
Quanto cercammo perdemmo, portiamo ciò che non prendemmo.
E Omero non capí, e chiese che cosa volessero dire. E quelli risposero che alla pesca non avevano preso nulla, ma che s’erano empiti di pidocchi. E di questi pidocchi, quelli che avevano potuti acchiappare, li avevano gittati via, e quelli che non avevano potuti acchiappare, i portavano ancora nei mantelli.
E Omero, ricordandosi allora che secondo l’oracolo doveva finir qui la sua vita, scrisse l’epigramma per la propria tomba. E, partito di lí, sdrucciolò sul terreno fangoso, cadde su un fianco, e dopo tre giorni era morto.
E fu sepolto in Io. E il suo epigramma funebre è il seguente:
La terra il sacro capo nel grembo qui cela dell’uomo
che celebrò gli eroi nel canto, d’Omero, divino.
Note
- ↑ Hómeros voleva dire ostaggio.
- ↑ I versi che seguono son tolti dall’Odissea, IX, 5 sg.
- ↑ Escluso il passato il presente e il futuro, non si vede che cosa il povero interpellato potesse cantare. La proposta era dunque un po’ a vanvera. A vanvera è anche la risposta d’Omero, che non ha nessun rapporto con la domanda. E in questo senso credo lo scrittore dica che Omero rispose a tòno.
- ↑ I versi che seguono sono delle Opere e i giorni, 383 sg.
- ↑ I versi che seguono sono dell’Iliade, XIII, 126 sg., 339 sg.
- ↑ Gli ultimi due versi non si trovano in Omero.