Fosca/Capitolo XXIII

Capitolo XXIII

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Capitolo XXII Capitolo XXIV
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XXIII.

La felicità di cui aveva goduto in quei tre giorni aveva infuso in me — ordinariamente sì timido — un poco di quella baldanza, di quella fiducia di sè stessi che hanno tutti gli uomini prosperi. Sapevo che all’indomani del [p. 80 modifica]mio arrivo non avrei potuto evitare di trovarmi solo con Fosca, e me le presentai con coraggio.

Adesso non so dire come ella fosse mutata, ma allora lo comprendeva. Il pallore e la magrezza del suo volto erano già tali che parevano non poter aumentare, pure in quel giorno mi colpirono più vivamente del solito. Gli occhi — la sola beltà di quel viso — erano come arrossati dal piangere e dal vegliare, e un cerchio orribilmente livido pareva ingrandirne le orbite. Le labbra quasi pavonazze aggiungevano qualche cosa di spaventevole alla sua fisionomia. Del resto non v’era alcun disordine nel suo acconciamento, che era, come sempre, elegante e accurato. Le sue fattezze arano riposate e quasi sorridenti.

— Ho ricevuto la vostra lettera e vi ringrazio, mi disse ella con calma.

E porgendomi la destra, aggiunse:

— Spero che mi sarà almeno lecito di stringervi la mano.

— Diamine! Non abbiamo cessato di essere amici, e poi...

— Oh, interruppe ella sorridendo, voi vi dimenticate già di ciò che mi avete scritto: «Credete che la pura amicizia non è possibile tra noi...»

— Allora si trattava d’altra cosa. Ora... Io intendo l’amicizia nel senso convenzionale della parola; un legame che non ha diritto ad alcuna intimità, e si limita a pochi rapporti superficiali.

— In questo senso, va bene.

— Accettereste dunque sinceramente questa specie di amicizia?

— Sinceramente.

— Grazie!

— Semprechè, riprese ella dopo qualche momento, [p. 81 modifica]non aveste a mutar consiglio da oggi a domani, e ad evitare di trovarvi solo con me, come avete fatto dopo il nostro primo abboccamento. Anche allora mi avevate fatto una promessa simile a questa.

— Era un’altra questione, io dissi. Comprenderete che io non prevedeva allora ciò che è successo, e che quel contegno non aveva altro scopo che di evitarlo.

— Voi non sapete come ne sono mortificata.

— Di che?

— Di ciò che è successo.

— Perchè? Non ne è il caso. La vostra simpatia mi onora, e la vostra sensibilità non forma che l’elogio del vostro cuore.

— Quanto siete indulgente! diss’ella con un sorriso pieno di ironia.

Era disgustato di quella freddezza. Comprendeva che essa voleva mostrarsi indifferente al mio rifiuto, e che il suo amor proprio umiliato gliene dava tutti i diritti; pure, mi faceva pena il vederla irridere a quell’affetto che aveva creduto sì serio e sì veemente.

— Vi siete divertito a Milano?

— Assai.

E lo dissi a posta con enfasi.

— Confessate che quella donna, lei... la mia rivale, riprese essa marcando queste parole con un sorriso, abita a Milano, e che vi siete andato per rivederla.

— Era facile indovinarlo. Non è cosa che indichi in voi una penetrazione molto profonda.

— Sono sì ingenua sul conto vostro! E vi tornerete?

— Prestissimo.

— Se ne avrete licenza.

— S’intende.

— Ah! ah! esclamò ella sorridendo, dirò io una [p. 82 modifica]parola a mio cugino. Dipenderà tutto da lui. Scommetto che avrete bisogno dell’opera mia.

— Signora! io dissi vivacemente, non comprendo le intenzioni che vi consigliano a farmi quest’offerta, e mi astengo dal rispondervi.

— Rifiutereste perfino la mia mediazione?

— Non vi avrei creduta capace di offrirmela!

— Siete geloso della mia dignità! Ciò mi piace. Ma avrei fatto volontieri una bassezza per voi. Che volete? È un capriccio. Amate molto quella donna?

— Ve l’ho detto, alla follia.

— È bella?

— Un angelo.

— È buona?

— Un angelo.

— Perchè non la sposate?

— Ha marito.

— Ah! E la stimate?

— La stima è una condizione dell’amore.

— Non è vero, ma non importa. Vi renderà dunque molto felice?

— Tanto che temo morirne.

— Sono contenta, diss’ella.

Tacemmo per qualche istante tutti e due. Essa lacerava colle dita l’estremità di un fazzolettino di garza che s’era annodata al collo, e guardava fisso a terra senza batter palpebra.

— Sentite, le dissi io dopo qualche momento, io soglio porre in tutte le mie azioni una franchezza con cui mi vanto di non aver mai avuto la debolezza di transigere. Questo dialogo pieno di ironia mi umilia, questo ferirsi scambievolmente non è nè leale, nè onesto, sopratutto è indegno di noi. La nostra situazione è ora ben definita. È necessario che non torniamo più su questo argomento. [p. 83 modifica]

— È ciò che io desiderava.

— Ne sono felice. Spero che non avremo più motivo di parlare di noi.

— Potete anche sperare che non ci vedremo più.

— Sia, diss’io esitando, sarebbe affliggente, ma utile.

Ella si alzò, s’inchinò freddamente, ed uscì senza guardarmi.

Non l’avrei io realmente più veduta? Ne dubitava.