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rola a mio cugino. Dipenderà tutto da lui. Scommetto che avrete bisogno dell’opera mia.

— Signora! io dissi vivacemente, non comprendo le intenzioni che vi consigliano a farmi quest’offerta, e mi astengo dal rispondervi.

— Rifiutereste perfino la mia mediazione?

— Non vi avrei creduta capace di offrirmela!

— Siete geloso della mia dignità! Ciò mi piace. Ma avrei fatto volontieri una bassezza per voi. Che volete? È un capriccio. Amate molto quella donna?

— Ve l’ho detto, alla follia.

— È bella?

— Un angelo.

— È buona?

— Un angelo.

— Perchè non la sposate?

— Ha marito.

— Ah! E la stimate?

— La stima è una condizione dell’amore.

— Non è vero, ma non importa. Vi renderà dunque molto felice?

— Tanto che temo morirne.

— Sono contenta, diss’ella.

Tacemmo per qualche istante tutti e due. Essa lacerava colle dita l’estremità di un fazzolettino di garza che s’era annodata al collo, e guardava fisso a terra senza batter palpebra.

— Sentite, le dissi io dopo qualche momento, io soglio porre in tutte le mie azioni una franchezza con cui mi vanto di non aver mai avuto la debolezza di transigere. Questo dialogo pieno di ironia mi umilia, questo ferirsi scambievolmente non è nè leale, nè onesto, sopratutto è indegno di noi. La nostra situazione è ora ben definita. È necessario che non torniamo più su questo argomento.