Fosca/Capitolo XIX
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XIX.
Quella situazione non poteva durare. Al domani, mentre ci trovavamo a tavola, dissi a suo cugino:
— Ho ricevuto lettere da Milano che rendono indispensabile una mia gita in quella città; vi sarei obbligato se poteste concedermi una licenza di tre giorni.
— Accordato, rispose il colonnello. Se me ne aveste fatto domanda in ufficio, vi avrei forse risposto di no, ma a tavola! Come fare! Voi conoscete il mio debole e ne approfittate. Fate conto di partire domani? E con qual convoglio?
— Con quello delle quattro.
— Bisognerà far anticipare il vostro pranzo.
— Non occorre, pranzerò alla locanda.
— Che diavolo! esclamò il colonnello. Perchè alla locanda? Non ne vedo la necessità.
E diede ordine che si apparecchiasse alle tre per me solo.
Avevo fatto quella domanda per riabbracciar Clara, anzi tutto; poi per aver tempo a riflettere sopra una risoluzione più fruttuosa, e fors’anche a consigliarmi con lei. Se avessi veduto modo di abbandonare quella casa, tutto sarebbe stato finito; ma la mia mente non giungeva a trovare per ciò un pretesto ragionevole.
Al domani, come aveva preveduto, trovai Fosca che mi aspettava nella sala da pranzo. Essa vi s’era fatto portare un suo piccolo tavolino d’ebano, e vi stava lavorando di ricamo.
Quella sua costanza, quel difetto di amor proprio che mi pareva scorgere nel suo carattere, quell’ostinazione a volermi imporre il suo affetto, fecero si che io la vedessi sotto un aspetto ancora più triste di quanto non me l’avesse già fatta vedere la sua bruttezza. Ne fui offeso e disgustato. Se non era che in quell’istante il pensiero della mia felicità mi rendeva lieto e indulgente, sarei stato veramente cattivo con lei. Ma come si può essere cattivi quando si ama? Se tutti gli uomini amassero, se l’esistenza fosse una giovinezza perenne, la questione del bene e del male sarebbe risolta, il trionfo della virtù sarebbe assicurato: noi non spiccheremmo più dall’albero della vita che i dolci frutti del bene.
Mi contenni nondimeno con molta freddezza. Fosca non parlò mai; io divorava in silenzio. Di quando in quando alzavo gli occhi e la guardavo. Era facile accorgersi che ella soffriva orribilmente, e faceva violenza a sè stessa per contenersi. Vedeva in lei come qualche cosa che stesse per prorompere, come una fiamma che stesse per avvampare; non mi tenevo affatto sicuro di poter uscire da quella casa senza subire le spiegazioni che tanto temeva.
L’orologio suonò le ore.
— Tre e mezza, io dissi, non ho tempo a perdere.
Ella alzò gli occhi, e mi chiese:
— Andate a Milano?
— Sì.
— Vi divertirete?
— Spero.
— Mi sembrate molto contento.
— Non ho motivo di esser triste.
— Quando ritornerete!
— Fra tre giorni.
— Vi ricorderete di me?
— Perchè no! Ricordandomi di questa città, di vostro cugino... mi ricorderò anche di voi...
Essa chinò il capo. Io mi alzai e presi il mio cappello. Fosca fece atto di volermi accompagnare nell’anticamera.
— Restate, io le dissi, non lo permetto.
E stesi la mano quasi per impedirlo.
Essa la strinse tra le sue sì fortemente che ne sentii quasi dolore. Se la portò al cuore e se la premette sul petto con atto convulsivo; poi, prima che io avessi potuto rimettermi da quella sorpresa, abbandonò la mia mano, mi gettò le braccia al collo e mi coperse il volto de’ suoi baci, il cui ribrezzo mi fece restare agghiacciato ed immobile.
— Cessate, io le dissi, sciogliendomi con dolcezza da quell’abbracciamento, cessate per carità; vi vedranno, pensate...
— No, no, interruppe ella, mi vedessero, e che monta? Oh Giorgio! pietà di me, pietà di me! Io vi adoro.
Si gettò a terra con atto disperato, e mi abbracciò le ginocchia. Il suo volto era tutto pieno di lacrime.
— Mi disprezzerete! Ebbene, non importa; purchè mi soffriate, purchè mi permettiate di vedervi, di dirvi il mio amore, di raccontarvi i miei patimenti, di piangere con voi. Se non ve l’avessi confessato io che vi amava, voi non me l’avreste detto mai, nessuno me l’avrebbe detto perchè hanno tutti orrore di me. Oh, abbiate compassione! amatemi, amatemi; si ama un cane, una bestia... e perchè non amerete me che sono una creatura come voi?...
(Mi ricordo ancora di queste parole terribili: «si ama un cane, una bestia...»)
— Alzatevi, alzatevi, io le dissi con voce tremante. Le vostre parole mi turbano, mi straziano il cuore. Calmatevi, ricomponetevi. Ora, lo vedete, io debbo partir subito, non posso dirvi tutto ciò che vorrei. Il vostro affetto mi commuove, la vostra simpatia mi lusinga... veramente... ma ora... Vi scriverò da Milano, vi scriverò lungamente, subito... vi dirò tante cose; datemi un indirizzo, un nome...
— Il mio nome di ragazza?
— Avete marito?
— L’ebbi.
— (Mio Dio!)
Mi diede un indirizzo.
— Mi scriverete davvero? diss’ella col volto raggiante di gioia, davvero? mi scriverete? Oh grazie, grazie!
— Non ne dubitate, domani stesso. Ora restate qui, siete agitata, potrebbero indovinare...
Mi accompagnò fino alla soglia dell’uscio, mi guardò con tenerezza ineffabile, mi stese le mani, mi baciò un lembo dell’abito, tornò a ripetere:
— Grazie, grazie della vostra pietà! Pregherò per voi. Siate benedetto! siate benedetto!
Uscii col cuore lacerato.