Fosca/Capitolo XVIII
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XVIII.
V’era però un mezzo ben certo di rendere impossibile ogni altro legame e di distruggere quello che avevamo già contratto — evitare di trovarmi solo con lei. Fuggirla era follìa; l’avessi pur potuto, non l’avrei dovuto; tale estremo era inopportuno, nè ella il meritava, nè suo cugino ci sarebbe passato sopra senza volerne sapere le cause.
Ella avrebbe potuto leggere nell’anima mia il pentimento che io sentiva di quel primo abbandono e la risoluzione decisa di dimenticarlo; il mio contegno doveva essere sufficiente a ciò, nè il suo orgoglio le avrebbe permesso di chiedermene una spiegazione.
Riuscii per alcuni giorni ad evitare di trovarci soli — cosa che non ebbe a costarmi poca fatica, perchè ella, dal canto suo, poneva in opera ogni strattagemma possibile per ottenere uno scopo contrario. Aveva ella indovinato le mie intenzioni? Non lo lasciava apparire. Forse ad arte, giacchè in tal caso il suo amor proprio le avrebbe dovuto imporre la stessa severità di contegno a mio riguardo.
Non era più stata malata, nè aveva lasciato passare una sola occasione per vedermi. All’indomani di quella passeggiata, ciascun commensale aveva trovato un fiore sul suo coperto; inutile dire che il mio era il più bello. Tutte le cure, tutte le preferenze possibili erano per me. Ella sapeva porre tant’arte in dissimulare questa predilezione, che nessuno se n’era avveduto, ma era tal cosa che a me non poteva sfuggire. Ne era commosso, ma me ne doleva amaramente.
Da principio mi era sembrato tollerasse quella mia apatia con animo indifferente, in seguito mi avvidi che incominciava ad immalinconire, e ne soffriva.
Una sera in cui eravamo seduti dappresso — fosse caso, fosse disegno — accostò tanto il suo braccio al mio da toccarlo e da premerlo; io mi ritrassi un poco: bastò quest’atto a cagionarle una crisi nervosa delle più violente.
Che poteva io fare? Sentiva pietà di lei, vedeva il suo cuore e ne soffriva; ma l’egoismo del mio amore, la mia felicità, la natura stessa facevano tacere in me quel sentimento. Io era divenuto più fermo che mai nel disegno di respingere quell’affezione.
Una sera il colonnello mi aveva detto:
— Domani usciremo in carrozza assieme, vi farò vedere una pariglia che non avete ancora veduto, andremo al castello.
— Volontieri.
All’indomani rimasi penosamente sorpreso nel veder Fosca apparecchiata ad accompagnarci. Eravamo soltanto noi tre, e aspettavamo che ci si annunciasse che la vettura era pronta. Indugiando i domestici in ciò, il colonnello salì sulle furie, e discese egli stesso nel cortile. Rimanemmo soli, in piedi, l’uno di fronte all’altra. Nessuno di noi osava rompere quel silenzio angoscioso.
Ad un tratto, Fosca afferrò con atto disperato le mie mani che io teneva riunite sul petto, e vi nascose il volto esclamando con voce supplichevole:
— Oh Giorgio, oh Giorgio!
Finsi di essere sorpreso, di non comprendere.
— Che avete? le chiesi io con freddezza, vi sentite forse male? Che è avvenuto?
— Ah! gridò ella respingendo le mie mani con violenza e guardandomi con espressione di affettuoso rancore. E prorompendo in lacrime fuggì nella sua camera.
Suo cugino fu assai sorpreso di questo incidente.
— Che hai? Che accadde?
— Nulla, un’emicrania improvvisa, insoffribile: sto male, non uscirò più, sono disperata. Vorrei morire, morire!
— Morire! Sei pazza! esclamò il colonnello.
E avvicinandosi a me che ero rimasto immoto sull’uscio, mi disse:
— Abbiate pazienza, mio caro, voi vedete che mia cugina sta male; non ho cuore a lasciarla sola; andremo un altro giorno a visitare quel castello.