Pagina:Tarchetti - Fosca, 1874.djvu/73


fosca 71

Avevo fatto quella domanda per riabbracciar Clara, anzi tutto; poi per aver tempo a riflettere sopra una risoluzione più fruttuosa, e fors’anche a consigliarmi con lei. Se avessi veduto modo di abbandonare quella casa, tutto sarebbe stato finito; ma la mia mente non giungeva a trovare per ciò un pretesto ragionevole.

Al domani, come aveva preveduto, trovai Fosca che mi aspettava nella sala da pranzo. Essa vi s’era fatto portare un suo piccolo tavolino d’ebano, e vi stava lavorando di ricamo.

Quella sua costanza, quel difetto di amor proprio che mi pareva scorgere nel suo carattere, quell’ostinazione a volermi imporre il suo affetto, fecero si che io la vedessi sotto un aspetto ancora più triste di quanto non me l’avesse già fatta vedere la sua bruttezza. Ne fui offeso e disgustato. Se non era che in quell’istante il pensiero della mia felicità mi rendeva lieto e indulgente, sarei stato veramente cattivo con lei. Ma come si può essere cattivi quando si ama? Se tutti gli uomini amassero, se l’esistenza fosse una giovinezza perenne, la questione del bene e del male sarebbe risolta, il trionfo della virtù sarebbe assicurato: noi non spiccheremmo più dall’albero della vita che i dolci frutti del bene.

Mi contenni nondimeno con molta freddezza. Fosca non parlò mai; io divorava in silenzio. Di quando in quando alzavo gli occhi e la guardavo. Era facile accorgersi che ella soffriva orribilmente, e faceva violenza a sè stessa per contenersi. Vedeva in lei come qualche cosa che stesse per prorompere, come una fiamma che stesse per avvampare; non mi tenevo affatto sicuro di poter uscire da quella casa senza subire le spiegazioni che tanto temeva.

L’orologio suonò le ore.

— Tre e mezza, io dissi, non ho tempo a perdere.