Fior di Sardegna/Capitolo XVI

Capitolo XVI

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XVI.


La prima impressione che provò nel rientrare nella casa paterna, fu di freddo; le stanze le parevano più grandi, più severe, più gelide, i mobili più oscuri: qualcosa di triste e di freddo come una prigione. Si era abituata all’azzurro infinito del mare, del cielo, delle montagne, al sole ardente, alla pianura selvaggia; ora il sole le sembrava tiepido, le sue montagne nere, la sua casa una prigione. Che contava più l’orto in confronto alla pianura della spiaggia? alla pianura immensa dell’orizzonte aperto e vastissimo? Le sembrò una derisione: non poteva andare più in là del cancello, i passi contati, il limite stretto. E poi quegli alberi dalle grandi ombre tremolanti! Lara odiava l’ombra; amava le macchie basse, [p. 69 modifica]intricate, selvaggie; gli alberi alti del giardino le davano ai nervi, e il loro susurro nella notte non la lasciava dormire. Almeno avesse ritrovato i fiori lasciati prima di partire! Nulla! tutto si era diseccato sotto la sferza del sole; le rose cadute, i rosai ingialliti, i gelsomini sfogliati! Rimanevano solo gli alberi, i nemici di Lara, che di notte parevano scheletri, che di giorno macchiavano la terra color d’oro... Oh, le ombre, le ombre!... Lara amava il sole; rimaneva insensibile sotto i suoi raggi ardenti, guardando tristemente dal suo davanzale quelle ombre che fremevano, danzavano, non sparivano mai... quelle ombre che raffiguravano la macchia proiettata su di lei dal ricordo di Nunzio, folta ombra che non lasciava penetrare più al suo cuore il raggio della gioia. E Lara aveva freddo; moralmente e fisicamente, nel cuore dell’estate e a diciassette anni, Lara aveva freddo.

Giunto il crepuscolo, il suo volto impallidiva orribilmente e un brivido le fremeva per la piccola e gracile personcina. Piangeva spesso e spesso si ripeteva: — Come sono infelice! — Ecco che era caduta nel volgare, ecco che si chiamava infelice perchè la solita sventura dell’amore, l’eterna sventura di tutte le fanciulle, la opprimeva! Ma Lara non pensava più di riderne, oh, no, tutte le sue vecchie teorie essendo sfumate; però in certi momenti si esaminava bene la coscienza, chiedendosi se aveva diritto di dirsi veramente infelice, ma una voce segreta e dolente le rispondeva: sì! sì! Rida il mondo cinico e beffardo, ma forse non v’ha una infelicità più cupa e profonda di quella di una debole fanciulla innamorata, che sa di essere amata ardentemente dal giovane a cui pensa sempre, e da cui la divide la miserabile barriera delle false leggi sociali. Sapere che potrebbe essere felice, che potrebbe trascorrere i giorni nel sorriso e nella gioia, e intanto veder cadere ad uno ad uno quei giorni come foglie ingiallite dall’autunno, cadere lenti, eguali, monotoni, tristi, sentirli passare sulla propria esistenza come soffi di brezza che gelano il cuore, — sentirsi il sangue fremere corroso dalla febbre, la mente ardere piena di sogni, di fantasie, di fuoco, sapere che v’è qualcuno in lontananza che soffre e sogna come lei e per lei, e vedersi sola, e tacere, e [p. 70 modifica]ridere mentre il pianto strozza la gola, e mostrarsi allegra mentre la tristezza rode l’anima, per non parer ridicola, perchè ormai non v’ha nulla di più ridicolo di una fanciulla malata di amore, — tutto ciò è qualcosa di dolorosamente triste, una infelicità muta, forte, fatta squisita dal silenzio e dall’ombra. In Lara ciò produceva il fiore nero della disperazione, quel cupo fiore la cui ombra vela tutti gli altri sentimenti. La lontananza accresceva il suo amore, i ricordi la rendevano cupa e distratta; sempre, sempre, di giorno e di notte, nel sonno e nella veglia, pensava a Nunzio, a null’altro che a lui. La vita le sembrava una landa deserta, oscura, piena di nebbia; solo in lontananza vedeva un punto luminoso che attirava tutta la potenza dei suoi sguardi: ella gli andava incontro, ogni giorno che passava era un passo verso quel punto; sapeva che avvicinandosi esso, le nebbie e le tenebre si sarebbero diradate, ma nel medesimo tempo un presentimento inesorabile le diceva che mai avrebbe raggiunto quell’astro. A poco a poco finì con l’abituarsi a questa nuova fase della sua vita; nel mondo si finisce con l’abituarsi a tutto, alla miseria, al delitto, al rimorso, al dolore: lo dissero tutti i più illustri pensatori ed io qui lo ripeto, perchè so che definitivamente Lara finì con l’abituarsi alla sua piccola sventura, che nella sua fervida e fantasiosa mente assumeva le proporzioni di un grande dolore. Rideva e scherzava come un tempo, ma il suo riso era ironico, spasmodico, e i suoi scherzi sferzavano tutto e tutti, persino Dio. Donna Margherita gemeva sulle insolenze che Lara diceva dei preti e delle bigotte, e attribuiva alla società praticata da Lara ai bagni la nuovissima incredulità della figlia; aveva cercato di ricondurla alla via del Signore, ma Lara aveva risposto che ella era la fanciulla più timorata e religiosa di questo mondo, ma che avrebbe sempre riso delle stravaganze dei fanatici ignoranti. Donna Margherita ne restò desolata. — Vedrai, — disse al marito, — ci accadrà qualche disgrazia! Le tue figlie non hanno più religione, nè timor di Dio! — E non potendo più, donna Margherita fece sì che Lara e Pasqua non avessero relazione con nessuno. Nessun svago, nessuna compagnia, nessun passatempo fu loro concesso. Appena appena fu tollerata una visita [p. 71 modifica]quindicinale e qualche rara passeggiata con Mariarosa e sorelle. Quei giorni erano feste per Lara e Pasqua; un raggio di luce fra le tenebre, un’oasi fra le sabbie del deserto. Il resto della vita era là, nella vasta casa solitaria, i giorni eguali gli uni agli altri, lunghi, muti, stucchevoli.

Pasqua si diede a leggere dei romanzi, a divorarli, protestando però di tratto in tratto contro quell’esistenza impossibile per delle fanciulle che sentono il sangue fremere nelle vene e la vita rumoreggiare nel pensiero giovanile; Lara chinò la testa e tacque: e tacque mentre un’altra sofferenza veniva a tormentarle il piccolo cuore lacerato; la noia! — La noia! — chi mai descrisse questo terribile male? chi mai provandolo non desiderò morire, quasi oppresso dalla più immane delle sciagure? — Avete letto Victor Hugo? Vi ricordate ciò che dice in una delle pagine ardenti ed immortali dei «Miserabili?» «La noia è la base stessa del lutto. La disperazione sbadiglia. Volendo figurarsi qualche cosa di più terribile di un inferno dove si soffra, bisogna supporre un inferno che annoi!...»

Lara annoiata, Lara innamorata, soffriva immensamente e taceva, perchè, come dicemmo, aveva finito con l’abituarsi a tutto. Non un lamento, non un singulto davanti agli altri; ma forse soffriva anche fisicamente, perchè andava insensibilmente dimagrando e impallidendo; era diventata quasi trasparente e invece di crescere pareva diminuisse. — Si scrivevano regolarmente con Nunzio, per mezzo di Mariarosa, l’amica che Lara amava sempre più, al punto che nei momenti in cui si trovavano insieme, dimenticava tutto il resto, e rideva e diventava spensierata, tanto che Mariarosa la credeva felice, — ma le lettere lunghe, ardenti, speranzose del giovane non facevano che accrescere il suo amore e la sua tristezza. Nunzio aveva raggiunto il suo umile impiego, un impiego di cento lire il mese, un impiego che poteva diventare alto ed onorevole, ma solo a furia di anni e di buona condotta. Che aspettava per chiedere Lara in isposa? Forse questo avanzamento? No, chè allora sarebbero stati vecchi entrambi. Aspettava che Lara gli dicesse: — Vieni! — ma Lara non poteva dirglielo, perchè sapeva che don [p. 72 modifica]Salvatore era inflessibile, inesorabile; non poteva dirglielo, perchè non sperava nulla nella di lui venuta. Perchè dunque lo corrispondeva? Non lo sapeva neppur essa: più di una volta, accintasi a scrivergli di dimenticarla, invece di tracciare quella parola si era messa a piangere: — poi, fremendo di rabbia e di passione, gli scriveva lettere più ardenti e lunghe di prima. Aggiungete che Lara non pensava neanche per sogno che un giorno doveva ben raggiungere la sua età maggiore e che così avrebbe potuto fare la sua volontà; ci pensò più tardi: per allora credeva di dover restare sempre soggetta all’autorità del padre, che temeva assai e che forse non amava più come prima. — Sì, le parti si erano invertite. Ora Lara non temeva più donna Margherita, anzi sentiva di amarla più che nell’infanzia, ma temeva don Salvatore e restava fredda, impassibile davanti a lui. Del resto anch’egli dopo i bagni, aveva creduto bene di pigliare un’aria severa di gelido comando con la figlia. Davanti a lui, sotto i suoi occhi scrutatori, Lara tremava nel suo segreto, non si sentiva libera, parlava poco e provava un indefinibile affanno, quasi oppressa da un misterioso e ignoto incubo.

Era infine una ben triste vita quella che trascorreva; il ricordo dei giorni liberi e felici passati in riva al mare le rendevano più penoso il presente; pure giunse il giorno in cui dovette rimpiangere quel presente, in cui quel triste passato le parve bello, guardato attraverso il prisma del tempo.