Fiammetta/Capitolo VII
Questo testo è incompleto. |
◄ | Capitolo VI | Capitolo VIII | ► |
CAP. VII.
Continuavansi le mie angoscie non ostante la speranza del futuro viaggio, e il cielo con movimento continuo seco menando il sole, l’uno dì dopo l’altro traeva senza intervallo, e me in affanni e in amore non iscemante, un più lungo tempo che io non volea mi tenne la vana speranza. E già quello Toro che trasportò Europa tenea Feboonon la sua luce, e li giorni
alle notti togliendo luogo, di brevissimi, grandissimi diveniano; e il florigero Zefiro sopravvenuto, col suo lene e pacifico soffiamento aveva le impetuose guerre di Borea poste in pace, e cacciati del frigido aere li caliginosi tempi e dall’altezze de’ monti le candide nevi, e, li guazzosi prati rasciutti delle cadute piove, ogni cosa d’erbe e di fiori avea rifatta bella; e la bianchezza per la soprastante freddura del verno venuta negli alberi era da verde vesta ricoperta in ogni parte; ed era già in ogni luogo quella stagione, nella quale la lieta primavera graziosamente spande in ciascun luogo le sue ricchezze, e che la terra di varii fiori, di viole e di rose quasi stellata, di bellezza contrasta col cielo ottavo, e ogni prato teneva Narcisso, e la madre di Bacco già aveva della sua pregnezza cominciato a mostrar segni, e più che l’usato gravava il compagno olmo, già da sè ancora divenuto più grave per la presa vesta; Driope e le misere sirocchie di Fetone mostravano similmente letizia, cacciato il misero abito del canuto verno; li gai uccelli s’udivano con dilettevole voce per ogni parte, e Cerere negli aperti campi lieta venìa nuova con li frutti suoi. E oltre a queste cose, il mio crudel signore più focosi faceva li suoi dardi sentire nelle vaghe menti, onde li giovini e le vaghe donzelle, ciascuno secondo la sua qualità ornato, s’ingegnava di piacere all’amata cosa.
Le liete feste rallegravano ciascuna parte della nostra città, più copiosa di quelle che non fu mai l’alma Roma, e li teatri ripieni di canti e di suoni invitavano a quella letizia ciascuno amante. Li giovini quando sopra li correnti cavalli con le fiere armi giostravano, e quando circundati da sonanti sonagli armeggiavano, quando con ammaestrata mano lieti mostravano come gli ardenti cavalli con ispumante freno si debbano reggere. Le giovini donne, vaghe di queste cose, inghirlandate delle nuove frondi, lieti sguardi porgevano a’ loro amanti, ora dall’alte finestre e quando dalle basse porte, e quale con nuovo dono, e tale con sembiante, e tale con parole confortava il suo del suo amore.
Ma me sola solitaria parte teneva quasi romita, e sconsolata per la fallita speranza, de’ lieti tempi avea noia. Niuna cosa mi piaceva, nulla festa mi poteva rallegrare, nè conforto porgere pensiero nè parola; niuna verde fronda, niuno fiore, niuna lieta cosa toccavano le mie mani, nè con lieto occhio le riguardava. Io era divenuta dell’altrui letizie invidiosa, e con sommo disiderio appetiva che ciascuna donna così fosse da Amore e dalla Fortuna trattata come io era. Ohimè! con quanta consolazione più volte già mi ricorda d’avere udite le miserie e le disavventure degli amanti nuovamente avvenute!
Ma mentre che in questa disposizione mi tenevano dispettosa gl’iddii, la Fortuna ingannevole, la quale alcuna volta per affliggere con maggior doglia li miseri loro nel mezzo dell’avversità quasi mutata si mostra con lieto viso, acciò che essi più abandonandosi a lei caggiano maggiore stoscio cessando la sua letizia (li quali, se come folli s’appoggiano allora ad essa, cotali abbattuti si trovano, quale il misero Icaro nel mezzo del camino, presa troppa fidanza nelle sue ali, salito all’alte cose, da quelle nell’acque cadde del suo nome ancora segnate); questa, me sentendo di quelli, non contenta de’ dati mali apparecchiandomi peggio, con falsa letizia indietro trasse le cose avverse e il suo corruccio, acciò che, più movendosi di lontano, non altramente che facciano li montoni africani per dare maggiore percossa, più m’offendesse; e in questa maniera con vana allegrezza alquanto diede sosta alle mie doglie.
Essendo già per ogni mese promesso troppo più di quattro dimorato il poco fedele amante, avvenne che un giorno, dimorando io ne’ pianti usati, la vecchia balia, con passo più spesso che la sua età non prestava tutta nel vizzo viso di sudore molle, entrò nella camera nella quale io era, e postasi a sedere, battendole forte il petto, negli occhi lieta, più volte cominciò a parlare; ma l’ansietà del polmone procedente ogni volta nel mezzo le rompea le parole. Alla quale io piena di maraviglia dissi: O cara nutrice, che fatica è questa che t’ha così presa? Qual cosa disideri tu di dire con tanta fretta, che prima l’affannato spirito non lasci posare? E` ella lieta o dolente? Apparecchiomi io di fuggire o di morire, o che debbo fare? Il tuo viso alquanto, non so di che nè per che, rinverdisce la mia speranza, ma le cose lungamente state contrarie mi porgono quella paura di peggio che ne’ miseri suole capère. Di’ adunque tosto, non mi tenere più sospesa: qual fu la cagione della tua rattezza? Dimmi se lieto Iddio, o infernal furia, qui t’ha sospinta.
Allora la vecchia, ancora appena riavuta la lena, intrarompendo le mie parole, assai più lieta disse: O dolce figliuola, rallègrati, niuna paura è ne’ nostri detti; gitta via ogni dolore, e la lasciata letizia ripiglia: il tuo amante torna.
Questa parola entrata nell’animo mio sùbita allegrezza vi mise, sì come li miei occhi mostrarono; ma la miseria usata in brieve la tolse via e nol credetti, anzi piagnendo dissi: O cara balia, per li tuoi molti anni e per li tuoi vecchi membri, li quali omai l’etterno riposo domandano, non ischernire me misera, li cui dolori in parte dovrebbero essere tuoi. Prima torneranno li fiumi alle fonti, ed Espero recherà il chiaro giorno, e Febea co’ raggi del suo fratello darà luce la notte, che torni lo ’ngrato amante. Chi non sa che egli ora ne’ lieti tempi, con altra donna, più amando che mai si rallegra? Ove che egli fosse ora, si tornerebbe egli a lei, non che egli da lei si partisse per venir qua.
Ma ella sùbito seguitò: O Fiammetta, se gl’iddii lieta ricevano l’anima di questo vecchio corpo, la tua balia di niente ti mente; nè si conviene alla mia età omai andare di così fatte cose nessuna persona gabbando, e te massimamente, la quale io amo sopra tutte le cose.
Adunque, - dissi io - come è ciò pervenuto alle tue orecchie, e onde il sai? Dillo tosto, acciò che, se verisimile mi parrà, io mi rallegri della lieta novella.
E levatami del luogo ove io stava, già più lieta m’appressai alla vecchia, ed ella disse: Io, sollecita alli fatti familiari, questa mattina sopra li salati liti, quelli esseguendo, andava con lento passo, e intenta sopra quelli dimorando con le reni al mare rivolta, uno giovine d’una barca saltato, sì come io vidi poi, disavvedutamente portato dall’impeto del suo salto, me urtò gravemente; per che io contra di lui gl’iddii scongiurando, crucciosa rivoltami contra lui per dolermi della ricevuta ingiuria, egli con parole umili subitamente mi chiese perdono. Io il riguardai, e nel viso e nell’abito del paese del tuo Panfilo lo stimai, e dimandailo: Giovine, se Iddio bene ti dia, dimmi, vieni tu di paese lontano?
Sì, donna rispose.
Allora diss’io: Deh, dimmi donde, s’egli è licito.
Ed egli: Delle parti d’Etruria, e della più nobile città di quella vengo, e quindi sono.
Come io udii questo, d’una patria col tuo Panfilo il conobbi, e dimandailo se egli il conosceva, e che di lui era; e quegli rispose di sì, e di lui molto bene mi narrò, e oltre a ciò disse che egli con lui ne sarebbe venuto, se alcuno piccolo impedimento non l’avesse tenuto, ma che senza fallo in pochi dì qua sarebbe. In questo mezzo, mentre queste parole avevamo, li compagni del giovine tutti in terra scesi con le loro cose, ed egli con esso loro, si partirono. Io, lasciato ogni altro affare, con tostissimo passo, appena tanto vivere credendomi che io te ’l dicessi, qui ne venni ansando, come vedesti, e però lieta dimora, e caccia la tua tristizia.
Presila allora, e con lietissimo cuore baciai la vecchia fronte, e con dubbioso animo poi più volte la scongiurai e dimandai da capo se questa novella vera fosse, disiderando che non il contrario dicesse, e dubitando che non m’ingannasse; ma poi che più volte sè dire il vero con più giuramenti m’ebbe affermato, benchè ’l sì e ’l no, credendolo, nel capo mi vacillasse, lieta con cotali voci gl’iddii ringraziai: O superno Giove, de’ cieli rettore solennissimo, o luminoso Apollo a cui niente s’occulta, o graziosa Venere pietosa de’ tuoi suggetti, o santo fanciullo portante li cari dardi, laudati siate voi. Veramente chi in voi sperando persevera, non può perire a lungo andare. Ecco che per la grazia di voi, non per li meriti miei, il mio Panfilo torna; il quale io non vedrò prima che li vostri altari, stati per addietro incitati da li miei ferventissimi prieghi e bagnati d’amare lagrime, d’accettevoli incensi saranno onorati, dandoli io. E a te, o Fortuna, pietosa tornata de’ miei danni, la promessa imagine testante li tuoi beneficii donerò di presente. Priegovi nonpertanto con quella umiltà e divozione che più vi puote essaudevoli rendere, che voi ogni accidente possibile a sturbare la proposta tornata del mio Panfilo sturbiate e togliate via, e lui sano e senza impedimento qui produciate, come egli fu mai.
Finita l’orazione, non altramente che falcone uscito di cappello plaudendomi, così a dire cominciai: O amorosi petti, lungamente da’ mali indeboliti, omai ponete giù le sollecite cure, poscia che ’l caro amante di noi ricordantesi torna come promise. Fuggasi il dolore, la paura e la grave vergogna nell’afflitte cose abondante, nè come per addietro la fortuna v’abbia guidati vi venga in pensiero, anzi cacciate via le nebbie de’ crudeli fati, e ogni sembiante del misero tempo da voi si parta, e torni il lieto viso al presente bene, e la vecchia Fiammetta della rinnovata anima del tutto si spogli fuori.
Mentre che io cotali parole lieta fra me dicea, il cuore divenne dubbio, e non so onde nè come tutta m’occupasse una sùbita tiepidezza, che indietro tirò la volontà presta a rallegrarsi; per che quasi smarrita rimasi nel mezzo del mio parlare. Ohimè! che questo vizio propriamente li miseri sèguita, cioè il non potere mai credere alle cose liete; e avvegna che la felice fortuna ritorni, nonpertanto agli afflitti incresce di rallegrarsi, e quasi sognare credendosi, quella, come non fosse, usano mollemente; per che io fra me quasi come attonita cominciai: Chi mi richiama o vieta dalla cominciata allegrezza? Non torna egli il mio Panfilo? Certo sì: dunque chi mi comanda di piagnere? Da niuna parte m’è ora giunta di tristizia cagione; ora adunque chi mi vieta d’adornarmi di nuovi fiori e delle ricche robe? Ohimè! che io non so, e pur vietato m’è, nè so da chi.
E così stando, quasi in me non fossi, intra li miei errori, non volendo io, da’ miei occhi caddero lagrime, e in mezzo le voci mie venne l’usato pianto: così il lungamente afflitto petto ancora amava gli assuefatti lagrimari. La mente mia, quasi del futuro indovina, col pianto, di ciò che avvenire doveva mandò fuori aperti segni, per li quali io ora veramente conosco allora a’ navicanti grandissima tempesta essere apparecchiata, quando senza vento enfiano li mari tranquilli; ma pure, vaga di vincere quello che l’anima non voleva, dissi: O misera, quali annunzii, quali èmpeti, non bisognandoti, venturi t’infigni? Presta la credula mente a’ beni venuti: che che questo sia che tu t’annunzi, tardi temi e senza profitto.
Adunque, da questo ragionare innanzi io mi diedi sopra la cominciata letizia, e li tristi pensieri, come potei, da me cacciai; e sollecitata la cara balia che intenta stesse della tornata del nostro amante, trasmutai li tristi vestimenti in lieti, e di me cominciai ad avere cura, acciò che da lui tornato per afflitto viso rifiutata non fossi. La palida faccia cominciò a riprendere il perduto colore, e la partita grassezza cominciò a ritornare, e le lagrime, del tutto andate via, se ne portarono con loro il purpureo cerchio fatto d’intorno agli occhi miei; e gli occhi nel debito luogo tornati riebbero intera la luce loro, e le guance per lo lagrimare divenute aspre si ritornarono nella pristina loro morbidezza; e li nostri capelli, avvegna che subitamente aurei non tornassero, nondimeno l’ordine usato ripresero; e li cari e preziosi vestimenti, lungamente senza essere stati adoperati, m’adornarono. Che più? Io con meco insieme rinnovai ogni cosa, e nella prima bellezza e stato quasi mi ridussi tutta, tanto che le vicine donne, e li parenti, e il caro marito n’ebbero ammirazione, e ciascheduno in sè disse: Quale spirazione ha di costei tratta la lunga tristizia e malinconia, la quale nè per prieghi, nè per conforti mai per addietro da lei si potè cacciar via? Questo non è meno che gran fatto; e con tutto il maravigliare n’erano lietissimi. La nostra casa lungamente stata trista per la mia tribulazione, tutta meco ritornò lieta; e così come il mio cuore era mutato, così tutte le cose di triste in liete pareva che si mutassero.
Li giorni, che più che l’usato mi pareano lunghi, per la presa speranza della futura tornata di Panfilo, trapassavano con passo lento; nè più volte furono li primi da me contati, che fossero quelli, ne’ quali io alcuna volta in me raccolta, alle preterite tristizie pensando e agli avuti pensieri, sommamente in me li dannava, così dicendo: Oh quanto male per addietro ho pensato del caro amante, e come perfidamente ho dannate le sue dimoranze, e follemente ho creduto a chi lui essere d’altra donna che mio m’ha detto alcuna volta! Maladette sieno le loro bugie! O Iddio, come possono gli uomini con così aperto viso mentire? Ma certo dalla mia parte ciascuna di queste cose era da fare con più pensato consiglio che io non faceva. Io doveva contrappesare la fede del mio amante tante volte a me promessa, e con tante lagrime e così affettuosamente, e l’ amore il quale egli mi portava e porta, con le parole di coloro li quali senza alcuno saramento parlavano, e non curantisi d’avere più investigato, di quello che essi parlavano, che solamente il loro primo e superficiale parere. Il che assai manifestamente appare: l’uno veggendo entrare una novella sposa nella casa di Panfilo, però che altro giovane di lui in quella non conosceva, non considerando alla biasimevole lascivia de’ vecchi, sua la credette, e così ne disse, a che assai appare lui poco di noi curarsi; l’altro, però che forse alcuna volta o riguardarlo, o motteggiare il vide ad alcuna bella donna, la quale per avventura era o sua parente o onestamente dimestica, sua la credette, e così con semplici parole affermandolo, gliele credetti. Oh se io avessi queste cose debitamente considerate, quante lagrime, quanti sospiri, e quanto dolore sarebbe da me stato lontano!
Ma qual cosa possono gl’innamorati dirittamente fare? Come gli èmpiti vengono, così si muovono le nostre menti. Gli amanti credono ogni cosa, però che amore è cosa sollecita e piena di paura. Essi, per usanza continua, sempre s’adattano gli accidenti nocivi, e, molto disideranti, ogni cosa credono possibile ad essere contraria a’ loro disii, e alle seconde prestano lenta fede. Ma io sono da essere scusata, però che io pregai sempre gl’iddii che me de’ miei disii facessero mentitrice. Ecco che le mie preghiere sono state udite: egli ancora non saprà queste cose; le quali se pure le sapesse, che altro se ne potrà per lui dire, se non Ferventemente m’amava costei? E gli dovrà essere caro sapere le mie angoscie, e li corsi pericoli, però che essi gli fieno verissimo argomento della mia fede. E appena che io dubiti che egli ad altro fine sia dimorato cotanto, se non per provare se con forte animo, senza cambiarlo, lui ho potuto aspettare.
Ecco che fortemente l’ho aspettato: dunque di quinci, sentendo egli con quanta fatica e lagrime e pensieri atteso l’abbia, nascerà amore e non altro. O Iddio, quando sarà che egli venuto mi vegga, e io lui? O Iddio che vedi tutte le cose, potrò io temperare l’ardente mio disio d’abbracciarlo in presenza d’ogni uomo, come io primieramente il vedrò? Certo appena che io il creda. O Iddio, quando sarà che io, nelle mie braccia tenendolo stretto, gli renda li baci, i quali egli nel suo partire diede al mio tramortito viso senza riaverli? Certo l’agurio preso da me del non potergli dire addio è stato vero, e bene m’hanno in quello gl’iddii mostrata la sua futura tornata. O Iddio, quando sarà che io le mie lagrime e le mie angoscie gli possa dire, e ascoltare le cagioni della sua lunga dimoranza? Vivrò io tanto? Appena che io il creda. Deh, venga tosto quel giorno, però che la morte, molto da me per addietro non solamente chiamata, ma cercata, ora mi spaventa: la quale, se possibile è che alcuno priego alle sue orecchie pervenga, la priego che, da me lontanandosi, col mio Panfilo li miei giovini anni in allegrezza lasci trascorrere.
Io era sollecita che niuno giorno passasse che io della tornata di Panfilo non sentissi vera novella, e più volte la cara balia sollecitai a ritrovare il giovine nunziatore della lieta novella, acciò che con più fermezza si facesse accertare di ciò che detto m’avea, ed ella il fece non una volta sola, ma molte, e tuttavia secondo li procedenti tempi più prossimana tornata mi nunziava. Io non solamente il tempo promesso aspettava, ma precorrendo innanzi, imaginava possibile lui essere venuto, e infinite volte il giorno, ora alle mie finestre, ora alla porta correva, in giù e in su riguardando per la lunga via, se io lui venire vedessi; nè per quella di lontano vedeva alcuno uomo venire, che io non imaginassi possibile essere esso, e quello con disiderio aspettava infino a tanto che, fattomisi vicino, lui conosceva non essere desso; di che alquanto meco rimanendo confusa, agli altri, se alcuno ne veniva, attendeva, e ora questo e ora quello trapassando mi tenevano sospesa; e se forse io richiamata dentro in casa, o per altra cagione, da me v’andava, come da infiniti cani fossi nell’anima addentata mi stimolavano centomilia pensieri dicendo: Deh! forse passa egli testè, o è passato mentre che tu a riguardare non se’ stata: ritorna. E così ritornava, e poi mi levava, e da capo mi ritornava a vedere, poco altro tempo mettendo in mezzo che ad andare dalla finestra alla porta, e dalla porta alla finestra. Oh misera me! quanta fatica per quello che mai avvenire non doveva, d’ora in ora aspettando, sostenni!
Ma poi che venne il giorno stato detto alla mia balia che egli dovea venire, il quale essa più volte m’avea predetto, non altramente che Almena alla fama del suo venturo Anfitrione m’adornai, e con maestrissima mano niuna parte in me lasciai senza bellezza nell’essere suo; e appena mi pote’ ritenere d’andare a’ marini liti, acciò che io lui più tosto potessi vedere, nunziandosi fermamente quelle galee giugnere sopra le quali la mia balia era stata accertata lui dovere venire; ma meco pensando: La prima cosa la quale egli farà sarà ch’egli mi verrà a vedere, per questo adunque raffrenai il caldo disio. Ma egli, sì come io imaginava, non veniva: ond’io oltremodo mi cominciai a maravigliare, e nel mezzo dell’allegrezza mi sursero nella mente varie dubitazioni, le quali non leggiermente furono vinte da’ lieti pensieri. Rimandai adunque dopo alquanto la vecchia a sapere che di lui fosse, e se venuto fosse o no; la quale andatavi, per quel che a me paresse più pigramente che mai, per la qual cosa io più volte maladissi la sua tarda vecchiezza. Ma dopo alquanto spazio ella a me ritornò con tristo viso e lento passo. Ohimè! che quando io la vidi, appena vita rimase nel tristo petto, e sùbito pensai non morto nel cammino, o infermo venuto fosse l’amante. Il mio viso mutò mille colori in un punto, e fattami incontro alla pigra vecchia dissi: Di’ tosto: che novelle rechi tu? Vive l’amante mio? Ella non mutò il passo nè rispose alcuna cosa, ma postasi nella prima giunta a sedere, mi riguardava nel viso; ma io già tutta come novella fronda agitata dal vento tremava, e appena le lagrime ritenente, messemi le mani nel petto, dissi: Se tu non di’ tosto che vuole significare il tristo viso che porti, niuna parte de’ nostri vestimenti rimarrà salda. Quale cagione ti tiene tacita, se non rea? Non la celare più, manifestala, mentre che io spero peggio. Vive il nostro Panfilo? Ella, stimolata dalle mie parole, con voce sommessa, mirando la terra disse: Vive. Dunque diss’io allora perchè non di’ tosto quale accidente l’occupi? Perchè sospesa mi tieni in mille mali? E` egli d’infermità occupato? O quale accidente il ritiene che egli a vedermi della galea smontato non viene? Ed ella disse: Non so se infermità o altro accidente l’occupa. Dunque diss’io non l’hai tu veduto, o forse non è venuto? Ella allora disse: Veramente l’ho io veduto, ed è venuto, ma non quello che noi attendevamo. Allora diss’io: E chi t’ha fatta certa che quegli che è venuto non sia desso? Vedestil tu altra volta, o ora con occhio chiaro il rimirasti? Veramente disse ella io nol vidi altra volta costui, che io sappia; ma ora, a lui venuta, da quello giovine menata che della sua tornata m’aveva prima parlato, dicendogli egli che io più volte di lui avea dimandato, mi dimandò che dimandassi; al quale io risposi la sua salute; e dimandatolo io come il vecchio padre stesse, e in che stato l’altre cose sue fossero, e quale era stata la cagione di sì lunga dimora dopo la sua partita, rispose sè padre mai non avere conosciuto, però che postumo era, e che le sue cose, degl’iddii grazia, tutte prosperamente stavano, e che mai più quivi non era dimorato e ora intendeva di dimorarci poco. Queste cose mi fecero maravigliare, e dubitando non fossi gabbata, dimandai del suo nome, il quale egli semplicemente mi disse; il quale io non udii prima, che da somiglianza di nome me con teco conobbi ingannata. Udite io queste cose, il lume fuggì agli occhi miei e ogni spirito sensitivo per paura di morte se n’andò via, e appena, sopra le scale cadendo là dove io era, tanta forza rimase in tutto il corpo che mi bastasse a dire Ohimè!. La misera vecchia piagnendo, e l’altre servigiali della casa chiamate, me per morta nella trista camera sopra il mio letto portarono, e quivi con acque fredde rivocando gli smarriti spiriti, per lungo spazio credendo e non credendo me viva guardarono; ma poi che le perdute forze tornarono, dopo molte lagrime e sospiri, un’altra volta dimandai la dolente balia se così era come avea detto.
E oltre a ciò, ricordandomi quanto cauto essere solesse Panfilo, dubitando non egli si celasse dalla balia, con la quale mai non aveva parlato, aggiunsi che le fattezze di quel Panfilo, col quale ella era stata in ragionamento, mi dichiarasse. Ed essa primieramente con saramento affermandomi così essere come detto aveva, ordinatamente e la statura e le fattezze de’ membri, e massimamente quelle del viso e l’abito di colui mi dimostrò; li quali intera fede mi fecero così essere come la vecchia diceva. Per che, cacciata d’ogni speranza, rientrai ne’ primi guai, e levata, quasi furiosa, le liete robe mi trassi, e li cari ornamenti riposi, e gli ordinati capelli con inimica mano trassi dell’ordine loro, e senza niuno conforto a piagnere cominciai duramente, e con amare parole biasimare la fallita speranza e li non veri pensieri avuti dell’iniquo amante, e in brieve tutta nelle prime miserie tornai, e troppo più fervente disio di morte ebbi che prima; nè da quella sarei fuggita, come già feci, se non che la speranza del futuro viaggio da ciò con forza non piccola mi ritenne.