Faust/Parte prima/La notte di Valpurga
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Traduzione dal tedesco di Giovita Scalvini, Giuseppe Gazzino (1835-1857)
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LA NOTTE DI VALBURGA.
Montagne dello Harz, paese di Schirke ed Elend.
FAUSTO e MEFISTOFELE.
Mefistofele. Non ti vien voglia di un manico di granata? Io per me mi desidero il più nerboruto dei becchi; chè da qui a lassù è da camminare ancor molto.
Fausto. Finch’io mi sento bene in gambe, ho abbastanza di questo nocchioso bastone. E che giova voler accorciare la via? lo godo dell’andarmi aggirando per le tortuosità della valle, e inerpicarmi quindi su per le rupi donde si versano l’eterne sorgenti dei ruscelli; questo mi alleggerisce la noia di una simile andanta. Già le betulle si ravvivano all’alito di primavera, e par che se ne senta anche il pino; — e perchè non ne verrebbe vigore anche alle nostre membra?
Mefistofele. In verità io non ne ho un sentore al mondo; sono una natura invernale, e vorrei più tosto neve e ghiaccio sul mio cammino. Guarda come sorge lenta la Luna fra quegli infocati vapori! Come è mesto il lume della sua logora faccia! Fa sì poco chiaro, che a ciascun passo vai a dare del capo in un albero o in una rupe. Però non ti rincresca ch’io domandi in nostro aiuto un fuoco fatuo. Ne veggo appunto uno colà che mena attorno giocondamente la sua fiammella. Olà, amico, poss’io pregarti di venirne verso di noi? Che vuoi tu starti colà ad ardere indarno? Vien qua, in buonora, e fanne lume su per la salita.
Il Fuoco fatuo. Per buon rispetto io m’ingegnerò di correggere il mio leggier naturale; ma ben sapete che noi abbiamo per costume di andare a zigzag.
Mefistofele. Eh, eh! egli si studia di contraffare gli uomini. Va via diritto in nome del diavolo, o ch’io ammorzo d’un soffio quel tuo piccol guizzo di vita.
Il Fuoco fatuo. Voi siete quassù il padrone, ben me n’avveggo, e farò come saprò meglio il piacer vostro. Ma badate che in questo dì la montagna ha addosso gl’incanti e la pazzia, e se un fuoco par mio deve insegnarvi il cammino, non avete a guardarla troppo nel sottile.
Fauslo, Mefistofele e il Fuoco fatuo cantano a vicenda.
Nel paese de’ sogni, nel regno
Degl’incanti or mettiamo i vestigi:
Fàtti onore, dimostra l’ingegno,
Ben ne guida per l’ombre e i prestigi,
Si che ratto usciam fuori all’aperto
Su lo sterile giogo desesto.
Ve’ come rapidi
Indietro fuggono
Arbor dopo arbori!
Ve’ come i vertici
De’ monti girano,
Come traballano,
E si dirupano!
Come i lunghissimi
Nasi degli orridi
Macigni russano,
Come trombettano!
Giù per sassi e verdi clivi
Si devolvon freddi rivi.
Odo io ’l fremer de’ torrenti?
O il rombar odo de’ venti?
O son giubili, o son canti? —
O son gemiti d’amanti?
Son concenti di quei belli
Di che il ciel spiegava l’ali
Ver la terra, e da fratelli
Visser gli angeli e i mortali?
Soave all’anima
Speme m’infondono,
E desir trepidi!
Mi torna il giovine
Tempo nel cor;
Gli spirti tremano
Ebbri d’amor.
E le strane arcane note
L’eco mesta ripercote
Via per l’erta, come oscuro
Suon dei secoli che furo.
Gufi, allocchi non odi, e pavoncelle,
E civette ogni intorno? E le ghiandaie
Son tutte deste anch’elle?
Son salamandre qui per le prunaie?
O che pance! o che gambe!
E le radici in forme di serpenti
Su per gli scogli vanno
Vagando e per le ghiaie;
E ne annodan di strambe
Maravigliose, e danno
Subitani spaventi.
Giù dall’arbor viventi
Corron triboli e rovi,
E dov’è che il piè movi
T’avviluppi, l’impacci,
Sei colto in mille lacci.
Topi dipinti di color diversi
Van per le felci della landa in frotte,
E luccioloni volan per la notte
Con tai fulgóri quai mai non vedersi.
Ora dal vento spersi,
Or addensati sul cammin malvagio,
Ne addoppiano il disagio.
Ma su, dimmi: stiam noi, o andiam noi?
Tutto tutto qui il monte si gira
Con le rupi e cogli arbori suoi.
O, che giochi ne fan! Mira mira
Immillarsi i volubili fochi
E gonfiare e scoppiare! O, che giochi!
Mefistofele. Tienti saldo al lembo del mio mantello. Qui su a mezza la costa è una roccia da dove vedrai con tua gran maraviglia come Mammone arda per tutta la montagna.
Fausto. Che strano chiarore si accende colaggiù alle falde, e s’interna fin entro le più profonde gole del monte! Là sorge un fumo, colà esalano pingui e da quel lato balena fuori dai vapori una luce che, trasformandosi, ora discorre per l’aria in sottili filamenti, ed ora prorompe a guisa di grandi polle d’acqua. Ivi se ne va via serpendo per la valle, diramata in cento rigagnoli, e là oltre, s’ingorga e frange giù tra i macigni. Qui da presso piovigginano scintille, simili a sparnicciata arena d’oro. — Ma guarda, come quella petrosa giogaia si affuoca tutta lunghesso la cima!
Mefistofele. Non ti pare che il nostro Mammone abbia superbamente illuminato la sua reggia per simil festa? O tua gran ventura che hai veduto questo! Parmi già udire il furibondo accorrere dei convitati.
Fausto. Come imperversa la procella per l’aria! e che fieri buffi mi dà dietro nella coppa!
Mefistofele. Ghermisci i vecchi scheggi di quella rupe, chè il turbine non li rovini giù nel profondo. Una grossa nebbia raddensa la notte. Odi risonare di grandi scrosci la foresta, e i gufi svolazzare di qua e di là pieni di spavento! Odi scheggiarsi le colonne di questi palagi di eterna verdura; — odi il cigolare e il frangersi dei rami; il violento squassarsi dei tronchi, lo svellersi e lo squarciarsi delle radici! E rami e tronchi e ceppi s’intralciano, si avviluppano, si dirompono, e mirando vanno giù ad accatastarsi nei fondi declivi del monte, dove fra i loro rottami ulula e sibila il vento. Odi tu voci su in alto? — di lontano? — da presso? Sì certo tutta la montagna risuona di un tempestoso magico canto.
Streghe in coro.
Traggon al Brochen le Streghe in masnada:
La stoppia è gialla ed è verde la biada.
Sovra la cima è il solenne ridotto;
Là siede Uriano sul sasso dirollo.
Vassi per greppe, per bronchi e per stecchi.
Le streghe.... putono i becchi.
Voce. La vecchia Baubo vien sola soletta;
Sur upa scrofa ella monta alla vetta.
Coro. Onore, onore a chi onor si conviene!
Onore a Báubo, a madonna che viene.
O, che mirabile scrofa cavalca!
E che codazzo di streghe! che calca!
Voce. Tu, che via festi?
Voce. Passaimene presso
All’Inselstaino. Ivi dentro d’un fesso
È una civetta; — nessuno la tocchi!
Volli guatarvi, e m’ha fatto un par d’occhi!
Voce. Perchè sì forte? Deh, va in tua mal’ora!
Voce. E m’ha graffiata, che sanguino ancora!
Coro di Streghe.
La via è larga, per tutti v’è loco:
Questo affollarsi è un orribile gioco!
Scopa, ti pellina; forca, ti stroppia;
Affoga il bambolo, la madre scoppia.
Stregoni-semicoro.
Il nostro andare è un andar di lumaccia;
Ve’ come innanzi ogni donna si caccia!
Chè quando a casa del diavolo vassi
Le donne han sempre su noi mille passi.
L’altro semicoro.
Cotesto è grande sottilizzamento:
Se in mille vanci le femmine drento,
Ancor che vadan più ratte che sanno,
D’un salto gli uomini drento ci vanno.
Voce all insù.
Vien su! Ti sferra dai sassi, se puoi.
Voci all’ingiù.
Noi volentier su verremmo con voi.
Siam lindi e lucidi, garbo abbiam molto;
Ma tutto è indarno; il salire n’è tolto.
Ambo i cori.
Le stelle fuggono, l’aer s’abbonaccia,
La Luna vela la mesta sua faccia.
Ronzando i magici festivi cori
Sprizzan per l’ombre infiniti fulgori.
Voce all ingiù.
Aspetta, aspetta! Deh, siimi cortese!
Voce all’insù.
Laggiù chi grida tra l’orride scese?
Voce all’ingiù.
Teco mi togli! deh, teco mi togli!
Da trecent’anni vo su per gli scogli,
Nè posso al sommo condurmi; e starei
Pur volentieri lassù co’ par miei!
Ambo i cori.
Porta la scopa, la forca, il bastone;
Per l’aer valica ratto il caprone.
Se per salir non sai oggi aver ali,
Tu se’ spacciato, in eterno non sali.
Semistrega all’ingiù.
Io, da gran tempo per sorger mi affanno.
O quanto gli altri giả innanzi mi stanno!
Senza riposo è la tresca de’ piedi,
E son pur sempre quaggiù, come vedi.
Coro di streghe.
Le streghe tiran vigor dagli unguenti;
Per vela un cencio puoi spargere ai venti;
E buona barca di un truogolo fai.
Chi non vola oggi non vola giammai.
Ambo i cori.
E quando sórti sarem su l’altura
Radiam col volo la vasta pianura;
Tutta copriam la campagna via via
Col nostro stormo di stregoneria. (Si calano.)
Mefistofele. Vedi l’affollarsi, l’urtarsi, il rimescolarsi che costoro fanno. E’ strillano e mugolano e cinguettano e ronzano e zufolano, e sfolgorano e sfavillano, e putono ed ardono! Oh, il grandissimo indiavolío! Tienti bene stretto a me che non ci smarriamo nella folla. Olà, dove sei tu?
Fausto, di lontano. Qui!
Mefistofele. Poh! già trasportato fin là? Or via, qui mi convien fare da padrone di casa. Largo! il cavalier Volante! su largo, graziosa marmaglia! Fate strada! Qua, dottore, afferrami, e d’un salto vediam di gettarci fuori di questo scompiglio, ch’io medesimo mal so reggere a tante mattezze! Quindi poco discosto splende non so che cosa di un lume così nuovo, ch’io mi sento trarre verso quel prunaio. Vientene, vientene! facciamo di sguizzare fin là.
Fausto. O viluppo di contraddizioni che tu se’! Ma va; fa di me il piacer tuo. Gran senno è il nostro veramente! C’inerpichiamo sul Brochen per godere della Valburga, e nel bello dello spasso ne piace star soli.
Mefistofele. Eh via, mira là quelle fiamme tutte screziate! Sono una briosa combriccola; e ben sai che in piccola compagnia l’uomo non è solo.
Fausto. Io nondimeno n’andrei più volentieri lassù. Già veggo levarsi la vampa, e avvolgersi il fumo; – ed oh, come tutti traggono in calca verso il Maligno! Là certo vi si deono sciogliere molti enigmi.
Mefistofele. E del pari molti enigmi vi si avviluppano. Or tu lascia fervere il gran mondo; e noi c’incantucceremo qui in pace; chè già per antico l’uomo gode di comporsi un suo piccolo mondo nel gran mondo. Veggo colà alcune giovani stregoncelle tutte nude, ed altre vecchie che fanno gran senno a coprirsi. Or tu sii cortese per amor mio, e per poca fatica avrai gran diletto. Odo risonare non so che istromenti. Che maladetto baccano! ma bisogna assuefarvisi. Vien via meco, vieni; egli non c’è scampo. Io vo innanzi e t’introduco alla lor compagnia; e tu mi avrai nuovo obbligo di nuovi servigi. Ehi, che ne dici amico? Ti par egli un piccol luogo questo? Tendi l’occhio in là! a pena ci vedi in fondo. Un centinaio di fuochi ardono tutti in fila, e vi si balla, vi si ciancia, vi si cuoce, vi si bee, vi si fa all’amore. Ora mi di’ se potremmo star meglio altrove?
Fausto. Come vogliam noi introdurci a costoro? Pensi tu di darli per mago o per diavolo?
Mefistofele. Veramente io ho per uso di andare incognito. Se non che ne’ dì di gala ognuno sta sull’onorevole, e mostra i sui ordini. Io non ho la giarrettiera che mi segnali, ma quassù è in gran riverenza il piè di cavallo. — Vedi tu là quella lumaca? Ella vien via strisciando lenta lenta, e col menare intorno delle corna ha già avuto qualche fumo di me; ond’io non riuscirei a celarmi dove pure il volessi. Su, vientene; andremo di fuoco in fuoco: tu sei l’amoroso ed io il dimandante. (Ad alcune persone sedute intorno a carboni mezzo spenti) Che fate voi costì in un angolo, miei vecchi signori? Molto vi loderei, se vi vedessi darvi buon tempo nel bel mezzo del trambusto e dell’allegra gioventù; chè ognuno ha tempo di covar le ceneri in casa.
Un generale.
Il mondo è ingrato, e vivere in affanno
Per l’util della patria è gran follia;
Il popol fa quel che le donne fanno;
I giovani vezzeggia e i vecchi obblia.
Un ministro.
Il mondo di dì in dì cade più in basso.
E per me son co’ vecchi; i vecchi onoro;
Chè quando noi facevam alto e basso,
I popoli godean l’età dell’oro.
Un nuovo ricco.
Noi pur non fummo gonzi veramente,
E del ladro anche avemmo un cotal poco;
Ma la fortuna si mutò repente,
Allor che più parea farne buon gioco.
Un autore.
Da chi, da chi i buon libri oggi son letti?
O che crassa ignoranza! o che cervelli!
Quanto ai leggiadri nostri giovinetti
Non fur mai visti simil saputelli.
Mefistofele, apparendo a un tratto un vecchione.
Il novissimo dì, certo, è vicino;
Addio bel monte! addio leggiadra corte!
Conciossiache io sono al lumicino,
Così anche il mondo è vecchio e in fin di morte.
Strega rigattiera. Signori miei, non passino oltre a quel modo; non lascino fuggire l’occasione. Veggano, veggano che fiore di mercanzie! Qui v’è di tutto; e son nullameno tutte cose rarissime e senza eguali in terra; tutte famose per qualche gran malanno recato, quando che fosse, agli uomini e al mondo. Io non ho in bottega un pugnale dal quale non sia grondato sangue, non una tazza che non abbia dato bere un segreto veleno, e distrutte le più robuste complessioni; non un ornamento che non lasciasse una donna da bene; non una spada che non rompesse un’alleanza, o non trafiggesse l’avversario nelle spalle.
Mefistofele. Madonna, voi conoscete male i tempi. Quelle cose vostre sanno dell’antico, e ciò che è stato è stato. Provvedetevi, in buonora, di novità, chè le novità sole possono allettarci.
Fausto. Io son mezzo fuori di me. Questa in ultimo non è che una fiera!
Mefistofele. La turba trae tutta insieme all’insù. Tu credi di sospingere e sei sospinto.
Fausto. Dimmi, chi è colei?
Mefistofele. Mirala bene! Ell’ė Lilith.
Fausto. Chi?
Mefistofele. La prima moglie di Adamo. Guardati dalla sua bella capigliatura, quell’unico ornamento di cui faccia pompa; chè dove ell’abbia allacciato con essa alcun giovane, nol lascia andare così di leggieri.
Fausto. Vedine qua due a sedere: la vecchia con la giovane a canto; e par ch’ell’abbiano già saltato ben bene.
Mefistofele. Stanotte son senza requie; e già rientrano in ballo. Su, lesti! veggiam di pigliarcele.
Fausto ballando con la Giovane.
Una volta un bel sogno fec’io:
Vedea un melo, e sovr’esso due belli
Tondi pomi; men venne desio,
E sul melo salii per avelli.
La Bella. Il desio delle tonde pomelle,
Figli d’Eva, in voi nasce con voi.
Molto godo che anch’io d’assai belle
N’ho in giardino; le cogli se vuoi.
Mefistofele con la Vecchia.
Una volta un mal sogno fec’io:
Vedea un’arbore sessa per mezzo;
E nell’arbore............;
Benchè.... gli feci buon vezzo.
La Vecchia.
Me le inchino umilissimamente,
Cavaliere dal piè di cavallo.
Son quell’arbore, ho.... patente,
........, se a schifo non hallo.
Proctosantasmista. Maladetta ciurmaglia! Che pazze licenze son queste? Non ve l’abbiamo noi già provato e riprovato le mille volte? Uno Spirito non deve mai stare compostamente in sui piedi; ed ecco voi ballate in tutto alla guisa di noi uomini!
La Bella, danzando. Che borbotta costui del nostro ballare?
Fausto, danzando. Eh! egli si ficca da per tutto. Quand’altri balla bisogna ch’egli lo comenti e lo giudichi; e se non può bisbeticare sa ciascun passo, egli è come se il passo non fosse fatto. Sovra tutto poi gli monta la stizza, quando ne vede ire innanzi. Se vi piacesse di volgervi continuamente in giro, come suol fare egli nel suo vecchio mulino, forse troverebbe che ogni cosa sta a perfezione, specialmente se tratto tratto voleste fargli un profondo salamalecche.
Proctosantasmista. E ancora siete lì? Egli è insopportabile! Orsù, sparite! Noi abbiamo dilucidato ogni cosa, noi! La plebaglia de’ diavoli non vuol freno nè regole. Noi siam pieni di senno, e vanno attorno per Tegel non so che spettri. Quanti anni or sono che noi ci travagliamo a dissipare sì fatti errori! e il mondo non è ancor bene stenebrato. Egli è veramente insopportabile!
La Bella. Vattene dunque, e non ci rompere più il capo con le tue ciance.
Proctosantasmista. Spiriti, io ve lo dico in faccia; io non so patire uno Spirito soverchiatore; il mio spirito non soverchia mai. (Continua la danza.) Oggi, ben veggo, non ne verrei a capo di nessun modo; ma io sono pur sempre disposto a fare un viaggio, e spero ancora, prima ch’io sloggi dal mondo, di dare lo sfratto ai diavoli ed ai poeti.
Mefistofele. Egli va dritto a sedersi in una pozzanghera, chè quest’è il suo quotidiano refrigerio; e quando le mignatte si sieno ben bene sfogate in succhiargli le natiche, egli è ad un tempo guarito degli spiriti e dello spirito. (A Fausto che è uscito di ballo.) Perchè hai tu lasciato andare quella vezzosa fanciulla che danzando ti cantava sì dolcemente?
Fausto. Ah! nel bel mezzo del canto le è schizzato di bocca un topolino rosso.
Mefistofele. Egli è assai semplice; e non bisogna stare così sulle sottigliezze: bastiti che il topo non fosse bigio. Chi può darsi fastidio di simili baie sul buono di appiccare l’uncino?
Fausto. Poi vidi....
Mefistofele. Che?
Fausto. Mefisto, vedi tu là lontano una bella e smorta fanciulla, che si sta tutta sola in disparte? Ella si ritrae lenta lenta, e all’andare direbbesi che avesse i piedi ne’ ceppi. In verità a me pare ch’ella somigli alla buona Margherita.
Mefistofele. Deh, lascia andare! chè non ne esce alcun bene. La è una figura magica, inanimata, un idolo. Male ne piglia a chi le si pone innanzi: quell’assiderato suo sguardo assidera il sangue, e l’uomo n’è rapidamente convertito in sasso. Tu hai certo udito narrare di Medusa.
Fausto. Veramente son gli occhi di un morto, che non furono chiusi da una mano benevola. Quello è il seno che Ghita mi ha conceduto; quello il soave corpo di lei.
Mefistofele. Quello è tutto stregoneccio, o pazzo che sei, da lasciarti così: subito affascinare! Sappi che a ciascuno ella sta innanzi in forma della donna ch’egli ama.
Fausto. Che dolcezza! — ed oh, che struggimento. Io non so levarmi da quella vista. Ed è pure strano quel nastricello rosso posto come per vezzo intorno al suo bel collo, non più largo del dosso di un coltello.
Mefistofele. Tu di’ il vero; e il veggo io pure. Ella potrebbe anche portare il suo capo sotto l’ascella, però che Perseo gliel’ha reciso. E ta andrai sempre così pazzo delle illusioni! Orsù, vientene là in vetta a quel poggio, chè ti ricreerai come se tu fossi a Vienna nel Prater; e s’io non ho le traveggole, ivi è veramente un teatro. Ehi! che è quel che si prepara costa?
Servibilis. Si ricomincia subito. Una nuova farsa e l’ultima delle sette; chè tante appunto noi sogliamo darne quassù. Essa fu scritta da un dilettante, e sarà recitata da dilettanti. Signori, io mi vi scuso se sparisco, ma io mi diletto di alzare il sipario.
Mefistofele. Piacemi di trovarvi sul Blocksberg; chè qui siete in luogo degno di voi.