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capitolo v. 67


Finalmente l’afflitta natura fu soccorsa dal pianto. Sonavano dieci ore in castello, e la prim’alba entrava pel fesso della finestra. Avevo sul capo appiccata al muro la spada e l’altr'arme; alzando gli occhi mi venne veduta la tracolla azzurra, che molt’anni prima m’avea dato Ginevra. Quella vista, a guisa di una balestra che scocca, m’aperse la strada alle lagrime, che cominciarono ad uscirmi a torrenti, e questo, sollevandomi il petto, fu cagione ch’io rimanessi in vita. Dopo ch’io ebbi pianto un’ora buona senza mai fermarmi, mi parve d’esser rinato e potei ascoltare e parlare; e col soccorso del buon Franciotto, venni passando quella giornata, e verso sera mi volli alzare.

A mano a mano che ritornavo in me, consideravo qual partito dovessi pigliare in tanta calamità: e d’un pensiero in un altro, disperatomi affatto di poter rimanere in vita, e considerando, se mi lasciavo consumare dal dolore oncia a oncia, quanto fosse per riuscirmi insopportabile una tal qualità di morte, ritornai in que’ primi risoluti pensieri di morire allora per volar dietro a quell’anima benedetta. E così deliberato con me medesimo, mi parve aver fatto un grandissimo guadagno, e mi sentii mezzo racquetato.

Franciotto, che era stato meco dalla sera innanzi, uscì per veder un momento la bottega, e mi promise di tornar tosto. Io, posto mano alla daga (che è questa appunto ch’io ho accanto), volli far quell’effetto allora allora. Poi ripensato meglio che in quella sera si dovea far la sepoltura alla Ginevra, volli rivederla ancora una volta, e morirle vicino. Vestito così a bardosso, cintomi la spada, e preso l’ultimo mio bene, quella tracolla azzurra. uscii.

Passato ponte, m’abbattei nel mortorio. Venivano i frati della Regola a due a due, e più compagnie di fratelli cantando il miserere, e prendevano per via Julia e Ponte Sisto, colla bara coperta d’un gran drappo di velluto nero.