Etica/Libro Secondo/VII
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VII. — La possibilità della conoscenza vera.
Nelle prop. 37-47 Spinoza tratta della conoscenza vera e della sua possibilità nell’uomo. Se tutte le idee fossero tali da poter essere isolate dalla concatenazione divina e perciò esser rese mutile e confuse, non vi sarebbe per noi speranza di salute: donde avrebbe inizio per noi la conoscenza della verità? Ma vi sono idee tali che nemmeno la nostra radicale imperfezione può trasformare inadequate e queste sono le idee che non possono venir ristrette ad un’essenza particolare e perciò non possono venir isolate dalla concatenazione divina: le idee degli attributi e della sostanza divina, che sono il fondamento di tutte le idee particolari.
Prop. 38. Quello che è comune a tutte le cose e si trova in maniera uguale nella parte e nel tutto non può venir concepito che in modo adequato.
Spinoza parla di queste idee comuni, come se fossero indeterminatamente molte (prop. 38, coroll.): ma in realtà si riducono alle idee di Dio e dei suoi attributi. Anche qui Spinoza, fedele al suo parallelismo, vede anzitutto queste idee comuni sotto il loro aspetto fisico; se vi sono idee comuni a tutte le idee delle essenze singole, vi devono essere realtà fisiche comuni a tutti gli esseri fisici particolari: sono queste realtà fisiche universali che, sotto l’aspetto spirituale, costituiscono le idee universali (prop. 39). Queste idee universali sono le vere idee innate, notiones communes: esse sono idee di entità universali sì, ma individuali e concrete e perciò sono ben da distinguersi dalle idee generali, astratte (le notiones secundæ), le quali non sono che rappresentazioni generiche confuse.
Le idee innate, che sono sempre necessariamente vere, diventano poi l’origine di altre idee vere.
Prop. 40. Tutte le idee che conseguono nella mente da idee, che sono in essa adequate, sono anch’esse adequate.
Il passaggio alla conoscenza adequata della realtà ha luogo così per un grado intermedio: la conoscenza adequata dei principii universali. Quindi si hanno tre gradi nella conoscenza. Il primo è dato dalla conoscenza inadequata, dall’imaginatio (che Spinoza distingue ancora in conoscenza derivante dall’esperienza e dalla tradizione). Il secondo è la conoscenza dei principii universali, che contengono ancora solo in potenza, in astratto, la conoscenza adequata della realtà. Il terzo è la conoscenza adequata immediata, intuitiva.
2) La conoscenza vera introduce anche nell’anima la certezza della verità, quel senso di evidenza che nella scuola cartesiana era considerato come il criterio infallibile della verità. E questo non perchè si accorda con il suo oggetto (l’ideato), ma perchè è una realtà intrinsecamente perfetta, laddove l’idea falsa è, anche come idea, una realtà mutila. L’evidenza è la coscienza che il vero conoscere ha di se stesso. La falsa certezza che può talora accompagnare l’errore non può essere con fusa con l’evidenza, perchè non è che assenza di riflessione e di critica.
Prop. 43. Chi ha un’idea vera sa nello stesso tempo di avere un’idea vera nè può dubitare della verità della cosa.
Nessuno che ha un’idea vera ignora che l’idea vera involge la più alta certezza: aver un’idea vera non significa infatti altro se non conoscere una cosa perfettamente o il meglio possibile; nè alcuno potrà dubitare di questo a meno di credere che l’idea sia qualche cosa di muto come una pittura su d’una tavola e non un modo del pensiero, cioè l’atto medesimo del conoscere. Io chiedo infatti: chi può sapere che conosce una cosa, se non conosce prima la cosa? Cioè a dire, chi può sapere di aver la certezza su qualche cosa, se prima non ha questa certezza? D’altra parte che cosa può esservi di più evidente e di più certo dell’idea vera come norma della verità? Come la luce fa conoscere sè e fa conoscere le tenebre, così la verità è norma di sè e del falso. (Et., II, 43, scol.).
3) Come la conoscenza mutila e confusa aveva per effetto di farci apparir le cose come mutevoli e contingenti, di trasformare il mondo delle essenze eterne in un mondo di cose soggette al tempo, così per contro la conoscenza che partendo dalle idee universali adequate, procede alla ricostruzione del sistema delle idee vere ci apprende le cose nel loro ordine e nella loro necessità. Essa è ciò che Spinoza chiama ragione.
Prop. 44. Appartiene alla natura della ragione il contemplare le cose non come contingenti, ma come necessarie.
Essa è un processo, non un semplice atto e non ci pone senz’altro dinanzi al regno dell’eternità: ma ce ne apre la possibilità, riverbera sulle cose contemplate la luce delle cose eterne: perciò Spinoza dice che essa ci fa apprendere le cose sotto un certo aspetto dell’eternità (sub quadam æternitatis specie)1.
4) Nelle prop. 45-47 Spinoza tratta infine dell’idea universale suprema che è sempre in noi perfetta ed adequata, che è la sola e la vera idea innata — dell’idea di Dio. Come Dio è il fondamento immutabile di tutte le cose, così l’idea di Dio è necessariamente implicata in tutte le altre idee: ed essendo il loro principio universale e comune, non può mai diventare mutila e confusa. Il principio, da cui sorge in noi la conoscenza vera, il germe incorruttibile che ciascuno porta in sè e che può diventare il principio della liberazione, è dunque veramente l’ idea innata di Dio, la presenza immediata di Dio nell’anima.
Prop. 45. Ogni idea di qualsivoglia corpo o con singolare attualmente esistente involge necessariamente l’eterna ed infinita essenza di Dio.
Prop. 46. La conoscenza dell’infinita ed eterna essenza di Dio, che ogni idea involge, è adequata e perfetta.
Prop. 47. La mente umana ha una conoscenza adequata dell’infinita ed eterna essenza di Dio.
Che l’uomo abbia almeno un principio della vera conoscenza di Dio, per Spinoza non è dubbio. Le controversie e gli errori che sorgono in questo campo nascono da ciò che gli uomini vi uniscono spesso immagini incongrue e non esprimono con chiarezza e precisione il proprio pensiero: gran parte delle dispute teologiche sono dispute verbali.
Alla tua questione se io abbia di Dio un’idea così chiara come del triangolo, rispondo affermando. Ma se mi interroghi se io abbia un’immagine così chiara di Dio come del triangolo, risponderò negando: perchè non possiamo rappresentarci Dio, ma possiamo ben pensarlo. Ed ancora è da notare che io non dico di conoscere Dio a fondo, ma di conoscere alcuni dei suoi attributi, non tutti e nemmeno la massima parte: ed è certo che l’ignoranza nella massima parte dei punti non impedisce di avere conoscenza di alcuni di essi. Quando io studiava gli Elementi d’Euclide, ho compreso tra le prime cose che i tre angoli d’un triangolo sono pari a due retti; io comprendeva allora chiaramente questa proprietà del triangolo, sebbene ne ignorassi molte altre. (Lett. 56).
Di qui vediamo che l’essenza infinita e l’eternità di Dio sono da tutti conosciute. E poiché tutte le cose sono in Dio e sono concepite per mezzo di Dio, ne segue che noi da questa conoscenza potremo dedurre moltissime altre conoscenze adequate e formare così quel terzo genere di cognizione del quale dicemmo nello scolio 2 della prop. 40 e della cui eccellenza ed utilità tratteremo nel quinto libro. Che poi gli uomini non abbiano di Dio una conoscenza così chiara come delle nozioni comuni, viene da ciò che non possono rappresentarsi Dio come si rappresentano i corpi e che hanno associato il nome di Dio alle immagini delle cose che sono soliti a vedere; ciò che difficilmente gli uomini possono evitare in quanto sono continuamente affetti dalle cose corporee. E in realtà la maggior parte degli errori consistono solo in questo, che non applichiamo giustamente i nomi alle cose. Quando alcuno dice che le linee condotte dal centro del circolo alla circonferenza sono disuguali, certo egli intende, almeno allora, per circolo altra cosa da quella che intendono i matematici. Così quando gli uomini errano in un calcolo, hanno nel pensiero altri numeri da quelli che hanno sulla carta... E di qui nascono la maggior parte delle controversie, ossia da ciò che gli uomini non spiegano correttamente il loro pensiero o interpretano male l’altrui. In realtà, quando massimamente si contraddicono, o pensano le stesse cose o pensano diversamente ma di cose diverse, sì che gli errori e gli assurdi, che si imputano, non sussistono. (Et., II, 47, scol.).
Note
- ↑ Le osservazioni del Baensch (Spinoza’s Ethik, p. 284) contro l’interpretazione usuale dell’espressione «sub æternitatis specie» mi sembrano un’innovazione assai infelice. La frase «sub specie» nel senso qui adottato ricorre già nella scolastica. Non è nemmeno vero, del resto, quello che il B. asserisce, e cioè che in Spinoza species significhi sempre falsa apparenza. Ciò è vero solo in due dei tre esempi da lui citati: e cioè in Eth., IV, cap. XVI (quamvis pietatis speciem prae se ferre videatur) e il cap. XXIV (quamvis indìgnatio æquitatis speciem prae se ferve videatur); ma nell’altro es. citato e cioè Eth., V, 10, schol. (falsa liberatis specie gaudere) ed altrove, come, p. es., Eth., IV, cap. XXII (falsa pietatis et religionis species) la falsa apparenza è detta falsa species; ciò che presuppone species = vera species.